1. Lo si confessi pure senza paura di passare per originali: il 1984 è stato, editorialmente parlando, un anno ottimo, discreto, buono, pessimo, così così. Come tutti gli altri anni del resto. Un po’ perché il calendario, per quanti sforzi si facciano in questa direzione, rimane placidamente estraneo alle mode espositive e alle esigenze ebdomadarie, e un po’ perché alla fine è pur sempre di gusti personali che si tratta: ai quali non meno che al famoso cuore del detto popolare, non c’è verso di impartire progettualità forzate. Così, per i tanti disposti a giurare sul mostruoso talento della curatorialità di Città senza confine, magari senza averne letto una riga per farsi (come dire?) un’opinione, più a mente libera, non mancano neppure i pochi ancora intrigati dall’artigianato sobrio della critica d’arte e dalle passioni per lo sconfinamento. Si parla ancora di Napoli e provincia post-terremoto, beninteso, ché altrove le cose vanno in modo diametralmente opposto. Prendete Gilles Deleuze, tanto per fare un nome a caso: significa niente per voi il fatto che a tradurre in riflessioni post-filmiche, si sia scomodato il grande paradigma della nouvelle vague:
“Il neorealismo aveva già un alto concetto tecnico delle difficoltà che incontrava e dei mezzi che inventava; aveva inoltre una sicura coscienza intuitiva della nuova immagine che stava nascendo. La nouvelle vague francese seppe prendere per sé questo mutamento, ma più attraverso la via di una coscienza intellettuale e riflessiva. In essa la forma-andare a zonzo si libera delle coordinate spazio-temporali che le restavano ancora dal vecchio realismo sociale, e comincia a valere per se stessa o in quanto espressione di una nuova società, di un nuovo presente puro: l’andirivieni …” (L’immagine movimento, tr. di J-P Manganaro, Ubulibri, Milano, 1984, p.242).
Ma bando alle fragili geremiadi. Gioito quel che si deve alla buona nuova che ci vede avviati, più o meno alla pari coi vesuviani, al magnifico e progressivo destino di grandi sconfinamenti critici, si passi pure senza ulteriori indugi all’analisi dei fatti. Degli scritti e dei modi di scriverli, pardon. Dunque, è arrivata anche da noi l’onda d’urto dei writers. In attesa di valutarne l’impatto sulle vocazioni da scrittori di strada, scrittori visuali dell’architettura urbana e sulle più correnti pratiche di scrittura critica, kool killers (come dico nel catalogo della manifestazione riprendendo da Lo scambio simbolico e la morte di Baudrillard, Feltrinelli Milano1979), gli affezionati ritengono di dover sommessamente manifestare qualche perplessità di fondo sull’intero evento, più che affannarsi in singole e rapsodiche valutazioni sul tale o talaltro “andirivieni”. Vabbè, la nouvelle vague ha dimostrato alla distanza di avere il fiato più corto di un writer in debito ‘d’ossigeno metropolitano; a noi, poi, è bastato il primo confronto con Filiberto Menna, a guadagnarci una pietra tombale debitamente controfirmata dall’intera corporazione dei critici d’Oltreoceano; e quanto agli “andirivieni”, perché infierire su qualcuno che è addirittura più sconfinato dell’altro?
Non è davvero questo il punto. Ciò che veramente preoccupa ed inquieta è lo sforzo di tecniche e discipline, che pretendono di interpretare un campo semiotico chiuso, blindato dell’arte per l’arte, di difficile elaborazione letteraria, al ritmo di etichette e di passepartout. Tu ti inventi un genere, una corrente, un movimento (neo o post-qualchecosaltro, non si scappa), lo lanci sulla strada con la benedizione del factotum e il popolo che fu di santi e poeti e navigatori, ora ridotti al più modesto ruolo di artisti a comando, accorre ansimando alla pastura: vedi mai che uno restasse escluso dal dibattito culturale e dalla conversazione in società. Quanto a leggere, poi: ma chi se ne frega, commenta il referente di Filiberto Menna, László Beke. O non c’è già quel panorama lì che lo fa per tutti, spezzando il pane della critica in briciole tanto minute da poter sfamare a migliaia e a centinaia di migliaia le testoline di visitatori e di flaneur in cerca di nutrimento visivo. Perché, diciamolo, procurarsi una buona mostra (una da leggere, secondo Jean-François Lyotard al convegno di Montecatini di qualche anno fa, con l’approccio: “si può leggere tutto, si può leggere in qualsiasi modo”, cfr.: in Teoria e pratica della critica d’arte, Atti del Convegno Montecatini ’78, Feltrinelli, Milano, 1979 p. 89) è diventata ormai un’impresa ad alta componente di rischio. Per cominciare ci sono solo i muri e le architetture della città senza confine. Cioè, non ci sono. Te li devi andare a cercare, scovandoli dove sono rimasti, tra un panorama periferico e l’altro. Poi devi resistere ai richiami delle sirene promozionali e, infine, – se lo statuto della critica, la carriera, la scuola, la musica, Walter Benjamin e Wim Wenders te ne lasciano il tempo – devi anche leggere, come meglio credi, il libro aperto dello sconfinamento.
