frame - F for fake

A/traverso F for Fake I

Il problema della sincerità del cinema è uno dei cardini attorno a cui da sempre ruota la vita della settima arte. È un problema assolutamente trasversale, che trova declinazione in tutti gli ambiti relativi al confronto artistico ed estetico, dalla più banale ripresa della quotidianità al più profondo occhio di riproduzione religiosa, dal documentario sulle relazioni interpersonali alla conoscenza della fotografia sociale. L’ampiezza e la centralità di tale tema è attestata dalle innumerevoli narrazioni che dentro di esso sono state scritte.

Il cinema – al di là delle singole regie – costituisce un atteggiamento letterario-visuale: si tratta di avere fiducia nella capacità della ragione estetica di poter spiegare la realtà che circonda l’uomo. Capita che le persone si sentano ferite dalle immagini. Non c’è niente di più disagevole, di più imbarazzante, di più spinoso insomma, che essere costretti a prendere parte ad un set in nome di una storia vera e per conto di qualche altra sceneggiatura, facendo atto di partecipazione alla «Pura Fiction».

Sissignori, è proprio così. Sfido chiunque a dimostrare il contrario, se ne è capace. Perché (si badi bene, questa è soltanto una tesi che spero sia condivisa dai più) perché, si diceva, in un set si possono distinguere due categorie di attori. Della prima fanno parte i parenti del regista, non tutti però, soltanto quelli stretti e gli amici, siano essi vicini di casa, colleghi o altri che sono ovviamente affranti, distrutti dalla pratica della fiction e di fronte ai quali non resta che starsene in rispettoso silenzio, anche perché questa è un’esperienza nei confronti della quale purtroppo ciascuno, suo malgrado, è costretto a misurarsi prima o poi col tenore sociale della fiction. Della seconda categoria invece, e qui veniamo al dunque, fanno parte tutti coloro che a vario titolo devono fare, per l’appunto, il cosiddetto atto di comparsa, vuoi perché non sta bene non darsi, o perché almeno uno del set, anche se molto alla lontana, non può esimersi dal partecipare alla fiction luttuosa in quanto a ben guardare la recitazione c’è, checché se ne dica, visto che il cugino del regista era cognato della nipote del fratello di un prozio, della cugina, del direttore della fotografia.

Fermo restando il dispiacere per la perdita di una naturalezza, con una relazione di operatività scenica simile, se non c’erano rapporti in vita col nostro regista, a che serve partecipare ad un set? Forse che amici e conoscenti stretti traggono una qualche esperienza dalla presenza di persone di questa seconda categoria? Affranti dalla malinconia della Fiction, nemmeno si rendono conto che c’è tizio o caio. Ma tant’è, le cose vanno così e c’è sempre qualche fotografo a scattare per ricordarci che occorre essere sul set, ma che poi si delega l’immagine dell’ F for Fake. Come per l’appunto è successo ad Orson Welles, autore di una certa fama, il quale nonostante la pensasse nella maniera suddetta – e non per una qualche forma di cinismo, o cattiveria, o mancanza di sensibilità, o quello che volete voi – si era venuto a trovare in una situazione che egli definiva F for Fake

Le immagini in movimento, le esperienze filmiche sono come valigie, sta a noi renderle piene o vuote, pesanti o leggere. Chi definisce le regole delle immagini? Di norma il regista. A questo automaticamente possiamo agganciare il significato di “morale visuale” e le implicazioni ad essa legate. Rispettare la visualità significa seguire le regole dettate da qualcun altro e pertanto evitare la responsabilità di scegliere; ricordando che le regole vengono stabilite, il più delle volte, da chi ha il potere di costruire, montare e distribuire le immagini, e che il potere è prerogativa di chi non si fa alcuno scrupolo per ottenerlo, altrimenti non lo indosserebbe. Viene da pensare che non solo, seguendo la morale visiva, non dobbiamo scegliere, ma con ogni probabilità si creeranno tutta una serie di circostanze per le quali non potremmo nemmeno farlo. Molto diverso è considerare il concetto di “vero” e “falso” dal punto di vista mediale. L’enorme differenza tra l’etica e la morale è che la prima necessita di una assunzione di responsabilità. Noi dobbiamo scegliere ed ogni scelta porterà la nostra visualità in una direzione o nell’altra. Essendo stato scoperto, attraverso immagini e decifrazioni, il problema dell’essenza del cinema, non è forse la retina teorica che trattiene provvisoriamente l’immagine rovesciata di una realtà già documentata? Chi è questo fantasma che ci ossessiona e che ritorna a noi – casuale come una ripresa o un fotogramma -, in occasione di certe diegesi? Questo fantasma sembra ormai che non esista più, che sia un effetto del montaggio, tutt’al più un simulacro derivato dalla narrazione filmica o prodotto dal gioco specifico di un certo tipo di filmicità. Al cinema sopravvive oggi l’autore del suo testo montato: un simulacro, forse Oja Kodar e l’ombra del regista. Ma occorre inquietarsi di un’ombra? Ed è oggi, forse, l’immagine di un regista, il regista come immagine, che ci interroga, dopo il film? Se questa immagine mostra uno dei maggiori emarginati della teoria contemporanea, sembra che pochi dei registi importanti non la sollecitino con passione. Orson Welles, che non ha cessato mai di meditarla, essa e le sue nuove attorialità artistiche e critiche o travestimenti, non ha cessato di descrivere la serie possibile delle sue metamorfosi.

