Crisi del perimetro: Gli anni ’80 sono caratterizzati da un’inversione della tendenza che aveva condotto le urbanizzazioni museali a svolgere le funzioni di altre mutazioni – del forum, del laboratorio, del cantiere espositivo, delle «territorializzazioni» deterritorializzate – ad assorbirne finanche il linguaggio della lava, delle pietre, dei muri, degli steccati e delle lamine di metallo che ossessionavano la strada: il più vistoso sbilanciamento aveva avuto luogo allorché la città aveva assunto una dimensione di vissuto esterno, urbano, fuori dalle case. L’arte, distinguendosi dalle collezioni private, si trasformava in “oggetto allotropo” e la scrittura critica in “deragliamento linguistico”.
L’opposizione tra confinamento e sconfinamento era una risultate epistemologica della cultura moderna affaticata, nella quale il posto delle esposizioni costituiva lo strumento di socializzazione delle forme di esponibilità; in virtù di un simile ruolo le mura della città avevano sviluppato la propensione all’esposizionismo (estraneo, straniero) e all’esaustività del campo del sapere popolare da esse stesse tradotto. Il mutamento epistemico-urbanistico corrispondente alla modernità sprofondata, già ravvisabile nell’opposizione delle Avanguardie al luogo chiuso, vanifica la verticalità della trasmissione culturale, implicita in qualsiasi modello. Un mozzicone acceso, un barbecue mal spento, una maledetta mano piromane, collegata alla speculazione ed alla delinquenza organizzata e più raramente una autocombustione tirata con i capelli; queste le cause più frequenti degli incendi che durante gli anni del post-terremoto devastano centinaia di ettari di boschi e di vegetazione vesuviana, consegnando un’altra risposta rispetto agli interventi della land art.
Anche in questa estate del 1985 le pendici vesuviane sono state interessate da vari incendi. E così, ogni anno, un pezzetto per volta se ne va in fumo il tanto bramato “Parco Vesuvio”. Intanto, in varie zone la vegetazione è sommersa da cumuli di scorie abbandonate, il fetore di corpi organici in putrefazione è lancinante, lo scippatore, con la sua performance variopinta non manca mai, è sempre pronto a ghermire la preda, rappresenta il simulacro di un servizio e di una gioia perduta e, dulcis in fundo, manca un esauriente segnaletica stradale. Nonostante ciò, qualche turista riesce quasi per miracolo a conquistare la vetta dello sconfinamento. Nello scenario caratterizzato dai nuovi media si realizza la convergenza tra la ristrutturazione della funzione di mediazione sociale e il recupero di un’esponibilità ready-made improvvisata. Quindi, con la fine della massificazione del sistema urbano, con l’inaugurazione di una nuova forma di sdoppiamento dello spazio, anche la primitiva funzione del Museo viene vanificata. La crisi terminale dell’esposizione, “l’esplosione del Confine come perimetro rappresentativo”, costituiscono dunque la seconda “de-specializzazione del territorio estetico”, come area di circolazione simbolica. Difatti, se l’aumento di contingenza causato dall’estensione della sfera pubblica aveva dato origine alla strategia comunicativa della cornice – contraddistinta dalla presenza di luoghi espressivi specializzati, dal controllo dell’accesso e dalla massificazione dell’offerta – oggi il confine tra l’interno e l’esterno del perimetro espositivo (urbano) ha perso effettualità. Ciò significa che, nel tessuto simbolico delle comunicazioni relative a una città, il confine espositivo non funziona più come un’istituzione rappresentativa, un fattore di estensione del consumo, e l’identità della città può essere aggregata a metà strada tra la «paralogia degli emittenti critici» e gli attraversamenti della «schizo», realizzati dagli stessi fruitori. In tal senso, possiamo distinguere nell’introduzione ai Piccoli Racconti (di Città senza confine) una sottile critica di Filiberto Menna alla diatriba moderno/post-moderno: “l’anarchismo predicato da Lyotard come uno dei dati costitutivi della condizione post-moderna e la sua predilezione per la paralogia rivelano non poche suggestioni estetiche”(Filiberto Menna, Figure Critiche, in Città senza confine, Image Team, Napoli 1984, p.41).
