Qual è la reale entità dell’inganno artistico che subiamo o «pro.creiamo»? Soprattutto in quei settori dove circola tanta astrattezza? Maggiori sono gli interessi e le seduzioni iconiche e particolarmente crudele potrebbe risultare il raggiro perpetrato ai danni delle migliaia di “creativi potenziali” che si aggirano tra le popolazioni di Android. Nell’ultimo anno negli Stati Uniti, 300.000 persone hanno scelto di inserire i dati circa le loro mansioni in un sito che verifica le loro attitudini e versatilità operative, per valutare il rischio che corrono di perdere il lavoro a causa dell’automazione e dei robot. A lanciare l’allarme nel 2013, erano stati Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, i quali in uno studio avevano previsto che, nel giro di dieci o venti anni, circa il 47% dei posti di lavoro negli Stati Uniti sarebbe stato completamente automatizzato.
Un allarme eccessivo? C’è chi risponde a queste previsioni, considerate allarmistiche, segnalando come nel 1870 circa l’80% dell’intera forza lavoro statunitense fosse impiegata nell’agricoltura; successivamente, a seguito dell’introduzione dei trattori, e quindi dell’agricoltura estensiva, si verificò un esodo biblico dalle campagne, ben raccontato da Steinbeck in Furore. In pochi anni, però, questi contadini e i loro figli trovarono occupazione nell’industria ed oggi l’agricoltura americana, con meno del 2% degli occupati, è tra le più produttive del mondo. Le macchine, i robot e l’intelligenza artificiale, secondo i faciloni, creano maggiore produttività e, quindi, maggiore benessere; nello stesso tempo chi perde lavoro lo trova nell’industria, nelle prestazioni d’opera o nel campo sempre meno indistinto dell’operatività artistica o del terzo settore? A conferma di questa tesi, viene citato il fatto che il mondo occidentale e l’industria culturale che lo relaziona è più avanzato ma anche più rischioso, più sospettoso ma anche più votato alla promessa della piena occupazione.
Tutto bene, quindi? Vogliamo o non vogliamo, ci piace o non ci piace, siamo ormai nell’era post-industriale in cui le macchine svolgono – e svolgeranno sempre più – quasi tutte le attività pratiche e ripetitive. L’unica prerogativa che resta all’essere umano è la creatività, robot permettendo. Per gli artisti – che appaiono fortunati, in questo trend – i cambiamenti hanno una doppia natura. Da un lato, dobbiamo considerare cosa è cambiato direttamente per le persone: per esempio, il fatto che i nostri occhi si posano oggi sempre più spesso su nuovi orizzonti progettuali, dove valgono regole diverse rispetto a prima. Dall’altro lato, dobbiamo considerare che la «controrivoluzione dell’industria dei media tradizionali» ha influito sulla nostra comprensione del nuovo, con la paradossale conseguenza che l’innovazione, oggi, è prevalentemente raccontata da chi la subisce, e non da chi la fa.
Dobbiamo, quindi, barcamenarci tra la nostra percezione diretta del mutamento tecnologico – dove a volte scoviamo delle opportunità per migliorare la nostra vita – e la visione distopica presente nel grido artistico dei media tradizionali e dei suoi “artigiani”, che dopo anni di dominio del nostro tempo libero si sentono “sostituiti”. L’esperienza artistica diretta è, quindi, del tutto improvvisata, la nostra reazione non è né “educata”, né “strutturata”, proprio perché mancano i riferimenti storici. I media digitali sono sempre più visivi perché è più facile presidiare l’attenzione con codici veloci e autosaturanti, è raro che qualcuno usi i new media per filtrare paradigmi storici. L’immagine attuale, nella sua usabilità strumentale, pretende di spiegare tutto, lascia poco tempo all’indulgenza, alla riflessione e all’immaginazione (non è un caso che “immaginazione” sia una parola con la stessa radice). Ma, a differenza del testo, può essere rapidamente sostituita – quando già ha svolto l’interazione, quindi ha già liberato i suoi dati indicali – da un’altra immagine o da un altro video. Sulle piattaforme digitali, se si considera il modello economico che le sostiene, ciò è perfettamente comprensibile, così come è chiaro che la tradizione del Novecento – che noi chiamiamo il secolo collage – è stata totalmente assorbita dalle pratiche di sedimentazione mediale: se lo scopo è sfruttare il “tempo in piattaforma”, per creare più interazioni possibili, tale processo è il modo più semplice, per quanto si possa moralmente condannare il meccanismo del montaggio. Il montaggio conforma e metabolizza tutto: sviluppa un’automazione dello sguardo.
