Trame di «un cielo per Roma» (Mariano Baino)

Romanzo della “inappetenza”, di un rappresentante del “tempo sconosciuto” di fronte alla incomprensibilità del mondo, Il cielo per Roma offre alcune fra le pagine più “irritanti” della letteratura del nostro secolo. Il suo racconto è stato paragonato al Chisciotte di Cervantes, come astuto rifiuto delle alte sfere del male, in quanto satira razionale delle assurdità di una cultura e di una società, condotta attraverso la paradossale ambiguità del non-protagonista: “Chiamatemi Chiaffredo. Ma non chiedetemi perché. Non ora almeno, non subito. Posso solo anticipare che sono un tipo strano, sì, anche più strano di questo nome, ma il difficile è spiegarvi per quali ragioni. Il difficile è spiegarvi l’Ambaradan in cui mi sono trovato e ancora mi trovo, e in cui peraltro anche voi vi trovate. Ma calma, vi prego, sono un tipo lento. Di una lentezza, come a volte dite voi, dell’altro mondo. Sono infatti un trapassato. Anzi, un trapassato, se la mettiamo nei termini di chi viene prima e di chi viene dopo, se vogliamo usare le cordinate del tempo come voi le conoscete” (Il Cielo per Roma, Baino, 2021).

All’interno della variegata realtà artistica degli anni ’80, che vede convivere una moltitudine di movimenti letterari, una corrente è rimasta a lungo nell’ombra, oscurata dalla forma di quel viaggio artistico che ne ha realizzato l’ideologia/distopia, cioè del conflitto tra neo-moderno e post-moderno. Questo spostamento, questo a/manifesto, questo spazio mentale «iro-ucronico», a lungo ignorato, è quello del “metaverso teorico/aperto”, che è rimasto nell’ombra, probabilmente, perché interessava un ambito limitrofo alla letteratura, che riguardava più la storia delle idee compositive che quella dell’arte stricto sensu, e che è stato deviato da un interesse verso le realizzazioni artistiche del suo credo, da quelle opere d’arte che hanno popolato (e popolano) mostre e gallerie di tutto il mondo, dotate del marchio concettuale.

Ma se gli storici dell’arte e della letteratura hanno ampiamente approfondito i risvolti artistici di questo tema, quasi oscure ne sono rimaste le radici ideali, che pur l’hanno prodotto. Tali radici, molto complesse e variamente influenzate dal clima artistico-letterario e sociale, politico ed economico del tempo, affondano nell’humus che ha nutrito la mutazione del Gruppo ’63 e ne ha accompagnato gli sviluppi successivi. Il dibattito del Gruppo 63-93, vede l’incontro e lo scontro delle più disparate correnti sia artistiche che non. Impossibile rintracciare al suo interno uno schema compatto e costante, in quanto le tattiche e le strategie poetico-letterarie si modificano e si moltiplicano, a seconda delle sconfitte o delle vittorie riportate dalla varie correnti e dalle varie scelte stilistiche (sermocinazione). Esse mostrano come, sin dall’inizio, sia mancata una sola coesione alle varie ipotesi di un’arte letteraria. Questo è ciò che si rileva soprattutto nell’ultimo lavoro di Mariano Baino: Il Cielo per Roma (Exòrma 2021). L’esigenza primaria che emerge da questo testo è quella di costruire un’arte adatta al nuovo stato delle corrispondenze interno all’esercizio della parola, della frase, della lettera, del racconto, della poesia e della narrazione. Un’arte che rinneghi lo spiazzamento a-narrazionale e che dal Parnaso della post-frantumazione saggistica, giornalistica, poematica e metaversuale, dove la cultura della tradizione dell’avanguardia l’aveva collocata, scenda nell’ordine e nel disordine del discorso, riportando a sé immagine della poesia e poesia dell’immagine, meta-icona della prosa e meta-prosa dell’icona. È qui che si presenta la visione di Mariano Baino che, fattosi processo letterario-visivo, ha bisogno di estremizzare ciò che ha puntellato ne L’uomo avanzato e ciò che prospetta Remo Ceserani nella postfazione alla prima e alla seconda edizione del suddetto libro (uscito prima con Le Lettere e oggi con Oedipus). Ma la “ribalderia” meta-prosodica assume diverse connotazioni, se a pronunciarla sono i meta-luoghi della Poesia o l’intellighenzia (alla faccia dell’impossibilità di creare generi: revertiginismo, urtazionismo, confuscazionismo, ritardamentismo) dello stile complesso di Baino.