Psicopatologia generale (1913-1959, Il Pensiero Scientifico, Roma 1964), Die Psychologie der Schizophrenen und ihre Bedeutung für die Klinik der Schizophrenie di Carl Schneider, (Thieme, Leipzig 1930) – due libri che Giovanni ‘o Russo (il Flautista), il mio migliore amico, mi ha regalato nell’estate del 1982 – hanno segnato in maniera prepotente le esperienze che – a proposito della paralogia nella scritto-analisi di Città & Città – avrei vissuto negli anni a venire. Nessuno mi aveva preparato a quello che avrei letto, alla voce profonda e penetrante di Felix Guattari, al «rumore parologico» degli scritti di Jean-François Lyotard e di Gilles Deleuze, alla cacofonia apparentemente disorganizzata di quella stesura parologica post-villiana (mi riferisco a Emilio Villa). In particolare a quegli “allotri critici”, che mi hanno folgorato nel momento stesso in cui la voce di Filiberto Menna intervenne a Montecatini nel ‘77. Menna scrisse poi Critica della Critica (1980), Quadro Critico (1982), fondò la rivista Figure (1982, sulla quale lavorai per il saggio sulla fotografia) e il testo che mi consegnò, l’anno scorso, per il catalogo di Città senza confine: alla luce di una revisione del concetto di deragliamento/sconfinamento. Il viaggio, tutto soggettivo e di consapevolezza di una «scrittura paralogica» che praticavo (già dagli anni del punk) non mi aveva portato, semplicemente, a modificare annotazione, commentario e pratica critica, quanto piuttosto a confermare una passione bruciante per lo stile paralogico, l’azione schizo-critica e la storia “nero a metà”, come la chiamava Pino Daniele. Il linguaggio architettonico indica la fine del confine espositivo entrista, attraverso la fine del pubblico e della rappresentazione: il campo espositivo progettato secondo la forma spirale e lo spazio espositivo dalle pareti di vetro stavano a significare, rispettivamente il compimento del moderno processo di parologicità (della curatorialità) e il tentativo di superare il pubblico e lo spettacolo. L’unità dell’apparenza non è che una maschera: le opere sono parecchie e sono tutte per strada … La pluralità del critico-parologo, in quanto pratica a/traverso non univoca, suscita, da Bruno a Nietzsche, una molteplicità di performer e di ombre. Noi ci preoccupiamo tanto del critico-paralogo quanto delle sue performance, ombre sempre ritornanti (del critico-paralogo: ingl. Paralogia; ted. Paralogie; fr. Paralogie), troppo vicine a lui, non hanno cessato di “riproporsi e di occuparci”. Sottolineo questo elemento, poiché la quasi totale mancanza di fonti di informazione, su quella “scrittura vesuviana” e sui suoi sofferenti protagonisti, mi ha costretto a rivolgermi direttamente agli unici lemmi a disposizione: disturbo della struttura e dei processi dell’esercizio critico che si manifesta, come scrive Karl Jaspers, «con un parlare di traverso caratterizzato da contenuti come significato ben preciso, ma espressi in modo confuso, disordinato e illogico, malgrado la capacità intellettuale integra» (op.cit.: 1913-1959, p. 210). Può configurarsi come deragliamento (da qui lo sconfinamento), quando l’esercizio critico, pur non essendo lineare, mantiene una qualche relazione con gli assunti di base, come «negativismo paralogico», quando le risposte del soggetto non hanno alcun rapporto con l’oggetto del discorso; come paralogia argomentativa quando la critica viene spostata dall’argomento principale a uno periferico, ma affezionato al soggetto che vi si sofferma con insistenza. Secondo Carl Schneider, tutte le paralogie critiche hanno in comune il fatto che raggiungono sempre un riferimento ragionato, in qualche modo afferrabile e riconoscibile dall’esterno. Quello che vorrei ricordare a Menna è che “il parologo-critico”, nella sua verità psicologica, è quasi sempre equivoco. Per Dostoevskij, il critico buono e cattivo, nano delle eternità, è un istrione veridico: miscuglio di disturbato e sereno. Altri modi figurali, più vicini in questo alla critica, permettono di distinguere due forme di paralogia: il Pulcinella multicolore e il nero a metà di Padre Ubu.