Oggi, i media sono ossessionati dal presidio dell’attenzione e, quindi, della «pura immagine»: lo scarto letterario che va incontro a un loro bisogno, non al nostro, si presenta come digitalizzazione di contenuti standard. In sostanza, i media attrezzano una sorta di “grillroom dei contenuti”, dove le vivande hanno tutte lo stesso sapore, perché a loro non interessa più farci riflettere. Detto ciò, per chi ci sa fare con l’arte, si aprono straordinarie opportunità nel «campo della visualità». Se tutto è “potenzialità creativa illuminata dall’immagine”, è molto più semplice, con un singolo richiamo, aprire una crepa nelle nostre zoppicanti consapevolezze. Quando irrompe sulla scena una nuova forma di montaggio, manualmente digitale o veicolatamente robotica, è come se riuscisse a sfondare la pedissequa esposizione che ci troviamo dinanzi. E troviamo, legittimamente, il modo per giustificare tutto. Oggi ci sono molte più informazioni in un museo d’arte contemporanea che viaggia sulla rete, o nei profili degli utenti di FB, che in un telegiornale. Ma pure la vostra timeline della galleria di immagini, che compare sui social, molto spesso ricalca la sequenza del telegiornale del giorno.
Il ruolo dell’artista è completamente cambiato, egli si è ritrovato come un lavoratore della grande dispensa creativa e, a sua volta, deve stare attento a non farsi dettare l’agenda dai media, o peggio, cercare una provocazione gratuita per puri fini di visibilità mediatica. Come accennavo prima, mentre in molti si affannano a definire il presente come l’esito di una rivoluzione compiuta, la cosiddetta “rivoluzione digitale”, personalmente credo che siamo davvero all’inizio, in una sorta di “antico” in cui i problemi che vediamo, e che spesso sono imputati alla rete, in realtà non sono causati da essa, ma semplicemente rivelati dal determinismo, mal interpretato, dei new media. Inoltre, gran parte dei conflitti che questi fanno emergere riguardano lo scontro tra chi resiste al cambiamento, per difendere le posizioni acquisite in èra analogica, e chi considera il cambiamento la premessa dell’affermazione dei propri diritti.
Questa, ovviamente, è una opportunità ambigua: pensiamo alle minoranze tra le identità di genere, e alla loro conquistata centralità nel dibattito pubblico; pensiamo alle doppie facce di un’installazione multimediale; pensiamo al triplo o al quadruplo risultato delle vicende artistiche del post-medialismo. O agli artisti privi di garanzie. O a questioni concettuali che erano tabù fino a pochi anni fa, come la “performance concettuale” assorbita dai new media. La scelta non era, come qualcuno pensa, tra un mondo di sola immagine e uno agitato nel complesso di colpe del teatro. Eravamo tempestosi anche prima, anche al tempo di Friedrich o di Holderlin. Semmai, pur tra molte complessità, se vogliamo adesso possiamo ascoltare le difficoltà di tutti a trovare lo spazio di una vera identità artistica. E saranno gli inquieti come Carlo Caloro o Fabrizio Federici a cambiare le cose. Storicamente fare arte a mano era solo un’abilità, un mestiere, come fare il falegname, l’agricoltore, o l’operaio metallurgico. Non era certamente un’occupazione per le fasce più basse della società, ma nemmeno per l’élite intellettuale: gli uomini che coltivavano il potere erano ritenuti troppo puri per farlo. D’altronde i profeti e i messia non dipinsero mai niente. I punti di forza di un leader carismatico, e che non sapeva né dipingere e né barcamenarsi tra le arti sorelle, riguardavano le occasioni della nuova artisticità. Molti dei greci benestanti non capivano cosa fosse la scultura o la cultura delle arti visive. Infatti, la parola scuola deriva dal greco che significa tempo libero, quiete e riposo e sorregge proprio l’idea di tempo artistico, che si è andato costruendo nel nostro contemporaneo.