Questa immagine, al di là del «Vero e del Falso», non è una o una sola, opera sull’indefinito delle attorialità che devono apparire, in diversi luoghi e posti di F for Fake, costantemente risuscitati, le figure, violente, di una Cinematografia che sarebbe e non sarebbe la Cinematicità dei registi: il suo altro, il suo antro o forse il suo doppio: F come falso (Vérités et mensonges). Heinz Von Foerster, padre del costruttivismo, ha così definito il suo “imperativo etico”: “Agisci sempre in modo da aumentare il numero delle tue scelte”, che significa componi una tua realtà il più possibile variegata, nutrila di ogni sperimentazione che ti possa arricchire ma non lasciare mai che la tua libertà finisca dove inizia quella dell’altro, che la tua gioia non può generare afflizione, che la luce della tua entità deve fare brillare e non può incendiare chi ti sta intorno.In inglese la parola “verità” si traduce “truth”, che deriva dal termine sassone Treowthu che significa “fede”: una cosa è vera perché ho fiducia in chi parla, perché mi “affido”. “Che cosa in noi tende propriamente alla verità?” si chiedeva F. Nietzsche in Al di là del bene e del male. “Posto pure che noi vogliamo la verità: perché non, piuttosto, la non verità? E perfino l’ignoranza?”. Con queste parole il pensatore di Rocken azzardava uno dei tentativi più sconvolgenti che la filosofia abbia mai appreso: mettere in questione il valore della verità. Poco più di un secolo dopo, la “dea” Verità, incensata e idolatrata da schiere di filosofi suoi sudditi fedeli nei secoli, subisce un nuovo attacco frontale a cui si aggiunge anche il cinema e la letteratura. Che rimane del cineasta astratto quando, rinunciando al falso conforto di una «cinematicità delle cinematicità», rinunciando ai prestigi della Verità (Vérités), ci si confronta con la diversità delle «mensonges», col plurale concreto dei segni e delle pratiche significanti? Dovrebbe egli regista, autore secondo, diavolo doppio, cancellarsi fino a non essere più che un testimone e uno sguardo? Con questi e altri interrogativi, il cinema di Orson Welles svolge e pone nuovamente il problema dei rapporti reciproci della scrittura artistica, dell’attraversamento dell’arte e dell’esistenza – la questione dello statuto dell’interprete.

Rinunciare al fuori campo dell’estetica, è divenire interprete della “mensonges”. Divenire spectator (direbbe Roland Barthes) è o non è più parlare nel logos? Contestando il regno dell’Arte (o dell’idea di arte), Antilogos, pratica del deciframento, la scrittura di F for Fake pluralizza e moltiplica la mimesi. Immagini e parole di immagini … Imparando a stare nel film la Menzogna perde la sua identità, forse la sua essenza: imparando a non credere, a non avere fede, egli, come Autore,

si moltiplica. Quadri falsi e veri, falsari di professione e critici d’arte che scambiano i quadri dei falsari per veri: tra questi, Elmyr de Hory, che falsificava celebri quadri; Clifford Irving, che falsificava biografie; il miliardario Howard Hughes e il pittore Pablo Picasso … Più che i temi importano le menzogne, più che le menzogne ciò che esse nascondono; volontà, attitudini o tipi che si tratta di interpretare, di tradurre. Da immagini in sintomi e da segni in immagine parlate, disperse nel dubbio delle verità, si raccolgono, il lettore si fa spectator di diverse illusioni – in occasione, sempre, di pretesti che lo ispirano e dietro i quali si dissimula – insieme critico e tutt’altra cosa che un critico – sotto il segno della Menzogna, sempre al di là della verità… Tutta rotture e finzioni, fatta di seduzioni e di fotogrammi, come potrebbe una tale pratica dare alla luce un corpo omogeneo che sarebbe possibile riassumere, da cui sarebbe possibile estrarre degli inganni? Più che la singola immagine e il sistema del sonoro importa l’apparizione, l’attitudine dell’autore ingannabile. Ma l’attitudine stessa del cinema è semplice, non si presenta mai in prima persona, complica e varia incessantemente le sue figure a propria impronta. I