Deve essere un’arte fatta di tante cose, o un’arte fatta di tante entità linguistiche riconoscibili nell’ombra del saggio-racconto? Gli stili mediamorfotici sono più propensi, più generalmente orientati, alla prima delle due commistioni, mentre gli artisti della parola si dividono di fronte a questo interrogativo. Ogni arte genuina è astratta. Le forme schematiche, chiamate generalmente astrazioni in prosa e in poesia, costituiscono un espediente tecnico molto evidente per ottenere l’astrazione dell’immagine letteraria, ma il risultato non è né più astratto né meno astratto di qualsiasi altro stile “sottovuoto, spinto e macinato”, nella grande apertura al futuro della scrittura. Tuttavia, il linguaggio non è solo uno strumento dell’intelletto, con cui si formano i concetti; è anche un veicolo comune per lo scambio di essi; e questo interesse collettivo – che trapela nella voluta esuberanza (iperbole) di Baino – dà particolare importanza all’esponibilità del dire narrativo e sviluppa la funzione della designazione. Lo scopo principale delle parole di Baino, nel loro uso high & tech, popolare e colto, è quello di attaccare delle rappresentazioni iconiche alle cose. Ogni esponibilità che faciliti l’assegnazione di un nome è naturalmente accettato e sfruttato; e forse il più grande di tali espedienti è la generalizzazione, che consiste nel vedere, come lui stesso dice nel cap. 9, ogni cosa concretamente data come rappresentativa della sua stilistica. Per fissare i discorsi, o le classi immaginarie di discorso di Sinesio, è necessario trovare alcune caratteristiche comuni tra l’Angelo Nuovo e il corpo stanco di Chiaffredo Buffaldieri Guastella, avvocato romano.

Mariano Baino è nato a Napoli nel 1953 e ha esordito con un libro di poesie denominato Camera Iperbarica, del 1983. Dopo seguono Fax Giallo (1993), il capolavoro Onne ‘e terra ( 1994); Pinocchio (Moviole) (2000 e poi 2003), Sparigli Marsigliesi ( 2000-2003), Prova d’Inchiostro e altri sonetti (2017). La critica della vita di Mariano Baino è appunto uno di questi messaggi discorsivi: Le anatre di ghiaccio (2004); Dal rumore bianco (2012); In (nessuna) Patagonia (2014). Ma l’esperimento astratto raggiunge il suo apogeo, a nostro parere, con il teatro musicale-poetico di Carousel (2017) presentato al Museo del ‘900 di Firenze. La storia della metaversualità di Baino si colloca nel punto di intersezione della storia dell’Uomo Avanzato, il Carousel e Il cielo per Roma e di siffatta nella costruzione materiale di questi linguaggi. Se la prima scrittura ci porta ad indagare lo spirito distopico del realismo fotografico, che giunge alla formulazione di un progetto che “detesta l’arte della fotografia …” (quindi coraggiosa critica alla moda fototestuale del momento e spiraglio di attenzione per l’approccio di Georges Perec), la seconda ci riporta ad analizzare quelle strutture sono-visive della parola e la terza si offre come “trascrittura discorsiva” di una medialità che si fa storia, ironia, sberleffo, simposio. L’anima errante di Sinesio, antico filosofo e discepolo innamorato di Ipazia – la cui vita coglie il “type” dell’Angelus Novus di Klee/Benjamin – si urta, si confusca nella trans-tradimentalità di Chiaffredo.

Questo corpo discorsivo ha un compito da portare a termine: analizzare le aporie linguistiche e politiche che dilaniano la Chiesa di Roma, divisa tra due Papi, il paladino di tutti i cambiamenti (Materno I) e il reazionario e neo-liberista Gregorio XVII. Il dilemma è: chi dei due rappresenta veramente l’Anticristo? In effetti, se ci riferiamo a Der Antichrist del 1888 – che Franz Camille Overbeck e Heinrich Koselitz fanno pubblicare solo cinque anni dopo la morte di Nietzsche – quello che ieri era secondo Deleuze e Foucault la filosofia della liberazione e del «contraddittorio del mondo dietro al mondo», del Romanticismo e dell’Idealismo, tale «Anti» diviene l’Imperatore Aporetico del Progressismo-Conservatore e del Conservatorismo-Progressista. Anche il nuovo Corso dell’Europa, dominata dal nuovo-liberismo sfrenato e dai nuovi razzismi (del genericidrio), sarebbe il prodotto del potere Mefistofelico dell’industria di genere e di stile e quindi ancora una volta del Christentum fideistico, coronato dalla fideiussione. Ma se è vero che la lettura del quotidiano svela gli automatismi del disincarnato della Metafisica Cristiana che la determinano, è altrettanto vero che questo modus operandi del doppio gioco descritto da Mariano Baino si traduce nel “tradere” dell’Angelo. E questo è ciò che accade nella realtà scrupolosa dell’assoluto per gettarsi nel mondo: “dallo stesso allo stesso”.