E non è ancora finita: là fuori, nascosti tra le righe delle terze pagine, ti aspettano loro, i critici senza passepartout, con tanto di latinorum puntato per spararti addosso tutte le tue perplessità sulla natura e le cause dello statuto della critica: a te insolente di un giovane intellettuale, che osi avventurarti tra “gli interrogativi dell’Anima e le forme”, senza aver approfondito la scrittura di Slow learner (1984) di Thomas Pynchon, o che ti aggiri con malcelata goduria tra i capitoli di Gravity’s Rainbow (1973), ossessionato dalla teoria dei frattali che, manco a dirlo, sotto gli sta.
Eppure, di pensare la critica non si può proprio fare a meno. Non che renda migliori – senza il volontarismo (consigliato da László Beke) è una balla più grossa dell’economia finanziaria, e nemmeno che faccia tanto bene – ne sanno qualcosa i tanti che si sono ammazzati con il loro bravo lavoro nell’industria culturale, o nella società dello spettacolo. Presumibilmente, è un narcotico, la critica: upper e downer a seconda dei casi. E come tutte gli ipnotici richiede una grande vigilanza al momento di scegliere le idee da buttare nel sacco della discussione. Sennò, finisce che invece di un bel trip ti procuri un incubo senza ritorno.
Messa la cosa così, di basso profilo, diciamo allora che anche l’84 la sua «buona roba» ce l’ha procurata. Ve la passiamo in esame così come l’abbiamo accolta: un po’ qui e un po’ là, alla rinfusa, lontano da voghe e movimenti, o forse più vicini che mai (ammesso che dopo il ’77, ci sia stato un altro movimento) e, quel che più conta, senza messaggi e senza indicazioni di percorso. Perché, francamente, ci sarebbe difficile dire di curatori che vanno verso un qualche altrove rispetto alla loro scrittura, o che rivelano qualcos’altro oltre alle storie di vita dei poeti. Anche perché i profili degli artisti, contrariamente alla parodia televisiva, li disegnano gli artisti stessi insieme alla critica, dice László Beke, mica solo i lettori o il “travisamento necessario” di Leo Popper, l’amico di G. Lukacs.





P.S.: Credo, che la scelta di fare il critico d’arte corrisponda per me a una forma di espiazione. Oppure di ipercorrezione del laboratorio dell’errore (“travisamento necessario”) cercato in Città & Città, il che non è molto diverso. Tutto parte, come spesso accade, da qualche “trauma paralogico”, come direbbe Menna (con criticità); il che dovrebbe rendere scusabile il tono smaccatamente doppio che userò in queste note postume a Città senza confine. Così sdoppiato, il confine non cessa per questo di essere reale. Ancora una volta esso incontra solo se stesso. Qual è, allora, – ripeto la domanda – il territorio della critica? Credo che il campo della critica – se posso pensare ad una relazione tra territorializzazione e deterritorializzazione – coincida con il punto di vista dell’immaginazione dell’arte: non di ciò che non è ancora effettivo o che non è attuabile, ma di ciò che è prodotto come fiabesco dal «processo di formazione e di esclusione sociale». Si riconferma che l’attuazione del “critico”, nella conformazione piena della classe sociale etica, è il posizionarsi di una contrapposizione domestica attraverso cui la sostanza naturale del lavoro, la vita activa complessiva o attività pratico-sensibile, si definisce “nell’astrazione del valore”. Consiste forse in siffatto – mi chiedo – nel decidere come ipotesi il famoso ribaltamento subito dalla logica hegeliana? Mi limito a osservare che il pre-determinato, l’attività utile-sensibile, si è fissata nell’astrazione, ribaltando il rapporto astratto-concreto del vissuto urbano, infinito-finito del metropolitano, universale mondano della città senza confine. Forma del valore, il lavoro ha escluso il materiale dall’universo della realtà astratta; e il corporeo, privo di definizione, si è esibito paradossalmente come imprecisata materialità, positivo irrealizzato, cioè come immaginazione dalle gambe di cristallo.
