La Sofia di Spinoza

MIRACOLI!

Il presente è d’una consistenza miracolistica: esso vive nella propria deliberazione medio/mediale o medio/mediocre, nel dileguarsi del proprio hic et nunc. Esso, costantemente – come l’arte contemporanea ha spesso dimostrato – mentre si trasforma permanentemente nel reiterarsi del trans-illusionistico, restituisce al proprio oltre l’estrema spazializzazione del “tempo morto dell’estetico”, il tempo dell’irrealizzabile.

Il presente privilegia, fra le strategie della disillusione, quella del miracolo. Il presente è aperto al miracolo, si sporge sulla possibilità di realizzazione liberale della cosa; la sua condizione d’essere è la sua consustanziale miracolosità, il suo essere proiettati verso una “contestazione che non ci sarà mai”, verso una militanza, contro l’orrore, inattuabile, della Guerra e del Capitale, verso un destino che comprende tutte le ragioni dell’unità …e poi “questa unità sarà destinata a svanire”. Il miracolo è la teomedialità autoritaria: si crede di averne compreso la natura, o, almeno, di aver compreso a quale ordine di fenomeni appartiene – al soprannaturale, è ovvio, però, manifestandosi attraverso il mondo politico dei media – e invece, quando lo si considera meglio, ci si accorge di aver messo in fila semplicemente delle parole, ma di non essere riusciti neppure a sfiorarne l’essenza. E come si può dare una definizione di ciò che non si comprende?

A ben guardare, noi non conosciamo neppure che cosa sia il “miracolo mediale”. Sì, gli scienziati sociali lo studiano, lo esplorano, lo scandagliano in lungo e in largo, e non si fermano mai; sono riusciti a comprendere delle cose che parevano al di là della nostra portata, e ciò in un tempo sorprendentemente breve. Però, quanto ad aver compreso che cosa esso sia, ovvero al di là del determinismo de «il medium è il messaggio», è un altro discorso. Un conto è saper descrivere i “fenomeni del potere”, ed essere capaci di riunire quelli fondamentali in una serie di leggi, e un altro conto è disporre dei mezzi per dire d’aver compreso cosa sia la natura costitutiva della dinamica del potere che è così e non in altro modo, nel suo complesso e, soprattutto, nella sua essenza. La natura del miracolo non è la somma aritmetica dei fenomeni che la compongono; e, anche se lo fosse, noi siamo ancora ben lontani dall’avere, di tali fenomeni, una panoramica, non diremo soddisfacente, ma anche soltanto approssimativa. A dispetto delle molte e stupefacenti scoperte dell’ultimo secolo, la verità è che abbiamo appena scalfito la superficie del mistero del comando e delle strategie che lo sorreggono.

Ci sentiamo bravi e importanti, perché siamo riusciti a dare un’età all’universo del Capitale: ma a quale universo del Moderno e a quale forma di tendenza del liberalismo? A quello posteriore al Big-Bang dell’età pre-industriale, cioè all’universo così come lo conoscevamo ieri o come lo conosciamo oggi: e ciò soprattutto studiando e calcolando la velocità di “fuga” della tolemaicità finanziaria che lo compone, e che si allontana da un punto centrale, che dovette essere il nucleo iniziale della sua materia. Ma cosa ci autorizza a pensare che, prima di quell’evento (che gli scienziati sociali chiamano “singolarità capitalistica differente”), l’universo del Capitale, con altre immagini e con altri feticismi, non esisteva già? In verità, nel caso di un universo feticistico, caratterizzato da fasi alternate di contrazione ed espansione, e magari da successive “esplosioni” e dispersioni dell’autorità dominante, bisogna immaginare che, prima di questo universo del Capitale e della sua Finanza, ve ne fosse un altro, fatto con gli stessi soldi, con gli stessi simboli e con gli stessi feticci, ma diversamente distribuiti. E prima? Un altro. E così via, forse per milioni e miliardi di volte sempre e solo Das Kapital; forse più ancora … verso l’infinito. Ma qui la mente umana comincia a vacillare, a non essere più tanto sicura di se stessa e a credere nel Miracolo.

