Rubrica settimanale di Gabriele Perretta di critica mediale: osservatorio, libri, personaggi, ri-letture, percorsi, bilanci, racconti.

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La “location” «The Square» I

I processi di acidificazione hanno man mano mutato l’arte contemporanea e le relazioni che la caratterizzano, modificando anche gli orientamenti dei movimenti artistici e dei presunti linguaggi visivi: le istanze hanno iniziato ad avere rilevanza mondiale e le basi sociali della sua crisi e della sua confusione (post-avanguardistica) si sono estesi, fino a comprendere soggetti di vari campi ed estrazioni, rendendo eterogenee le forze del riconoscimento, prive, nel loro insieme, di una multidentità e di una multimedialità. Tutto il problema del film The Square pertanto è quello di fare di questa tematica “da piazza” una tematica “di strada”, di operare affinché questa proliferazione critica, di ambienti consunti, sia indotta a svolgere una sua funzione nel racconto futuro dell’arte! Ma ciò non è sempre facile!

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MIRACOLI!

Il presente è d’una consistenza miracolistica: esso vive nella propria deliberazione medio/mediale o medio/mediocre, nel dileguarsi del proprio hic et nunc. Esso, costantemente – come l’arte contemporanea ha spesso dimostrato – mentre si trasforma permanentemente nel reiterarsi del trans-illusionistico, restituisce al proprio oltre l’estrema spazializzazione del “tempo morto dell’estetico”, il tempo dell’irrealizzabile.

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A/traverso F for Fake II

Viviamo nell’epoca di F for Fake, in cui l’immaginario diventa una forza strategica del processo di valorizzazione della bugia, e l’arte sembra perdere quella funzione sovversiva, quella capacità di critica corrosiva del reale che la modernità le aveva assegnato. La guerra sta trasformando tutte le immagini in emanazioni di veridicità, e pare togliere al cinema il carattere di impronta del reale. Il potenziale di F for Fake rilancia in maniera originale gli interrogativi fondamentali sulle funzioni dell’arte della menzogna, sui suoi rapporti con i processi sociali, sul suo ruolo nel convulso mescolarsi di autenticità e fandonia che caratterizzano la storia del cinema.

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A/traverso F for Fake I

Il problema della sincerità del cinema è uno dei cardini attorno a cui da sempre ruota la vita della settima arte. È un problema assolutamente trasversale, che trova declinazione in tutti gli ambiti relativi al confronto artistico ed estetico, dalla più banale ripresa della quotidianità al più profondo occhio di riproduzione religiosa, dal documentario sulle relazioni interpersonali alla conoscenza della fotografia sociale. L’ampiezza e la centralità di tale tema è attestata dalle innumerevoli narrazioni che dentro di esso sono state scritte.

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Lo «scandalo» di Roland Barthes

Ci è sembrato non solo opportuno, ma necessario, dedicare uno sguardo alla prospettiva barthesiana fuori le righe, considerata come una sorta di laboratorio caratterizzato da aspetti di originalità che possono sorprendere chi pensa che la riflessione di Roland Barthes sia sempre e comunque tributaria di proposte e formalizzazioni scontate. Siamo convinti che lo sviluppo degli insegnamenti di Roland Barthes, in Occidente, abbia creato le condizioni perché maturasse una varia, e spesso importante, articolazione di critica e di analisi. Non è un caso, dunque, se i testi di Barthes qui considerati hanno quasi solo matrice inedita e sorprendente.

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È stata la mano di Dio

È strano, solo in apparenza, come questa sensazione di cambiamento sia in noi cominciata ad emergere in quelle forsennate sere di festeggiamenti per lo scudetto del Napoli, scaturendo dalla vita quotidiana, la più vicina alle scene di un film. Allora avevamo sbagliato taglio, se le note, chiare, limpide, ci venivano da parti e materialità insospettabili, forse inconsciamente da noi rifiutate come non attendibili: e invece erano proprio lì i segni della ripresa di un viaggio attraverso il proprio esistere. Non siamo soli e non siamo i primi: i soli sono inutili e inappagate cassandre, in primis ottusi e inani vanesi.
Noi siamo attori della «Mano di Dio» che si fermano ai bivi delle strade per Roma, ad attendere sconosciuti compagni di viaggio; l’esperienza comune ci renderà tutti Fabietto o Tony Pagoda, ma avremo anche prodotto qualcosa insieme, qualcosa di cui non vergognarci.