Ed è a questo livello che scopriamo l’originalità del progetto metadiscorsivo di Baino, il quale testimonia di più dentro la sua prassi che nella sua elaborazione sui generis in quanto tale. Infatti ciò che si costituisce come provocazione discorsuale assoluta (impresa iperbata) è il tentativo di affermare il Mephisto in condizioni socio-economiche liberali. Oggi uno va nel reparto letterature e critica letteraria della più fornita delle librerie e ci trova un posto vuoto. Uno solo tra le mille guide al Nulla, mille libri fotografici che Baino abborra, mille carte geografiche di un immaginario mephistofelico e tutte che parlano di luoghi e di utopie. Nessuna dell’uomo astratto. Associare spazio e momento, dove e quando, città e storia. Unire le indicazioni poetiche a quelle tecniche: questo dovrebbe fare colui che sfugge al nebulismo fotografico di Roma. Una guida di viaggio che uno prende, la sfoglia, apre a caso e decide di partire: viene fuori l’album totalmente letterario de L’Uomo avanzato.

Qualcuno dovrebbe scriverlo. Qualcuno che ama la “trama a cascatella: il procedere in minime revertigini, urtazioni, confuscazioni e ritardamenti, come le acque studiate da Leonardo”. Il rallentamento e l’accelerazione, l’uscita e l’entrata, la mondizzazione e la s/mondizzazione, verità e menzogna in senso extraiconico, invenzione e naturalizzazione letteraria. Qualcuno dovrebbe cominciare dal titolo Il Cielo per Roma. Che le inflessioni non sono tutte uguali, né capitano tutte allo stesso modo. Sono tante quante sono le strategie letterarie per entrare ed uscire dal proprio loculo. Diverse come ogni goccia di mare, di physis, di sostanza naturale che supporta la sua metamorfosi linguistica. Diversa come ogni fioritura di deissi, come l’acqua che scorre dal fiume al mare e dal mare al fiume. La minaccia della fine del romanzo, il tramonto della letteratura, quello che si dice con: “D’altra parte, non posso romanzeggiare più di tanto nell’ambito di una semplice e spartana cronistoria. E poi il romanzo è morto, no? Sia come sia, Ella dovrà solo congiungere con linee alcuni punti, come in una modesta enigmistica, per vedere apparire un profilo, una sihouette; né starò a dire che Ella vedrà qualcosa di cui non sospettava neppure l‘esistenza. Non pensi Sua Grazia a ironici procedimenti letterari: nulla di incompatibile con il bellamente nuovo realismo che si va profilando oggi. Sto comunque lavorando per garantirLe il ritorno nel mondo non scritto, per indicarle l’uscita, ci mancherebbe. La trama è un po’ a cascatella, non cade proprio a piombo sul finale della storia; eppur si muove …”. È il punto preciso dove il tempo ha il suo giro di boa. È il cambio di guardia tra l’immagine della letteratura verso la letteratura dell’immagine. E qualcuno dovrebbe, ancora una volta, scriverlo, questo “Cielo per Roma”, che ci spiega dove andare, come e con chi. Un libro che ci spiega qual è la stagione ideale, o quali sono i profumi di quel posto, le conurbazioni di quella strada, il piano inclinato ed espressionistico di quella verseggiatura. Un libro – quello di Mariano Baino – che ci suggerisce che logos visualizzare e che”compagni di viaggio” ascoltare, mentre ci siamo visti quel tramonto inderogabile del romanzo. Insomma, ci sono libri sulle cascate del senso, sulle rovine archeologiche della storia moderna, sulle cose che diventano cose, come dice Baino! Libri nelle stazioni ferroviarie, libri sulle soste dell’intrigo e sulle robinsonate della prosodia. Ma non un libro “a cascatella”, e invece è questo che vogliamo, vogliamo infinite cascate di senso e di aporie. Anche quando ritorni da altre letture o da una vacanza speciale, nell’antro di una mise en abyme; tutti a chiederti delle parole usate, delle semioticità collassate, del servizio di terra o dell’attimo fuggente di quel verso. Mai nessuno che ti chieda e ti esclami: “Quelle diavolerie della rete? Quelle stregherie per gonzi? Stiamo uscendo fuori dal seminario! Forse sei interessato ad un potenziamento dell’attenzione anche senza difesa … Vedere l’invisibile, magari … Del resto, è una questione di attenzione. Ora per esempio, dentro una vetrina dei tuoi libri, sì, quella nell’angolo dei poeti, che poverini tacciono in coro e per sempre, vedo … Fra quei tomi in penitenza col dorso voltato alla vita, vedo sai cosa? Tu cosa vedi?”