La nuova popolarità espressiva si intrattiene con banchetti espositivi, che sostituiscono le vecchie esposizioni. Montare e assemblare cultura digitale, favorire meme e cucina virtuale, rappresenta la più alta libertà di espressione concessaci dal drip engagement artistico contemporaneo. Quando dipingiamo al pc, abbiamo l’impressione di entrare in contatto con noi stessi. Quando «dipingiamo con l’assemblaggio» andiamo veloci e visualizziamo molto, ma raggiungiamo una connessione apparentemente più vera – con noi stessi e con i nostri pensieri più intimi – quando appoggiamo la mano sullo schermo.
Già sono stati prodotti autotreni che non hanno bisogno di nocchiere autostradale, in grado di restare a debita distanza dalla altre autovetture, e preparati per ottimizzare il consumo di carburante; si prevede che saranno milioni di autisti nel mondo che perderanno il lavoro nei prossimi anni, così come è già avvenuto per le agenzie di viaggio o per le librerie. Se nel passato era possibile per chi perdeva il lavoro riciclarsi in un’altra occupazione più sofisticata, a partire dal 2000 con il passaggio dalla Old Economy alla New Economy, questo non è più praticabile. In definitiva mentre robot e intelligenza artificiale riducono l’occupazione, non solo in fabbrica, ma anche negli uffici, dall’altra le imprese della gig economy (termine che deriva dalla musica jazz, dalla contrazione di engagement, per indicare l’ingaggio per una serata) del genere artistico-NFT e proto-meme offrono lavoretti promettendo utili colossali e per di più sfuggendo al mondo del fisco. In quanto ad allergie per la speculazione finanziaria, le imprese artistiche della gig economy sono in buona compagnia con i nuovi creativi. Ma questa situazione non solo provoca distorsione e concorrenza sleale con le attività tradizionali e mancato gettito psichico per il paese dove l’arte svolge il proprio business, ma soprattutto porta ad accollare alle Imprese Mediali i costi sociali della sfera creativa di una gig economy, che nel frattempo si è trasformata in una gig-art creativity. Purtroppo ciò che ci piace da curator ci scandalizza da cittadini: pensateci bene, quando per risparmiare prendete una memoria artistica e consimili o vi rivolgete a google per un transito, un attraversamento in un’opera d’arte!
Questi temi sono cari a Carlo Caloro, autore di un grande ciclo di lavori che si avvale della collaborazione di un social media manager, specializzato in Storia dell’Arte! Stiamo vivendo un’epoca di profondo cambiamento – sottolinea Carlo Caloro presentando le sue opere – la terza più radicale epoca di cambiamenti della storia delle persone. La prima segnata dalla scoperta del fuoco, la seconda l’invenzione della ruota che rese possibili comunicazioni fino a quel momento impensabili. E oggi il punto di svolta della rete: una rivoluzione digitale, così potente e vertiginosa, che sta imprimendo a tutta la nostra vita un cambiamento senza eguali; un cambiamento così forte che, come prima cosa, è riuscita ad invalidare i principali paradigmi che l’hanno voluta strumentalizzare, come la Net Art. In questo mondo di grandi cambiamenti, per certi versi positivi, ma che provocano anche grandi diseguaglianze, l’arte contemporanea riesce ad affermare solo di voler credere alla tautologia della sua disaffermazione e, nella sua capacità di reagire e di adattarsi in maniera intelligente a tutte queste nuove sollecitazioni, riesce quasi sempre ad affermare solo la sua stessa immaterialità. Soprattutto, quando essa reagisce secondo i nuovi criteri che l’epoca impone, superando i metodi di ieri – creatività reclamistica contro creatività pubblicitaria; strategia contro strategia – e sposando, invece, le opportunità che la rete ci porta e ci impone, il messaggio è chiaro: blockchain di icone, simulazioni di espressioni, orizzonti di nuovi e vecchi immaginari, ortodossia immateriale in contraddizione con qualsiasi net art. Nell’etica dell’antinomia immaginaria, nel rispetto della distanza da qualsiasi confronto distopico, nell’aiuto di ciò che vive solo nell’illusione, nella solidarietà e nella gratitudine dell’irrealizzabile: l’arte, anche nel digitale, si compie per sparire, per raggiungere il suo stadio definitivo di virtualizzazione!