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Effetto Duchamp (IV)

L’ironia diviene non solo il principio di una nuova forma di vita artistica, ma anche di un’inedita possibilità di pensare l’artista e il processo creativo. Un principio di unione, di conflitto, di resistenza, ma anche di desistenza e di speculazione vuota. I tratti ironici che lo assecondano sono le coordinate di quella anomala figura del contemporaneo, e della vera teoria politica dell’approccio artistico, che potrebbe denominarsi: risibilismo.

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Effetto Duchamp (III)

Il grande evento di questo periodo, il grande effetto degli effetti, è questa agonia dell’effetto, l’agonia dell’accadimento e della felicità di vivere, che introduce un’idea della guerra costante e parallela. Da oggi, la sola vera pratica artistica, quella del liberalismo dell’effetto, è una pratica violenta, animatoria e alternativa alla storia: labirinto dei segni in esposizione che segue un senso insensato … La macchina memetica del ready-made cerca ovunque e, invece di essere l’incubo della significazione, serve implicitamente a ungere i bordi … Questa osservazione apre una serie di problemi che richiedono di essere affrontati. Che differenza c’è tra il gioco del ready-made e il giocare dei bambini all’angolo della strada, cioè tra il gioco dell’artista sociale nei processi di interazione e l’arte istituzionale? Perché gli storici dell’arte hanno prestato così poca attenzione al gioco sociale del ready-made?

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Effetto Duchamp II (seconda parte)

Seconda parte: … L’esperienza del ready-made, del “coefficiente creativo” è percorsa dall’illusione della disponibilità immediata delle cose, dei significati, degli oggetti assurti a “linguaggio totale” (illusione non meramente esegetica, ma, ormai, attiva come forza di dominio). Sarebbe un gesto o veramente concettuale, o apotropaico, o consolatorio, rinviarlo a una qualche garanzia storica, o un qualche positivismo, o celebrarne l’esplosione liberticida nel postmoderno. Occorre piuttosto tener fermo questo nesso persuasivo: come l’esperienza dell’apatia concettuale, ovvero lo spostamento dell’arte sulla scacchiera fuorviante dell’illusione di padronanza degli enigmi, si confronta con il liberalismo artistico dominante …

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Effetto Duchamp (prima parte)

Prima parte: Come mai anche i ready-made più banali e generici sembrano descrivere con puntualità il nostro stato di crisi artistica? Perché le costruzioni vaghe (e un po’ lusinghiere), nella pratica delle arti-stars, sono sempre convincenti? Qualunque cosa dicano di noi, i post-ready-made non ci insegnano qualcosa di nuovo, eppure sono i più diffusi nel mondo e per il mondo: la vittoria del «processo creativo duchampiano»? Il “gesto bloccato” del “processo” esprime forse una diffidenza dell’enigma, nell’incontrastata sicurezza di un oggetto che tutto assorbe e modula nel proprio infinito costruire e ambiguizzare: e si ostina ad evocare, tra chi assimila e chi fruisce, le irriducibili qualità di qualche cosa d’altro …

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«Irony of Fate»: Carlo Caloro

«L’irony of fate» non costituisce una sovranità autonoma e chiusa, una rete bloccata senza comunicazione con ciò che gli sta intorno. Le immagini – come le istallazioni, come tutto il resto del visivo – non possono evitare d’essere intercettate dai molteplici movimenti da cui dipenderà il loro significato nell’ambito delle società. Dal momento in cui la cultura si impadronisce delle icone fluttuanti, il testo visivo di Caloro, come tutti gli altri, si offre agli effetti della forma, del discorso e del “meme.net”.

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Moderno, Volontarismo e s/confine: tra Menna e Beke

Questa è la seconda parte del testo del 1985, sui temi del moderno/postmoderno dibattuti durante gli incontri promossi da Città senza confine e dalla rivista Città & Città, che furono momenti di riflessione sulle “arti cosiddette analogiche e riproducibili”. In altre parole, un qualcosa del secolo scorso, che aveva conosciuto la sua epoca d’oro nello sviluppo del pensiero di László Beke che, successivamente, fu dimenticato, denigrato, svalutato dalla finta informazione documentaria e dalla storiografia banale, che negli ultimi tempi è tornata commettendo gli stessi errori di allora. Per tale motivo, questa uscita sceglie di focalizzare l’attenzione – ponendo a confronto l’eredità di Menna e Beke – sulle proposte di pensiero autonomo, indipendente, volontaristico e post-metropolitano, rispetto all’esclusivismo post-moderno.