Davanti a concetti come l’infinita moneta del Capitale, l’infinito dominio capitalistico, essa può solo dare delle formulazioni di ordine logico, ma non afferrare veramente il senso di quel concetto: perché non esiste, né nel mondo visibile, né nella nostra mente, qualche cosa di paragonabile all’infinito. E come si può capire ciò di cui non si ha assolutamente esperienza? E questo, del resto, è solo un caso estremo. Possiamo anche limitarci a parlare di cose relativamente più semplici, più vicine, più accessibili. Sappiamo che cos’è la natura delle strategie del capitale? Sappiamo come si sono formate? Esistono quattro o cinque distinte teorie, ma nessuna di esse, allo stato attuale, gode del favore di una chiara maggioranza degli scienziati sociali. E il Miracolo è il corpo strategico più vicino all’impressione della risoluzione di qualcosa: si trova, per così dire, sulla soglia di casa nostra, forse dentro casa, sotto al letto, tra gli armadi e la caffettiera. Ci siamo perfino stati (pare) in vacanza, vi abbiamo impresso l’orma del nostro piede, abbiamo assaporato il miracolo alla fragola del suo ultimo prodotto, della sua verosimile opera d’arte. Eppure, nemmeno del Miracolo dei Miracoli (la strategia Pubblicitaria docet) siamo capaci di stabilire con un certo grado di sicurezza come essa abbia avuto origine: brancoliamo nel dubbio metafisico della sua immagine, siamo divisi fra spiegazioni che si escludono a vicenda, tra fotografie che si riarruolano, tra mille scatti e mille segni che ci inondano di una mitologia Sapiente. È vero che il miracolismo si pone come una strategia per soccorrere il «reale inaccessibile all’ideologia», come l’idioma nella concezione dei dittatori, ma a sua volta non lo risolve neanche nell’autoritarismo: l’opera del miracolo è obiettivamente salvifica e nello stesso tempo la bontà della sua strategia è solo comando d’illusione: ecco l’aporia. Il teologo delle strategie di miracolo, il politico di turno, ne esce come può: si occuperà della bontà della strategia, non del messaggio in se stesso, proprio come lo stratega si occuperà dell’ideologia liberal, non del pensiero in sé e per sé. Sembra che questa sia una difficoltà dei tempi di “guerra costante”: oggi, ancora per il momento, c’è una sola scelta possibile, e questa scelta può solo vertere sulla spinta miracolistica; oppure, inversamente, presupporre un esistente alla fine impenetrabile, e, in tal caso, fare strategia pubblicitaria del Miracolo. “Indubbiamente il fatto che non possiamo andare al di là di una presa instabile del reale è la misura stessa della nostra alienazione di oggi: oscilliamo continuamente tra l’oggetto e la sua demistificazione, incapaci di rendere la sua totalità: perché se penetriamo l’oggetto, lo liberiamo ma lo distruggiamo; e se gli lasciamo il suo peso, lo rispettiamo ma lo restituiamo ancora mistificato. Sembra quasi che si sia condannati per un certo tempo a parlare sempre eccessivamente del reale. Ciò si deve indubbiamente al fatto che l’ideologismo e il suo contrario sono comportamenti ancora magici, terrorizzati, abbagliati e attratti dalla lacerazione del mondo sociale” (Roland Barthes, Miti d’oggi, tr.it. di L. Lonzi, Lerici, Milano, 1966, p. 250).

Sembra un concetto abbastanza chiaro e semplice, almeno in teoria: eppure, basta pochissimo per rendersi conto che abbiamo spiegato ben poco, anzi, che non abbiamo spiegato praticamente nulla, con una simile definizione. Abbiamo formulato poco più che un gioco di parole: il soprannaturale del potere liberal che si manifesta nell’apparenza naturale del Miracolo.

A questo punto, ci troviamo già sulla strada per capire, non proprio cosa sia il miracolo, ma in quale prospettiva ci si debba porre di fronte ad esso, non per capirlo, ma, semplicemente, per accettarlo. Il miracolo, infatti, è un intervento straordinario della strategia divina del potere liberal, che assume la forma di un dono e, quando si riceve un dono, non c’è nulla, propriamente parlando, da capire, ma semplicemente da accettare e noi tranquillamente accettiamo. In un certo senso, è lo stesso tipo di situazione che si configura allorché avviene una offerta pubblicitaria: di puro calore, affetto finanziario, senza fini ulteriori.

Nella teologia del Liberalismo non c’è quasi nulla di così poco chiaro come il miracolo. Molti vedono in tale evento la “tecnica della teologia economica”. Di per sé non lo è, mentre le speculazioni, al riguardo, si indirizzano verso un modo errato di porre la questione, ossia dal punto di vista delle scienze sociali e dell’ideologia capitalistica atea.

