Asger Jorn - The Situation of a Central Figure 1966-1968. Foundation. Louisiana Museum of Modern Art, Humlebæk, Dinamarca

S/language & s/confinamento

Poiché c’è consistenza del linguaggio metropolitano, ed è inevitabile che ci sia (il linguaggio è affare troppo serio per lasciarlo alle artistar), lo cercheremo in un’altra forma di post-situazionalitá: il «materialismo vandalo» di Jorn. A condizione, naturalmente, che queste differenze abbiano una qualche forma di distanza dagli spot pubblicitari di “Anselm” e dall’opera di Kiefer in generale. Il resto di questa deviazione è dedicato all’assimilazione dei segni e dei simboli dell’architettura medievale che costituiscono uno “slanguage” più esplicitamente vandalico rispetto alla piaggeria dell’arte dell’establishment.

1. Se qualcuno oggi volesse riprendere acriticamente l’armamentario del situazionismo internazionale degli anni Sessanta, per riproporlo sic et simpliciter all’attenzione politico-culturale del presente, compirebbe un’operazione molto poco situazionista, ossia ideologica e falsamente avanguardista. Un dietrologo mediocre direbbe excusatio non petita, accusatio manifesta. Ma sbaglierebbe. Sbaglierebbe perché quello che è chiaro a tutti oggi è che quel metodo di intervento è un abito di fine sartoria politica, ritagliato su un soggetto che non c’è più: l’artista-intellettuale rivoluzionario della società di massa del secondo dopoguerra. E nessuno potrebbe vestire qualcun altro, né nessuno potrebbe presentarci la facezia di Rrose Sélavy. Ciononostante, è capitato a tutti di tirare fuori dall’armadio del nonno abiti un po’ lisi ma ancora buoni da mettere, che si indossano però con un gusto e uno stile che non riproduce la moda dei tempi andati, ma con quella attitudine ironica al détournement e alla “mano di dio” decontestualizzante che, rispetto agli eventi del post-moderno, è tutto fuorché nostalgica. È esattamente all’altezza del mood che richiede “Anselm” e l’allestimento della Ribaute di kieferiana memoria! Ed è con lo stesso spirito che andiamo a tirare fuori dalla pratica post-situazionale e dalla bellissima mostra dell’IVAM di Valencia dedicata all’artista danese Asger Jorn “la creation abierta y sus enemigos”, ovvero la divisa “slanguage” del SICV (Istituto Scandinavo del Vandalismo Comparato).

Ma perché proprio questo vestito o abito scalmanato? La risposta è semplice, altro che post-critica: se si assume la critica del fare graffitistico all’aura artistar ricreata da A. Kiefer, come lavoro linguistico, come costruzione di un luogo dove contrapporsi et imperare, allora l’antitesi è fra il “vandalismo diffuso e pubblico” e il “privatismo museale”. Nella pittura post-moderna avanzata, il negativo, il contraddittorio all’espressionismo esasperato – dice la critica mediale – ossia la forza che mette a rischio l’esecuzione della stessa immagine pittorica, è annullata e inglobata dalla mitologia stessa del nichilismo. Ecco il pensiero unico dei pittori post-moderni e di tutti i lavoratori dello spettacolo che operano per farci credere allo “spirito di ipotesi”, come lo chiamava Edgar Morin. Molte certezze sono andate in frantumi, la “vecchia tavola dei valori” non ispira per comportamenti etici di altri tempi, l’artista secolarista rinuncia addirittura alla “volontà di espressione”.

Lo slanguage vandalico, mosso da un sentimento incontenibile, cerca un varco verso la creazione della forma a partire da ragioni strutturali e semantiche. Rileva opportunamente il pittore A. Jorn, che la radice semantica del vandalismo include molteplici significati che consentono di afferrare il gioco spirituale che si consuma nel gesto di ideare e di esprimere la forma diretta: intervenire, aprire, eroicizzare … Attese queste premesse, si deve dire che non è di tutti gli artisti il cimentarsi con il gesto vandalico anche se tecnicamente vi potrebbero riuscire, ma solo di chi si sente responsabile e all’altezza di poter esternare la propria ispirazione poetica in sintonia con un profondo sentire di natura metropolitana. A tal punto la vita interiore e l’esperienza urbana si richiamano a vicenda e diventano guida e disciplina di uno slanguage che si attesta in un perimetro espressivo volutamente circoscritto all’esperienza asistematica. Lo slanguage è di natura complessa: meriterebbe sfumature e distinzioni sottili, giacché l’esperienza vandalica e quella poetica hanno di per sé configurazioni distinte, non sempre suscettibili in pacifica convivenza, anche per i riflessi pubblici che esse includono. Un solo esempio: A. Jorn è indubbiamente un profilo alto dello slanguage, un precursore del graffitismo e del situazionismo globale, eppure una certa caratteristica sensuale, quasi libidica, che trasuda da alcune scritture, è più tollerata che condivisa movimentisticamente nell’ubicazione del luogo urbano, cioè dello “spazio fuori dai confini”. 

