Le opere di Valentino Vago e Silvio Wolf sono infatti aniconiche, lasciando entrare l’invisibile nella superficie. In questo caso, il termine “invisibile” non implica una soggetto che non si può vedere, bensì un qualcosa che è invisibile agli occhi: si tratta di operazioni a metà tra l’astratto e il concettuale.
La parte della mostra dedicata a Vago s’intitola Figure e Orizzonti, racchiudendo in queste poche parole il percorso artistico dispiegato nelle sale della ex scuola di ceramica al piano terra dell’edificio. L’incipit propone infatti alcuni dei primissimi lavori di Vago dove le nature morte permettono la presenza di figure sulle tele. Successivamente, i soggetti figurativi spariscono sempre di più fino ad arrivare a figure geometriche astratte percepite dalle campiture di colore che animano ora le superfici. Anche la tavolozza cambia, escludendo dalle scelte operative i colori più freddi per lasciare spazio ad una gamma di colori caldi. In questa seconda fase del percorso artistico di Vago i rimandi sono svariati, alcuni accertati (come ad esempio uno sguardo verso Giorgio Morandi, oppure Lucio Fontana), altri invece negati dallo stesso artista (venne accusato di imitare Rothko). Ciò che colpisce di queste tele, oltre al calore veicolato dai colori utilizzati, è la conseguente luce che racchiudono e sono in grado di sprigionare.
E sono proprio queste caratteristiche che hanno spinto il curatore Luca Pietro Nicoletti a mettere in relazione l’approfondimento di uno degli artisti collezionati dai coniugi Boschi di Stefano con un artista più giovane che invece della pittura utilizza il medium fotografico. Il trait d’union tra i due è “Orizzonte nero” (1965) di Vago poiché sembra riecheggiare in “Black&White Horizon” (2008) di Silvio Wolf, nonostante la diversa tecnica e la diversa datazione. La seconda mostra, allestita al terzo piano dell’edificio, s’intitola Prima del tempo, sottolineando il momento in cui l’artista ha concentrato la sua attenzione per sviluppare le opere che vediamo esposte: esse sono la risultante dello sviluppo di rullini analogici, in cui la parte iniziale è spesso “bruciata” dalla luce. Questa porzione di rullino, infatti, precede la superficie impressionabile e sembra quindi corrispondere ad un prima del tempo immortalato nel resto della pellicola. È proprio questa prima parte del rullino, solitamente scartata e buttata, che interessa l’artista, il quale va ad utilizzare e alterare poi digitalmente fino ad ottenere delle opere d’arte su cui sembrano dipinti dei tramonti o delle albe, cieli infuocati che anche quando ci capita di vederli dal vivo assomigliano a pennellate astratte.
Il paragone è concretizzato ulteriormente al secondo piano, dove è visitabile la casa-museo così come i proprietari l’hanno lasciata: al posto dei lavori di Vago (portati per l’occasione della mostra al piano terra), Wolf ha realizzato tre opere in modo da sostituire gli spazi rimasti vuoti. Questa possibilità di scambio tra i due artisti che ne risulta, ne giustifica allo stesso tempo la vicinanza, perché le pareti della stanza in cui sono state collocate le opere di Wolf sono coperte da opere di altri artisti della collezione permanente del museo, definendo un carattere informale generale all’interno del quale Wolf si mimetizza egregiamente.