. E lo sai perché? Perché a quell’altezza del No/romanzo il lettore rischia. Nel momento più magico della scrittura, il poeta è lì chiuso tra i suoi pensieri e un confronto tra gli zoccoli epistemologici della narrazione e l’autonomia del testo poetico, possono causare un terremoto a Washington D.C., ma non certo nel Tridente. Fuori dalla luminosità della scrittura polipoetica, conservata a monte dell’esperienza del Gruppo ’93, le policromaticità del racconto si fondono in un magma escandescente, che incanta gli schermi e innalza le provocazioni. Dentro, i lettori si dimenticano della loro vera natura. Fuori, al tramonto del realismo, è il momento ideale per meditare, leggere, scrivere una lettera dopo L’Uomo avanzato; ascoltare l’intermezzo di un piano jazz o l’ouverture di una poematica villiana, rovinarsi con i ricordi del ’77, calmare la mente, sintonizzarsi con la scrittura filosofica di faustismi, dialogismi interni, sbalzi cronologici, straniamenti, incipit melvilleschi, di chi si fa chiamare Chiaffredo, all’ombra dei suoi stessi chiasmi. Non solo la nostra poiein, ma quella del mondo. Insomma, se ci fosse questa benedetta guida sovrana all’assoluto letterario, questa collezione geografica di micronarrazioni, questa locazione poetica dei sentimenti, sarebbe tutto più semplice. Baino cerca però anche un’altra soluzione per raggiungere il mistero di Roma e lo fa attraverso le scienze dell’esasperazione. Conoscitore del verso in prosa, delle dottrine del Baldus, dei segreti della contraddizione, la “cascatella” non smette di pensare che anche solo dal mondo esteriore si possano raccoglere quei segni che, debitamente organizzati e interpretati, possano svelare il segreto delle cose. Ma come possono essere organizzati i segni del mondo esteriore se l’intelligenza non può comprendere ciò che le cose nascondono? In che modo comprendere una visione senza avere nessun indizio dell’immagine in cui è “tra-scritta” o nascosta? Il linguaggio per Mariano Baino è il luogo privilegiato “dell’immagine revertigine” che in sé realizza come un lampo il recupero di quegli strati del passato che vengono repressi dalla tradizione dei dominatori, dall’ordine percettivo positivo e dal sistema delle sue memoires. L’immagine “urtante” (delle urtazioni) è immediatamente anche uno strumento politico, come una cesura nel discorso e nel tempo che rende conto di un’alternativa possibile, praticabile, eccentrica rispetto alla positività dei discorsi e dei fatti, ci suggerirebbe Walter Benjamin. Praticabile poiché si dà come forma, come Gestalt, visibile a partire dal campo della realtà, scaturita da una prospettiva differente ma profondamente legata alla possibilità della realtà. La “confuscazione” ridimensiona la tradizione, la rende conoscibile come qualcosa di non totalizzante e, quindi, di criticabile dentro un movimento dialettico fra dato e interpretazione, testo, critica e contesto. Se i “ritardamenti”, per il loro andamento critico, necessitano di una lingua rinnovata che esprime il latente, si può dire, con Benjamin, che il corpo della letteratura è ancora uno dei suoi spazi di esistenza privilegiati. Per questo il tema del cielo e della terra è importante nell’economia del pensiero di Mariano Baino. Il gesto di Cervantes fa da leva per Baino, permette di creare un’immagine concreta che, come una macchina metaforica, interrompa il discorso del giudizio raziocinante e che si impadronisce di ogni cielo e tetto narrativo. Questo gesto, che in Walter Benjamin coincide con l’atto della critica, interrompe e sovverte il fluire placido della temporalità borghese e fa riemergere con violenza il diritto alla presenza di un Chisciotte obliato e getta lo sguardo su un presente e un futuro non falsificante.

La rilevanza del cielo come tetto, in questa prospettiva, da un lato si lega alla concezione cervantesiana della temporalità e della storia; dall’altro si ritrova in tutta l’attenzione per il nesso corpo-linguaggio, per la sua innervazione (come direbbe Benjamin nel Dramma Barocco 1924-28) che rappresenta il luogo fisico-metaforico di Roma, di quelle tracce del passato che mirano a conservarsi, in modo chiaro, non disperdendo la loro potenzialità di cambiamento radicale.