L’esempio porta a riflettere sull’interpretazione e sulla produzione della cosiddetta arte metropolitana di “città senza confine”, o arte in funzione del perimetro “oltre-urbano” e della pratica di disseminazione. Il linguaggio vandalico e apparentemente catastrofico: proposto da Jorn è contemporaneamente una strategia di radicale sobillazione e leggerezza che ci spinge molto lontano. Nel 1961, anno in cui si dissocia dall’Internazionale Situazionista, Jorn fonda a Silkeborg l’Istituto Scandinavo di Vandalismo Comparato (SICV). Al contrario dell’interpretazione più banale della nominazione dell’Istituto, l’etichetta «vandalica» è dedicata alla pop art medievale dei paesi scandinavi, col progetto di realizzare una serie di libri. Infatti uno dei risultati sono i segni incisi sulle Chiese di Enre e Calvados, per territorializzare “il Vandalismo” nella sua espressione più autentica: il graffito. “Non posso pensare senza emozionarmi, davanti alle chiese della Normandia; alle mani pazienti e laboriose che hanno scavato, inciso la pietra […]. È bello pensare «che esse abbiano potuto essere condotte dalla passione più cieca – quella di distruggere». […] Se ciò viene ignorato – e viene utilizzata come semplice supporto per i graffitomani – o distrutta dai vandali – ecco che noi non lo sopportiamo, che ci scandalizziamo […] ci è interdetto di conoscere l’approccio, il movente di questi autori di segni e immagini incise e disegnate; siamo condannati a non poter comprendere queste pulsioni per cui alcuni uomini più di altri possono distruggere”.

Asger Jorn

La performance gestuale-vandalica è un’azione che autovalorizza, con una sua importanza specifica. A. Jorn strappa all’enigma il lato più oscuro e controverso della creazione dell’opera, mediamorfizzandolo come puro gesto istintivo e poetico. A. Jorn è stato un soggetto artistico polidimensionale, un anti-grazioso? Come dicono in situazionisti nell’internazionale, di qualche anno precedente, le sue ricerche sono come il culto per le immagini di Hans Belting. I vandali di Jorn devono reinventare ogni gesto. Si esibiscono come artisti liberi. Il vandalo che l’artista primitivo ex-prime isola è un istinto che egli certamente ha visto e che in apparenza celebra mimando, con l’ausilio della memoria visiva: ma nell’«alto gesto» di esprimerlo, l’artista esegue se medesimo traendo fuor di sé il vandalismo, dopo averlo inghiottito. L’artista ha dentro la dimensione psichica del vandalo; se ne libera, per sacrificarlo e restituirlo alla vita scempiandolo con il segno. La magia del segno vandalico è nascosta nella sua penombra, nel luogo in cui i personaggi scompaiono e ricompaiono come forze centrifughe della memoria, laddove le luci rivelano l’Io e la suspense è scolpita nelle frescure, nei gesti enfatici e negli occhi di chi si perde nel vissuto urbano. La vandalicitâ semiosica ha un potere forte. Chiamiamola immagine formale, chiamiamola profilo in posa libera, difficilmente ci avvicineremo alla sua vera essenza ed alla sua definizione univoca. Ogni gesto deve cogliere nel segno la scena della città, o la scena del set urbano che si sta svolgendo e non si tratta mai di fortuna, ma di grande mobilità. 

Non c’è differenza di materiale semiosico, quando abbiamo davanti a noi una galleria di «gesti» con immagini di tetti scoperti, frame teatrali, o scatti di un’architettura: la cosa fondamentale, per lavorare come graffitista urbano, è di muoversi sul set come dietro le quinte, con la massima attenzione, senza mai interferire con l’operato degli altri soggetti metropolitani, facendo in modo che il pubblico non sia mai disturbato dal segno espanso.

La storia della fortuna scenica di un centro abitato, ovvero dello spettacolo di una città in cui il nostro sguardo è penetrato, da un lato ci parla, quantitativamente, delle sensibilità di ordine visivo via via suscitate – considerazioni in cui sono state tenute come garanzia empatica di un vissuto – e dall’altro ci suggerisce dell’ottica in cui sono state considerate le scelte veristiche accolte, dei valori che se ne sono evidenziati, degli spunti di ripresa che ci hanno fornito. Così il gestire, inteso prevalentemente a scandire il ritmo del clic, quasi sottraendosi alla voluttà dell’espressione sentimentale, “A partire da qui … dallo slanguage”, si individualizza solo per infinitesimali differenze che tende a ripetere, quello del vedere intuitivo, ma con scarti minori. Nella dimensione graffitara, è infatti piuttosto l’atteggiamento complessivo a qualificare il tipo di soggetti, che d’altra parte si vivono addosso, sempre assimilati e spesso addossati ai muri. Talché, pur nella dimensione degli elementi messi in gioco, si ha la proiezione di una spazialità magmatica, dove il principio del segno è come incerto e aleatorio ed anzi il graffitista, se pure è a lui che bisogna attribuire il ruolo di supervisore, proprio come un regista di teatro, tende a nascondersi dietro agli altri.