Leggevo con attenzione, parole dopo parole, cercando di comprendere e interpretare quello scritto, creandomi un immaginario universo nel quale la posizione di László Beke, ripresa ancora da Filiberto Menna, suggeriva l’ipotesi dell’avvento non lontano di uno stadio in cui le “differenze tra fenomeni artistici e non artistici, devono essere di fatto eliminate. Si verificherebbe, cioè un pareggiamento tra arte e non arte e, di conseguenza, non ci sarebbe più “alcuno spazio per parlare di interpretazione e di arte stessa”. Questo stadio che Beke definisce “utopico”, richiama in qualche misura l’utopia estetica delle avanguardie che predicavano la trasformazione dell’arte in estetica diffusa” (citato in Menna, op.cit, Napoli 84, p. 41-42). Capire i testi però non era abbastanza, volevo riuscire a cogliere appieno il significato di quelle immagini che giochi sapienti sapevano creare, scomporre e riproporre in varianti, tanto diverse quanto le esperienze artistiche dalle quali i confronti fra spazi, confini e sconfinamenti nascevano. La voglia di fare sconfinamento linguistico, di trovare luoghi da attraversare e da superare, il desiderio di dimostrare il turbamento paralogico del proprio stile, di un flow e/o di un beat unico, la necessità di trovare ambiti di espressione nei quali incanalare i propri deragliamenti, hanno gettato le basi per il mio viaggio all’interno di una città senza confine, senza via di ritorno. Con mia grande sorpresa, mi ha condotto alla conoscenza e comprensione di una serie di suggestioni estetiche, che hanno caratterizzato l’evoluzione della comunità deragliata nel corso degli ultimi anni, con particolare attenzione alla storia dei movimenti politici radicali (autonomi), che hanno sconvolto il ’77, nonché tutto il resto degli anni Settanta. Le mie esperienze si alternano tra l’immersione nelle storie di quei giovani artisti militanti vesuviani e il mio quotidiano – post-universitario – che andava radicalizzandosi progressivamente: passavo dall’Italia di Parco Lambro degli anni Settanta, alla Città senza confine dei tumultuosi anni Ottanta post-terremoto, dagli sgomberi agli scontri di piazza alla violenza della delinquenza organizzata e dello stato nei confronti di tutti coloro che osavano protestare contro l’ordine costituito. In tutto ciò, la scrittura “schizo” di Città & Città, praticata insieme a Luca Luigi Castellano e in contatto con un sempre più ritirato Emilio Villa, sono stati un elemento prezioso e determinante per la comprensione, non solo della cultura dell’errore di cui parlava Victor Sklovskij, ma anche, e soprattutto, delle condizioni storiche, politiche, sociali e culturali, che caratterizzarono la comunità e le persone vesuviane dalle quali essa è nata. Non che non fossi cosciente di tutto ciò: presentarsi in stile curator alla palestra dell’Imbriani con gli autori dei Piccoli racconti, trascinando i miei preziosissimi lavori dei writer o della Figuration Libre (consegnatimi da galleristi bolognesi e napoletani con cui lavoravo), non rese facile l’interpretazione delle parole, ma si sa … di necessità virtù. Ho trovato, sulle pagine di Città & Città, miei simili con i quali condividere la passione irrefrenabile per questa attitudine parologica, per gli strani giochi tra musica e metaverso, che ti spediscono in territori inesplorati, distante anni luce dalle esperienze di una scrittura modernista. Intendiamoci! Niente surrealismo, niente cubismo o altre forme di comunicazione/informazione concettuale pura o idealista. Ora saldandosi, ora sciogliendosi dall’abbraccio di quello spicchio di vesuvianità che si segnala per i suoi molti colori, per i suoi troppi suoni; e c’è la voglia di chiedere alle suggestioni di farsi ragioni, e alle immagini di disporsi ordinatamente secondo quei criteri di sconfinamento che possono fondare una pedagogia politica o almeno proporre il deragliamento.
Proprio così: si tratta di fissare la qualità di un’esperienza, in modo che anche le contraddizioni appartengano a un processo di maturazione, legittimando delle scelte. Allorché l’artista, né troppo post-moderno e né troppo neo-moderno, sceglie lo sconfinamento, c’è in lui e per lui – vesuviano di altri deragliamenti e già in quello appartenente a una minoranza sopraffatta dalla storia dei vincitori – lo strappo rispetto a un ruolo che non ha fatto ancora in tempo a cucirsi addosso: e, quindi, ci sono la scommessa e l’azzardo sul proprio destino e la propria solitudine.
Leggiamo questa testimonianza: “hanno individuato nella zona vesuviana un rituale antichissimo indoeuropeo, poi fortemente modificato da influenze medievali, che è il rituale del passaggio attraverso un arco di rovo” ( A.M. Di Nola, in Quaderni Vesuviani, 01, dicembre 1984, San Giorgio a Cremano (Na), p.32). Il compito che si profila davanti a noi è sconfinato: dobbiamo capire come dal proprio sofferto status di post-terremotato, quasi appartato in spazi ancestrali, si possa guardare diritti, con gli occhi dell’occidente. Anche se l’Occidente viene meno, o si nasconde dietro le proprie contraddizioni e le proprie angosce. Invece di scegliere, come ago della bussola nello sconfinamento, gli antichi e semplici principi vesuviani, che si accordano a László Beke, affinati dall’esperienza, potenziati dal dolore, fortificati dal veleno/farmaco del disincanto, si raccontano disseminati.