Da questa prospettiva, il lavoro di Carlo Caloro, accompagnato da Fabrizio Federici, Irony of Fate, può essere anche l’ispirazione per dar vita a imprese artistiche in grado di conciliare l’economia del meme con la strategia dell’assemblaggio, l’estetica del Rinascimento con l’etica di un Nuovo Medioevo. Come a tutti gli artisti dell’immagine complessa, a Caloro piace giocare con le immagini, i concetti e gli oggetti suoi e di altri, collegarli, rovesciarli, ambiguizzarli, estrofletterli, monetizzarli, proporli con altre strutture, con altre significazioni, quelle che prendono un diverso senso nella sua logica, una logica che è per prima cosa visiva. Questo è palese ai curatori che seguono le sue sperimentazioni e lo sarà anche ai critici delle belle opere raccolte in questa esposizione. Ma – a differenza di un puro artista concettuale o di un architetto della decorazione, o ancora di un ingegnere del tempo perso – le sequenze mimetiche di Carlo Caloro acquistano significato dalle contestualità che le accompagnano. Qui l’uso della fotografia, dell’archivio, della documentazione, del type di riconoscimento dell’immagine e della scrittura, si piegano ad una sceneggiatura di senso. Ecco allora una prima chiave di lettura dell’opera di questo curioso artista di confine e dei suoi processi cognitivi: anziché semplificare la miscela costruttiva, riducendola a poche variabili ricorrenti, lo scopo di Carlo Caloro è di ricreare la complessità dell’arte “visuale memetica”, evitando di violare la trascrivibilità del meme (memenet), così come implementa il meme con la trascrizione. Qui i piani giocano un ruolo fondamentale, le fasi del costruito si congiungono a quelle del montaggio vivo, profondità e superficie sono giocate sulla virtualità infinita degli schermi. Carlo Caloro interviene sulla scrittura scenica dell’immagine, trasformandola in scrittura visiva digitale: le immagini e le oggettualità catturate dalla macchina fotografica, o dall’assemblaggio costruttivo dei corpi ordinati o contrapposti, possono essere incontrati dallo sguardo solo se si accetta che essi, sempre si contestualizzano a vicenda. Una volta accettato questo, ci si può avventurare oltre. Si può dimostrare che, a saper guardare e ascoltare, in una qualsiasi impressione o trascrizione da meme c’è sempre più dell’assemblaggio e più dell’immagine stessa, che compare in una trascrizione storico-topica. Con Caloro si scopre l’importanza anche delle fonti silenziose, degli sguardi, degli oggetti che riempiono le installazioni, delle mediazioni e delle scene interrotte e subito dimenticate. Non è un caso, che nelle opere qui raccolte vengano menzionati e spesso descritti strumenti riguardanti storie diverse: ombre di cadaveri, sagome di suicidi e di morti ammazzati, bassorilievi di thriller, analogie di torture, nascite preistoriche e morti rinascimentali, strumenti auratici e ingrandimenti di calici, residui anatomici e arti senza vita, tentativi di disegno e braccia che raccontano semiotiche e lettere interrotte, “cristi” svelati e santi nascosti dall’occultamento delle annunciazioni, strumenti di recisione e spettri di statue antiche, teste mortali e carnevali della fede, crocifissioni mistiche e deposizioni dell’arte povera, angeli cordiali e torsioni della corda divina, bassorilievi beati e sculture alchemiche, popoli migratori e frigoriferi pubblicitari, bestiario umano e macello disumano, avventura biotica e disavventura macrobiotica, modelle che danno la schiena allo spettatore e saccheggiatori di miti, percorsi semiologici e pentagoni ermetici.
Carlo Caloro è un ricercatore infaticabile, che sa che qualsiasi elemento del contesto può dimostrarsi l’anello mancante di una catena interpretativa, digitale eppure reale. Per Caloro, tutto conta e tutto canta! O meglio, qualsiasi meme e qualsiasi oggetto, a cui ha dato origine e senso, potrebbero contare e quindi essere rilevante proprio per interpretare noi stessi e gli altri, noi stessi e i media che ci circondano nella vita quotidiana e in quel sottoinsieme che chiamiamo vita digitale e del web, sfiorando il sono-visivo filmico. Con i suoi attraversamenti, supportati da Federici, Carlo Caloro ci aiuta a ri-vedere la Storia, a rivisitare e ri-analizzare il mondo artistico popolato da capitoli interi di iconografia e iconologia, ma anche da sculture, da icone di successo, da installazioni teatrali con cui ci comunica anche quello che egli stesso non voleva intenzionalmente spettacolarizzare.