Spero appaia chiaro, a questo punto, che la prospettiva critica realizzata in questa mise-en-scène è una prospettiva globale; questo mondo di luoghi e di passaggi, di viaggi dello sguardo e di punti di confluenza, è costituito da occhi profondamente simili: non ci sono sviste né ambiguità – non “l’amore del turista per caso”, non l’intelligenza privata del Flâneur, né tantomeno la disonestà del ruba-sguardi. Uno spazio sotterraneo di irritazioni “a cielo aperto”, di passioni senza piacere. La città senza confine è sì, in qualche misura, diabolica, ma è un inferno senza gloria, che ha rinunciato alla superbia che la oppone a Dio e che agisce neppure per ingordigia o per la dichiarata simpatia per le sue sponde, ma per forza d’inerzia, così sofferente e senza speranza. Dell’umanistica sublimità del writer non c’è traccia e la stessa dimensione dell’intelligenza storica e realistica si rifugia nel metafisico, nei suoi lucidi tête-à-tête con i passanti, il filosofo che comunque si stacca dall’impasto degli altri sguardi, fondendosi in essi, si diluisce nella la voce che esclama: “A partire da qui: slanguage”. Parlando a proposito dei segni di A. Jorn e di tutta la pratica Vandalica, vediamo come il grigio metropolitano sia, nella sua formulazione più genuina, un racconto dal punto di vista dell’istantanea, uno scherzo del fato dal quale risulterà impossibile riprendersi. Quando questa sorta di caduta nello sguardo avvenga, e in quali circostanze, non fa differenza ed è materia del codice teatrale della città, come le reazioni del graffitaro – al destino del segno – che gli ha travolto l’esistenza.

Può accadere anche – come nel presente del gesto – che questa caduta si sia verificata prima delle scenografie (oggetto della narrazione), addirittura che esista da quando esiste la Polis, riassumendosi nell’impossibilità di uscire da una condizione disperante. Chi, per nascita, avesse a trovarsi fra le vittime di questa genia, difficilmente potrebbe uscirne e vedere la propria situazione al di là dell’immagine o del graffio metropolitano. Qualsiasi sforzo riuscisse a concentrare al di là di un segno scatenerebbe sempre uno scatto asemico, un continuum di scatti, un multiversum di scatti, capaci di rigettarci al punto di partenza (A partire da qui …), se non addirittura più indietro, aprendo la “bomboletta”, o anche puntando su una macchia (un’informalità) alla fine della quale c’è la gestualità certa, la traccia verificata da se stessa.

Asger Jorn, Foule folle (1960)

Ed è proprio a partire da una condizione di questo tipo che Jorn e il processo vandalico riprendono l’ennesima flânerie polisituazionale, offerta per la prima volta al pubblico da altro scorcio. Il segno, ambientato in poco più di un cinereo memoriale (così come segnala la tensione dell’obiettivo in uno scatto mancante in apertura), è la storia della sempre giovane Polis artistica, la cui breve esistenza è segnalata dall’ombra costante del ferrigno e di altri colori apprezzabili. Sin dalla loro nascita, una serie di tracce ci hanno resi in prima istanza primitivi, poi “senza fissa dimora”. Non solo lei stessa, Madame Polisemiosi, diventerà una portatrice di sguardi sulla città, anche se in modo del tutto involontario, casuale. Per niente imprevedibile sarà invece la fine delle tracce, dei tatuaggi metropolitani, che chiude l’implacabile circolarità della struttura visiva. Che è poi specchio dell’altrettanto implacabile organismo dell’esistenza, riflessa nella forte voglia di continuare a individuare nel tessuto urbano come musa, come teatro sociale, come dimensione portante di un’espressione: “ne fui colpito …”.