Scrive, Ermanno Migliorini, nelle sue riflessioni sull’arte e la città: “Nel lontano 1916, Marcel Duchamp “nominò” opera d’arte il grattacielo della Woolsworth a New York. L’azione era ovviamente compiuta nell’ambito della più vasta operazione diretta a costituire come opere d’arte i cosiddetti ready-mades, dalla “ruota di bicicletta” allo scolabottiglie, e così via, e consisteva nel prelevare un oggetto qualsiasi, scelto “in completa anestesia” (arbitrariamente), o per pure ragioni “ottiche”, isolandolo di fatto dal contesto “banale”, quotidiano in cui si trovava e inserendolo in un altro contesto, quello delle opere d’arte (ndr.: qui Migliorini rimanda all’altro suo lavoro sullo scolabottiglie di Duchamp del 1970, Il Fiorino, Firenze). Così facendo, Duchamp operava rimanendo all’interno del sistema delle arti, di cui aveva una acutissima consapevolezza: ma nello stesso tempo contestava la dinamica del sistema stesso pretendendo di inserirvi delle oggettività […] metteva anche in evidenza la profonda dissociazione che ormai si era stabilita fra l’arte e la città […] La città, di cui il grattacielo fa parte, è tanto lontana dall’arte che essa può persino essere nominata opera d’arte secondo le tecniche usate per i ready-mades […] l’atteggiamento di Duchamp era già un tentativo di uscire fuori, all’esterno, con un gesto individuale anche se risolto a gloriose formazioni intersoggettive, in uno spazio che non è più quello urbano, ma non è nemmeno quello dell’arte” (L’arte e la città, Edizioni d’Arte Il Fiorino, Firenze, 1975, pp. 81-85). Sostanzialmente Duchamp viene dopo i vesuviani, perché se questi ultimi sono dei terremotati organici e degli organici sconfinatori, Duchamp lo è per un ulteriore pretesto dadaista. Una testimonianza post-terremoto su Napoli, di qualche anno fa, prima che Manuel Scorza ci lasciasse La danza inmóvil (pubblicato nel 1983 e scritto pochi mesi prima di quel brutto incidente aereo, che lo portò via): “l’aspetto più difficile di una ricostruzione, secondo il significato letterale della parola, vuol dire costruire di nuovo la stessa cosa. E come costruire, ricostruire una società basata su tali mostruosità? Ecco perché si auspica, al posto del tragico terremoto geologico, un terremoto morale che riduca in macerie il sinistro edificio in cui abita tanto egoismo.” (Il Mattino, gennaio 1982). La crisi terminale della vesuvianità, considerata come una manifestazione della crisi delle forme simboliche della modernità, può essere osservata attraverso quel collettore micro-sociologico del moderno che è la città confinante stessa, nel passaggio dal confine allo sconfine, uno sconfinamento che segna l’esplosione del suo perimetro rappresentativo e il superamento della sua storia tipica. Si verifica con ciò un’inversione del movimento centripeto che, sul finire del Quattrocento, aveva condotto gli oggetti culturali del passato nell’architettura urbana per poi farli confluire nel recinto espositivo. Secondo Guy Debord alla forma dissipatoria della città corrisponde adeguatamente un tipo comportamentale che fa capo ad una cultura del dispendio, che si sottrae all’identificazione, sia come soggetto espressivo che da “autore come produttore”. Un simile soggetto creativo si riconosce nel consumo come modo di affermazione e di vita, che ha né il culto del passato né il mito del futuro: “uno dei correnti argomenti che falsano le concrete possibilità di lavoro e di indagini nella zona sub-vesuaviana viene fuori da un discorso mistificante che ho più volte ascoltato anche da studenti universitari: che il mondo sub-vesuviano, oggi, purtroppo, calato nel grande male della politica clientelare e della camorra, sarebbe deprivato di grandi tradizioni folkloriche, perché ci troveremmo in presenza di una semi-cultura contadina, fortemente modificata dall’impatto con la corruzione politica e con gli schemi della cultura post-industriale e consumistica. È una dichiarazione assolutamente erronea, nella quale si sviluppano la falsa coscienza e la cronica rinunzia a operare. Mi sembra che questa area sia ricchissima di nascosti territori culturali non ancora scoperti e individuati soltanto in parte” (A. M. Di Nola, pp. 31-32).