film di Orson Welles sembrano potersi dividere in tre generi: Docu-drama, Docu-saggio, Narrazione critica. Ma questi campi in realtà non si distinguono, si mescolano nelle loro topologie, nelle loro geografie, nei loro fotogrammi. A guardare da vicino si scopre che nessuno dei film citati riguarda semplicemente e unicamente

un determinato genere. Di film in film, un autore paradossale appare scomparendo: F for Fake. Questa figura mascherata sotto diversi spectator come caratterizzarla? Come separare ciò che prende in prestito da una possibile verità o da una possibile menzogna da ciò che prende in prestito dal regime del Montaggio di Verità? Come distinguere ciò che gli appartiene in proprio? L’opera o piuttosto la filmicità è

dissociabile dalle sue astuzie e strategie, dal suo umore e dai suoi travestimenti. Così sotto la maschera di Clifford Irving, che falsificava biografie, oppure sotto quella più anonima ancora del semplice miliardario Howard Hughes, molti Picasso si fanno oggi avanti. Questa maschera che impone l’istituzione cinema e forse la congiuntura d’insieme, non è possibile (augurabile) strapparla. Sotto la maschera un’altra maschera: non volto ma figure, in numero indefinito: non l’unità di un fronte espressivo, ma l’affrontare molte fiction e ruoli, molte letture che non esistono senza

mescolarsi. F come Falso, inizialmente pubblicato nel 1974, si concentra sul racconto di Elmyr de Hory e della sua carriera come falsificatore d’arte. La storia di de Hory fa da sfondo a un’indagine ingannevole sulla natura della paternità e dell’autenticità delle opere d’arte, nonché sulla base del valore.

Lungi dal servire come cortometraggio su de Hory, il film incorpora anche la compagna di Welles Oja Kodar, il biografo di «panzane e panzanelle» Clifford Irving e Orson Welles come se stesso. Ma, si badi, questo “se stesso”, quello dell’interpretazione filmica del Sé, differisce in parte da quello dell’obiettività (“obiettività critica”). Così mostrare se stessi, interpretare se stessi, non è soltanto ripetere o riflettere o agire, è, come scrive Francesco Casetti ne Il nome del Destinatario: “rivolgendosi spesso di lì allo spettatore, promette che per un’ora intera dirà soltanto la verità; sul finire del film, dopo aver rievocato parecchi casi di plagio, e in particolare dopo aver esposto la vicenda del nonno di Oja Kodar, che aveva imitato dei quadri di Picasso e che se li era fatti autenticare dallo stesso pittore, ammirato dell’opera, confessa che l’ora è già passata da diciassette minuti. Dunque in questa storia piena di falsari e di mentitori, di travestimenti e di trucchi, in questa storia che, ironia o paradosso, si presenta nei modi del cinema-verità, c’è come uno scivolamento, una sbandata: per almeno diciassette minuti che è sulla scena non aiuta a identificare il principio di costruzione del testo, né consente a chi segue il gioco di identificarsi in una controparte precisa; per almeno diciassette minuti la voce narrante non ricopre un compito di informatore, ma fa da barriera nei confronti sia di chi è responsabile della partita, sia di chi è chiamato a raccoglierne i frutti. Detto altrimenti, in questa storia a doppio fondo l’apparizione di un nome non ci avvicina all’enunciatore né all’enunciatario, ciascuno con le sue funzioni, ma ci spinge verso un possibile inganno” (F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano, 1986, p. 47). Prospettive plurali, pluralismo decentrato … Molte letture così si riuniscono e si dividono ma non ritornano mai allo stesso punto: dovunque l’autore, e pertanto il lettore, manca al suo posto, procedendo per una serie di identificazioni provvisorie, per una serie di fotogrammi momentanei! F for Fake è talvolta considerato un esempio di saggio cinematografico. Oltre al film di 88 minuti, nel 1976 Welles girò e montò anche un cortometraggio autonomo di 9 minuti come “trailer”, quasi interamente composto da materiale originale non presente nel film principale. Contro la valorizzazione di ciò che rimane identico a se stesso, si afferma F for Fake: attraverso le parole degli attori scambiati dalla voce conversante le immagini inaudite, forse inudibili, di un al di là del vero e del falso, di un cinema della Tolleranza della Doppia Menzogna, il logos di un impossibile tentativo di uscita. Il film si apre con Welles che esegue trucchi di magia per alcuni bambini mentre Kodar scruta le vicinanza. Welles cita Robert-Houdin dicendo che un mago è solo un attore.