Infatti, come nelle precedenti “writer performance”, anche nella pratica dell’Istituto Vandalico l’impronta teatrale è evidente e non tralasciabile. Il «lungo sguardo» segnico del Vandalo verso la meta della propria cifra semiotica ne è la dimostrazione più lampante. È la passione, l’amour fou, fra le viste incrociate e così totalizzanti e architettate dal basso nella loro spontanea sensualità, che non possono che condurre alla mente dell’analogon, segno caratteristico di un luogo. E non è un caso se, nel filo della narrazione, il rapporto fra i due sguardi graffitistici finisce per diventare il motore di una denkbilder e il principio di individuazione della storia stessa del Medioevo. Lo sguardo di Eros sempre va a braccetto con Thanatos e all’immagine non è concesso niente più che un’illusione di riscatto. Anche qui, insomma, la preoccupazione delle sequenze, i salti delle iperboli segniche, le sfrecciate di ripresa non sembrano essere «solamente sociali» (come pure potrebbero far pensare alcuni teatri umani) quanto architettonici. L’incanto turbina nel luogo: la tensione – come le prospettive o i tagli aerei, per i quali il destino delle strade (alzando gli occhi al cielo) ha già scritto la parte del tragitto, e come gli stessi artisti che si tuffano in questo urbanismo fatto di emozioni sghembe – ha modo di esprimere tutte le pulsioni della propria vista rispetto alla retorica delle lettere e delle arti. È questo – per Jorn et company – il prevalere delle preoccupazioni di ripresa su quelle del détournement, o delle nuove mappe della città, sollecitazioni che ci permettono di affrontare un problema solo apparentemente difficile.

Dal rapporto con la città, i graffitisti del Vandalismo traggono linfa vitale, un coinvolgimento che si sviluppa tramite lo sguardo, in un contatto tra il guardare e l’essere guardati, uno stare in prossimità di un luogo e introdursi nella sua “territorialità”. Una delle regole del segno vandalico è quello di descrivere dettagliatamente un momento preciso, di solito il culmine dell’azione. È una questione anche tecnica: se un graffitista alza il braccio e c’è un istante in cui la mano si ferma un secondo, lì deve partire il graffio, altrimenti si percepisce il mosso, che nel teatro sociale della città non è previsto. Ma allora che cosa vengono a guardare «da qui, dal luogo della traccia metropolitana»? Jorn & co. dimostrano di non avere riduzioni di sguardo da espiare e alcuna forma di trasparenza da contrabbandare: nel loro universo fortemente «living» non esistono sguardi minori e sguardi superiori, ma soltanto sguardi predestinati. E gli sbuffi del segno si misurano non col metro del viaggio improvvisato, ma con quello dell’anomalia urbana. Predestinati, dicevo; l’urbanità consapevole, sostenevo: la dimensione sociale che emerge dalla traccia mimetica è più legata a caratteristiche peculiari della natura metropolitana, che ad una sola visione politica della storia della città. Mi pare di capire che i “due artisti” che si raccolgono in Jorn non credono alla lotta fra i generi – quelli che pretendono l’esclusiva, o anche solo l’inquadratura del folklore e dell’anti-metafisico – e, abbandonando le immagini minori che popolano le loro ricerche, si siedono su di un pezzo di sabbia.

Gli sguardi fissi sotto i cieli sono così icastici: e così sempre saranno? È questo che suggerisce lo sguardo dal basso (in alto) o al centro dello spazio teatrale? Sono così diretti quei tessuti di proscenio, sono così scivolose quelle tensioni urbane che indagano ed offrono con schiettezza, ma anche con veridicità, i luoghi e i modi della loro «(r)esistenza». Per le città post-medievali, insomma, segnate dai vandali di Jorn, non esiste alcuna possibilità di facile salvezza, figuriamoci di ortodossa affabulazione: solo uno schiaffo realistico, capace di smuovere emozioni nette, vulcaniche, secche, spedite, non contaminate da strategie di parte, da gettare in faccia al conformismo e alla quiete borghese. È già uno sguardo asciutto, quello di Jorn & co. (asciutto, strana parola; commenta ad un certo punto l’io collettivo), lo sguardo di chi ha ben presente e ha sposato in toto la discussa affermazione: “Chi non è stato situazionista da adolescente manca di quella visione, chi lo è ancora, a sessant’anni e passa, non manca certo di metafisica”. È lo sguardo di un situazionista che attinge a piene mani nel proprio vissuto teatrale, quasi a dimostrare che l’unico modo di uscire fuori da se stesso è quello del «gesto ambientale». Magari tracciando graffi di destinazione popolare – comprensibili – che riescono ancora a smuovere emozioni. Anzi, ritrovando proprio, nella ciclicità delle sequenze della storia, il presupposto di una anomala empatia.Per interpretare l’arte urbana occorre un bagaglio di riferimenti culturali e storici ben precisi: il diritto alla città di H. Lefebvre, la pratica teorico-critica della società di massa, le teorie critiche della cultura di massa, il conflitto con l’industria culturale, la critica alla cultura omogeneizzata, la manipolazione e l’eterodirezione, la democratizzazione semiotica, la dialettica della cultura-mosaico. Ognuno può esprimere una sua personale reattività emotiva di fronte agli stili di arte urbana e di non-arte, senza che questa opinione finisca per accantonare o misconoscere le ragioni popolari e disistituzionali dello slanguage.