La vesuvianità e la terremotalità ci pesava. Abitarci era come camminare su una lastra di tumori urbani, spaccature della terra, crepe dell’universo, sotto le quali facevano smorfie milioni di facce deformate e angosciose: la mancanza di un modello omogeneo impediva la ricezione dell’arte dentro se stessa, dentro la città di sé medesima, in quanto tale – in primo piano balzava il suo status: di intellettuali sconfinati, di contadini in una fabbrica al limite del fordismo, di ebrei dell’esodo mai riconosciuti e riconoscibili. Né di ciò era responsabile la politica di un partito al posto che un altro, bensì secoli di storia che ci conducevano dritti, dritti verso la città senza confine. Non intendo giudicare ora se una simile volontà di fuga da un problema pressoché insidioso, lancinante, endemico, che si presentava scoperto e occultato, sia un bene o un male, mi limito a constatare che esso esiste e che un vesuvianesimo spasmodico costituisce, a volte, la reazione a un tradimento interiore. I vesuviani non sono forse simili a certi fuggiaschi, che si impongono la fedeltà di appartenenza per paura della loro resistenza alla flessibilità?
Molte sono le domande che il curatore di Città senza confine si pone in questo suo viaggio espositivo a ritroso, ad un anno dalla Rassegna, e nel sottosuolo di un bradisismo anomalo: “[…] se nella zona vesuviana le particolari condizioni di ambiente e di educazione non hanno reso possibile la formazione di un ceto di intellettuali sensibili […], anche in concomitanza con l’assenza di una consistente stratificazione proletaria e operaia, le programmazioni culturali delle istituzioni pubbliche, comuni, province, regioni, riflettono la più generale e fondamentale carenza di interessi per le linee di una riscoperta e di una interpretazione dei patrimoni tradizionali. Tutto lo squallore della situazione si rivela se soltanto rapportiamo i prodotti culturali finanziati pubblicamente nella nostra area al parallelo delle elaborazioni pubblicate in altre regioni” (Di Nola, op. cit., p. 31).
In questo territorio, ognuno ha storie toccanti da raccontare e in ognuna di esse, c’è la testimonianza di uno sconfinamento che va difeso e preservato: la passione spesso devasta e, quando alle differenze etno-culturali si aggiungono quelle ideologiche, l’incendio sembra indomabile. Spesso gli sconfinamenti corrono dove l’ufficialità ha costruito geografie unitarie, imponendo a nature aggressive un freno, ma anche mescolando confini con un atto d’imperio che turba e non convince: quale armonioso paesaggio si può percepire e disegnare tra Pomigliano D’Arco e Napoli, le falde del vesuvio e i Campi Flegrei, Castellammare di Stabia e la costiera tirrenica?
È possibile trarre una riverberazione da mille fotografie che stridono, urtandosi e sovrapponendosi con feroce dissonanza in un accidentato scenario, dove la pittura ad olio fa a cazzotti con le bombolette spray e la fede mosaica di Cimitile si integra con la Festa delle Lucerne di Somma Vesuviana. Così ognuno ha modo di assaggiare il delizioso dono di Bacco, che proprio qui, all’interno della cinta muraria aragonese, aveva il suo tempio a testimonianza del pregio e dell’abbondanza dell’uva prodotta nella zona. Poi, mentre le lampade vengono alimentate per l’ultima volta con l’olio necessario (un altro elemento, un’altra traccia di prodotti nell’antichità della regione), i vecchi ricordano con nostalgia i tempi passati con i canti e le nenie d’occasione, mentre dai vicoli improvvisamente compaiono, in quell’atmosfera di incanto, le più belle performance musicali del caseggiato.
Nella rievocazione di Città senza confine, segnata dall’affetto partecipe di chi tutto può comprendere perché tutto ha superato, il passato è memoria in fieri, tempo che si ritrova ancora fluido, per certi versi magmatico: gli occhi e la mente vi indugiano, non soltanto per riprendere stagioni espositive, mostre, teatri di Marigliano (mi riferisco a Leo e Perla e al loro trasferimento in zona), voci come quella di Ciccio Capasso, ma per dare significato alla complessa trama di un’esistenza individuale che passa in mezzo a quella collettiva e guarda intorno e si interroga sulle opere, addirittura sui linguaggi indigeni e su quelli in fuga.