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Moderno, Volontarismo e s/confine: tra Menna e Beke 

(prima parte) (ecr.: 06, Archivi Città & Città, Napoli, 1985)

Quando in Italia si parla di modernismo, generalmente si intende un movimento politico-sociale e filosofico di critica al pensiero cosiddetto finzionalista. Molto meno conosciute sono le posizioni della critica, sviluppatesi soprattutto in ambito anni Ottanta, che partendo dal dibattito su «confine» e «sconfinamento», sul perimetro del moderno e del post-moderno, inteso come dialogo e non come disputa, hanno proposto strumenti e metodi per l’analisi dei testi e delle «arti contemporanee». Questo scritto li analizza, attraverso la partecipazione di Menna alla manifestazione e al catalogo di Città senza confine (in una scrittura dell’84, ripresa e aggiornata dagli archivi della rivista d’avanguardia diretta da Luca Luigi Castellano: Città & Città, nel 1985) e si pone come un tassello utile allo sviluppo «dell’analisi volontaristica e critica» nei confronti del moderno e del post, in cui emerge una semiotica del soggetto s/confinato (deragliato), vale a dire una lettura attenta ai processi di significazione attraverso cui il soggetto si costituisce in quanto «de(/)liberato». Per questo motivo, il testo non è indirizzato solo ai critici d’arte, ma anche in generale a tutti coloro che vivono con partecipazione la lotta all’oblio di questi nostri tempi, nei quali si abita e a cui piace negare la lettura e il ricordo di intellettuali come László Beke. Infatti, vista la recente scomparsa di Beke (23 May 1944, Szombathely – 31 January 2022) e, visto il silenzio totale intorno alla sua morte, questo testo propone un tributo al critico d’arte ungherese e, spostandosi dai luoghi comuni delle celebrazioni, ne individua alcuni temi chiave: la fine dell’arte, la vicenda dell’ermeneutica contemporanea, la nascita della cultura volontaristica, le discussioni classiche e moderne sul rapporto tra l’immagine e la parola.

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Paralogia, deragliamento & sconfinamento ( ecr.: 05/ ‘85-86)

Attraverso le loro paralogie gli scritti dell’Archivio Città & Città e Città senza confine mettono alla prova, interrogano e sottilmente portano a compimento “incertezze del linguaggio critico”, degli anni Ottanta. Il testo qui raccolto si può coordinare e intrecciare intorno al tema della “sconfinatura”, ovvero dell’enigmatica e pur evidente relazione tra parole, cose, idee. I frammenti di testo qui raccolti e per la prima volta presentati al lettore italiano ne danno probante testimonianza. Per questo Filiberto Menna non può inoltrarsi nel meccanismo teorico che escluda il mistero per costruire il sistema di una logica solo in apparenza chiara e risolutiva. Al contrario, procede di rottura in rottura preferendo considerare la critica “a son défaut” per condurre al suo punto estremo la contraddizione tra scrittura interpretativa e pensiero visivo.

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Io cammino, tu cammini, «Egli s/confina» (ecr. 04- 1985/6: Città senza confine)

Le soluzioni per attraversare la città sono tante, più o meno percorribili, ma ci sono. L’importante è non demordere e assorbire le condizioni sociali della mutazione artistica, non solo di macchina da scrivere, ma anche di autovalorizzazione dello sconfinamento e imbracatura performatica per scalare la difficile condizione della «Città senza confine». Se l’accezione abituale di senso allude a qualcosa di definito, l’idea degli annali di Città & Città dell’83-84, qui di seguito recuperata e ancora attuale, è quella di un senso indefinito, onnidirezionale, che si articola in momenti eterogenei e, soprattutto, in qualcosa di assolutamente instabile e s-quilibrato.

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Trame di «un cielo per Roma» (Mariano Baino)

Romanzo della “inappetenza”, di un rappresentante del “tempo sconosciuto” di fronte alla incomprensibilità del mondo, Il cielo per Roma offre alcune fra le pagine più “irritanti” della letteratura del nostro secolo. Il suo racconto è stato paragonato al Chisciotte di Cervantes, come astuto rifiuto delle alte sfere del male, in quanto satira razionale delle assurdità di una cultura e di una società, condotta attraverso la paradossale ambiguità del non-protagonista: “Chiamatemi Chiaffredo. Ma non chiedetemi perché. Non ora almeno, non subito. Posso solo anticipare che sono un tipo strano, sì, anche più strano di questo nome, ma il difficile è spiegarvi per quali ragioni. Il difficile è spiegarvi l’Ambaradan in cui mi sono trovato e ancora mi trovo, e in cui peraltro anche voi vi trovate. Ma calma, vi prego, sono un tipo lento. Di una lentezza, come a volte dite voi, dell’altro mondo. Sono infatti un trapassato. Anzi, un trapassato, se la mettiamo nei termini di chi viene prima e di chi viene dopo, se vogliamo usare le cordinate del tempo come voi le conoscete” (Il Cielo per Roma, Baino, 2021).