Entro questa sceneggiatura vive per molti versi anche un miracolo specifico, ovvero quella miracolosità del presente che si trova nell’arte del non voler essere, piuttosto che in quella della sua santificata apparizione mediatica. Non c’è miracolo artistico-politico che non assuma, come già Spinoza (nel Capitolo VI del Trattato Teologico-Politico) ricordava, la forma dell’appello, del chiamare a sé la strategia dell’Illusione. Se il Miracolo non interpellasse, se non chiamasse a sé, neppure sussisterebbe. È questo per altro il miracolo del teatro-spettacolo che esso assimila, garantendo la paradossale durata dell’istante invocato dall’Internazionale Engagement dell’Europa Medio-Liberal (IEEML) …

Girolamo Tessari, Il miracolo della mula, 1515 ca.

La liberalità spettacolare comporta l’organizzazione della convivenza socio-miracolistica e dell’attività politica su base consensuale. L’analisi psicosociologica dell’intellighenzia liberal, che comprende la funzionalità delle arti e dello spettacolo, mette ciò in chiara evidenza. Ma nello stesso tempo, conduce a distinguere tra il consenso indotto da iniziative propagandistiche utili sul piano politico per avviare gli artisti sociali all’attiva convergenza su una linea generale, ma apportatrice di una distorsione ideologica nella pratica dell’industria culturale, dal consenso commisurato al grado di sviluppo ed all’ampiezza di orizzonte sociale raggiunto dalla comunità mediale. Quest’ultimo è il tipo di consenso essenziale alla caratterizzazione, in senso liberal, dell’organizzazione della sfera privata di dominio.

Quello del consenso miracolistico popolare è indubbiamente un problema fondamentale della vita politico-mediale, in quanto dall’adeguata soluzione di essa dipende in maniera determinante l’effettività dell’azione miracolistica. Ma il consenso, di per sé, non contraddistingue l’orientamento sensazionalistico del potere e non basta a connotarlo in senso liberale, dal momento che anche i poteri assoluti ne hanno bisogno e la tecnica per l’acquisizione del favoritismo miracolistico ha una parte di rilievo nell’educazione dei social media e dei social-poteri (micro e macro poteri).

C’è, infatti, una tecnica della persuasione al miracolo intesa a promuovere il consenso delle moltitudini di opere-rivelazione sull’opportunità di una santificazione politica, sulla validità di un’iniziativa di governance artistica o, nell’ambito commerciale, sulla bontà di una esposizione offerta e consumata. Tale tecnica mira ad accreditare l’ideologia del governo, del governante o del curatore commerciale (con tutto il suo entourage consensuale), indipendentemente dalle convinzioni sulle quali si fondano gli orientamenti dei singoli artisti, che vengono guidati dalla consapevolezza relativa alla condizione storico-sociale in cui vivono ed operano. C’è, d’altra parte, un organico atteggiamento degli artisti al consenso, che riflette le tendenze di determinati gruppi o cerchie sociali e si manifesta in ampie convergenze di volontà miracolosa, nonché di assensi o dissensi del tutto indipendenti da ogni iniziativa propagandistica o promozionale. 

È vero che questo tipo di consenso si esprime in ambiti per lo più ritualistici e, tranne su questioni di invisibile e riconosciuta portata, nella quale si manifesta la convergenza generale dei miracoli, non raggiunge un’estensione di raggio comunitario. Ma, viceversa, determina spesso in seno alla comunità fratture e contrapposizioni di gruppi di interesse, di corporazioni galleristiche, di classi, che sembrano giustificare il ricorso a tecniche di persuasione, esprimendosi in una particolare strategia intesa ad indurre il consenso sociale utilizzando il meccanismo del miracolo condizionato (vedi riflesso).

Comunque si voglia impostare il problema, ci si avvia all’impiego di un metodo che si risolve, e non può non risolversi, in un processo di strumentalizzazione degli artisti ai fini del persuasore. Il miracolo eseguito si spazializza, ed è così che lo sguardo emulatorio dell’Intellighenzia della Fuffa si espande nel Padiglione del trans-miracolo!