About Fake (Falso), un documentario incompiuto di Françoise Reichenbach sul mondo dei falsari d’arte, acquistato da Orson Welles, diventa la storia per costruire un complesso affresco in cui viene intrecciata la vita di Elmyr de Hory, celebre contraffattore d’arte ungherese, e quella di Clifford Irving, giornalista che sosteneva di aver la vera/falsa biografia di Howard Hughes, un indecifrabile e avvilito miliardario americano. Dopo lo sceneggiato radiofonico de La Guerra dei Mondi del 1938, Welles affronta ancora un progetto in cui concretezza e simulazione tendono a fondersi, fino a diventare indistinguibili l’una dall’altra. Il direttore artistico gioca a fare il mago, l’imbroglione, l’illusionista, maneggiando le figure e alterando la realtà a suo piacimento, come se fosse un’opera d’arte. Sono due le menzogne: la menzogna saggia, celeste e la sua sorella perversa. Chi ama l’una ignora l’altra. Non amarne che una sola è forse disconoscerle tutte e due. Gli amanti della prima li conosciamo bene, troppo: artisti, mezzi-artisti, moralisti, teofani; d’altronde espressivisti che non amano che da lontano ciò che seguono e imitano. Gli amanti della seconda, al contrario, si dicono per lo più vicini a quella che praticano: sofisti del cinema-verità.

Ma dopo tutto gli amanti dell’una non sono mai piaciuti a quelli dell’altra. Ora, le due sorelle, in certi momenti, sognano l’alleanza proibita che realizzerebbe la pena di uno solo che le sceglierebbe tutte e due. Welles, nell’incipit del film, dichiara che “Tanto per cominciare, questo è un film che parla di inganni, di truffe e anche di falsità”, anticipando così ogni giudizio da parte dello spettatore, ma aggiunge che “quasi tutte le storie celano più o meno qualche menzogna, ma non questa volta, è la mia promessa. Nella prossima ora ciò che ascolterete sarà verità vera, basata su fatti veri”. Tanto basterebbe per aprire una profonda riflessione sul significato di falsità e di verità, ma Welles non si limita a questo. A breve nuovamente conferma attraverso l’uso di sovraimpressioni come il suo film sia basato su eventi realmente accaduti. F for Fake, titolo con cui è più noto il film, è qualcosa di diverso da un falso documentario, è in realtà un film-saggio in cui Orson Welles racchiude gran parte della sua poetica artistica; una scintillante e disingannata riflessione sul valore dell’arte, di cui il regista sembra voler sottolineare la fondamentale inservibilità. Arte, quindi come errore, adulterazione e ciarlataneria della quale anche Welles è succube e artefice. Non a caso egli appare spesso ripreso davanti ad una moviola cinematografica, strumento che per eccellenza crea la slealtà del montaggio, capace di alterare le immagini, di fracassare l’oggettività e quindi di manomettere. F for Fakenasce dal furto di un cortometraggio, così come da un furto nascono i falsi di Elmyr, ogni elemento è frutto di una rielaborazione di una forma originaria, così come la struttura stessa del film nasce dal “taccheggio” del linguaggio del documentario. Orson Welles, durante il film, dichiara: “La mia carriera è iniziata con un falso, l’invasione dei marziani. Avrei dovuto andare in prigione. Non devo lamentarmi: sono finito ad Hollywood!”, F for Fake potrebbe infatti essere considerata una sorta di autobiografia intellettuale attraverso cui il regista esprime la considerazione che egli provava nei confronti di se stesso, come uomo e come artista. Il film che avrebbe dovuto intitolarsi Hoax (La beffa), poi Question Mark (Punto interrogativo), e assunse solo in seguito il nome definitivo, meriterebbe una trattazione assai più approfondita, che però trascende lo scopo di questa analisi. F for Fake è infatti un testo unico e fondamentale nella logica che mette di fronte oggettività e imbroglio, è un saggio personale sulle interrelazioni tra arte, denaro e ciarlataneria, ma che rompe le promesse di Welles per sua esplicita accettazione. Ripresi i panni del mago Welles, compie un’operazione che un vero illusionista non avrebbe mai osato, mettendo le carte sul tavolo e scoprendo ogni trucco delle sue stregonerie, nel tentativo di rivelare il vero fine del suo film: “All’inizio di questo film io vi ho fatto una promessa, ricordate? Vi ho promesso che per un ora vi avrei detto la verità. Quell’ora è passata, negli ultimi diciassette minuti non ho fatto altro che mentire. La verità, e vi prego di perdonarci, è che abbiamo falsificato la vicenda artistica. Ovviamente come ciarlatano il mio compito è cercare di renderla reale, non che la realtà c’entri in qualche modo. Realtà è lo spazzolino da denti che vi attende a casa nel bicchiere. […] Quella che noi, ciarlatani di professione, cerchiamo di spacciare per verità, temo che la parola sia un po’ pomposa, è l’arte. Lo stesso Picasso disse che l’arte è una menzogna che ci fa capire la verità”.