Il motivo della fascinazione è tutto qui, in questa intensificazione del tempo che, nella presenza, si fa spazio del Miracolo Rinnovato, della disillusione garantita, dell’indifferenza normalizzata. È la grande risposta cinica dei liberali della domenica e dei costruttori di divisività a sinistra: la loro proposta peculiare, per cui la natura simbolica dell’Indifferenza, l’estendersi dell’Intenso dissuefarsi, l’unità dell’infinito irrealizzato, l’estasi del tempo della Morte Annunciata, la Paralogia e la Parafrasi del trans-miracolistico perenne. È “l’estasi del pecoreccio” del caso eccezionale – come Tommaso Labranca ben sapeva – non è stasi ma movimento inutile, non è immobilità solenne e quasi d’oltretomba, ma lieve riproporsi della forma del funerale dall’apparizione Miracolosa, semiotica dell’eccezionalità e dell’inspiegabile, assunto come segno o manifestazione di una volontà mediocre e mediana.

Quando B. Spinoza entra da par suo nell’annosa diatriba sulla nozione di Miracolo, lo fa con una semplicità apparentemente smaliziata, da lasciare il lettore quasi interdetto. Spinoza non si sofferma apertamente, sulla discussione che ha coinvolto la visione tomistica del Miracolo in quanto virtutes, “portenti eccezionali”, ciò che “mostra qualcosa da lontano”, e neanche anticipa il Miracolo interpretato dal De Incantationibus di Pomponazzi, ma nel Trattato sostiene che il Miracolo è un’assurdità, è una specie di conferma di autenticità realistica del Teatro dell’Assurdo di Beckett: “opera della natura la quale superi l’intelligenza degli uomini o si creda che la superi”.

Non è qui importante – dando seguito a questi pensieri – dire se Spinoza gridi o meno, e perché. La responsabilità di far muovere le statue sacre, o la stabilità di un movimento politico, di guardarlo come qualcosa di fermo o di agitato, in movimento appunto, passa dalla parte dello spettatore e, invece di scomparire nell’assurdità, si affretti a staccare l’immobilità della statua e mettersi in movimento nelle scuole, nelle università e nei centri di cultura, per ribellarsi all’orrore e prospettare un’altra autenticità. Vorremmo ricordare ai borghesi dell’arte relazionale, della finta autenticità ingaggiata dal potere e per il potere, che è lo stesso spettatore infine a mettere in movimento l’opera: egli deve guardarla, aprendo e socchiudendo gli occhi. Quest’opera è estremamente importante proprio per la non rappresentazione del miracolo: perché una performance compia veramente l’evento, si animi davanti ai nostri occhi, bisogna che colga il vero prodigio artistico, bisogna che rifiuti il transito dallo stesso allo stesso, bisogna che scenda dal piedistallo dell’arte e che accetti veramente di confondersi con le contraddizioni del presente. Quasi a voler sfuggire ad ogni spazializzazione del miracolo, per rileggere quel “ribellarsi è giusto” di Jean Paul Sartre, Philippe Gavi e Pierre Victor. E se non bastasse l’indignazione? Jean Paul Sartre, con la solita inclemenza intellettuale, ci ha rammentato che essa, ovvero la consapevolezza della ribellione, può essere solo un primo passo, ma lo sfruttamento, la corruzione, il grido secco contro la guerra e contro il pericolo nucleare terminale, l’ecologia della salvezza, le menzogne di un sistema, si combattono solo insorgendo, attraverso un’azione politica ingegnosamente attuata dai suoi lucidi e motivati protagonisti. “Ribellarsi è giusto!” è l’infuocato grido che raccoglie le provocatorie e caustiche riflessioni contro le ingiustizie e il perbenismo della società occidentale, del suo scenario di conflitto permanente e di illusione di una salvezza e di una pacificazione introiettata dalle regole sociali del miracolo. Se ognuno di noi appone all’assurdità combattuta da Spinoza la critica al Miracolo con l’attuazione della ribellione, la non-opera, quella discesa dal piedistallo dell’autorialità referenziale, trans-miracolistica, rivivrà in questo modo per milioni di viventi. Per comprendere a fondo l’intenzione della critica, la cosa migliore e porsi di fronte a una distanza adeguata dal miracolo, con gli occhi chiusi, apriamoli e richiudiamoli subito, e vedremo muovere le strategie dell’unità e della riorganizzazione al di là dell’assurdo e al di là dell’attesa di Godot. Direi che, come si presenta attualmente il territorio dell’anti-miracolistico, esso è un lampo fissato nel suo bagliore, un’onda pietrificata mentre si frange sulla riva. Smettiamo di preoccuparci e di esibire le torce, smettiamo di accomodare strategie guardando i miracolisti alla luce di una torcia.