Costitutivamente l’immaginario, che nega l’effettività data, è il fondamento della critica. Potrei dire che dà il via a una sorta di benjaminiana logica ribelle contro la logica concretizzata. Alla positività assoluta della città senza confine in quanto campo di lavoro si contrappone la radicalità della sua negazione: la critica si dichiara, nella ritrattazione del lavoro (della realtà astratta) da parte del non lavoro (del positivo fantastico).
La forza ostile penetra così nel sempre uguale, mostrandosi secondo una fenomenologia rivelatrice. La contraddizione che taglia verticalmente la città senza confine, rimossa dagli eredi della filosofia classica tedesca, che sono divenuti classe universale (senza sopprimersi come classe), ritorna come spostato (rimosso, collocato e scollocato). Se i lavoratori, realizzando la propria pluralità nell’astrazione della proletarizzazione universale, trasformano il mondo con il lavoro, ma rimuovono la critica del lavoro, rimuovono il bagaglio di opposizione, praticano il dissentimento dalla realtà come forma di assurdo, allora il conflitto esplode come sintomo della destituzione (sconfinatura) e allarga la totalità reale del mondo del lavoro, aprendola alle armi della critica. Qui, in questo conflitto di «città senza confine», c’è forse lo spazio per un’attività artistica separata dal lavoro, che sottende il rifiuto del lavoro salariato, divenendo critica totale della prassi e progetto di liberazione? Lo sconfinamento critico non è soltanto il non-ancora sviluppo, così come voleva già l’ottimismo dei classici dell’economia politica che si prolunga ben addentro ai nostri giorni; ma non è neppure solo la merce dello sviluppo secondo un modo costante, strutturalista di sfogliare la fisionomia. Esso è una responsabilità dello sviluppo capitalistico, una sua attività materiale e politica. Ciò che, determinandosi, significa, funzione del processo di socializzazione capitalistica, della progressiva costituzione del socialismo del capitale. Crescita è, infatti, quella del potere capitalistico sulla società nel suo insieme, del suo governo della società – del suo stato (questo è il contributo di L. Ferrari-Bravo e di A. Serafini, in Stato e Sottosviluppo, Feltrinelli, Milano,1980, II ed.).
L’uso distorto della città senza confine è un processo le cui origini storiche sono relativamente recenti, soprattutto quando si accetta altresì l’interpretazione che vede nel sottosviluppo il risultato dello sfruttamento capitalista, ma con una riserva importante. Non è semplicemente per avere sfruttato i «territori della città senza confine» che il capitale ha creato i loro problemi, le loro emergenze e le figure aporetiche che si combattono tra reale e immaginario, ma per non averli sfruttati abbastanza, direbbe Geoffrey Kay (vedi Sviluppo e sottosviluppo, Feltrinelli, Milano, 1976). Città senza confine sostiene che questa conclusione, piuttosto paradossale, è l’unica che sia conforme alla legge del valore che Marx ha scoperto ed elaborato. Le contraddizioni dello sconfinamento sono spiegate come il risultato dell’espansione del capitale dai suoi luoghi di origine, nella forma di capitale astratto, capitale culturale, che succhia plusvalore dai paesi sottosviluppati senza essere in grado di prospettare il modo di produzione. Inoltre, quando negli ultimi tempi si fece un tentativo di arrivare a tale cambiamento, mediante una umanizzazione della strategia dell’industria culturale, esso non sortì altro effetto che quello di rafforzare le condizioni di sottosviluppo, di terremotizzazione e di sismicità dello sconfinamento. Le s/confinature strumentali convergono tutte nel senso di nuove forme di repressione, che già vengono provate e sperimentate nel mondo indigente della crescente città senza confine. E come conclude Kay:
“In questo senso, il paese che è meno sviluppato dal punto di vista industriale non fa che mostrare a quelli più sviluppati l’immagine del suo stesso futuro”(Kay, ibi, op.cit., p.190).
Scrive Baudrillard ne Lo scambio …:
“Ogni spazio/tempo della vita urbana è un ghetto, e tutti sono connessi tra di loro (op. cit., p. 91). Si può prevedere che la produzione, la sfera della produzione materiale si decentralizzi, e che abbia fine la relazione storica fra la città e la produzione mercantile. Il sistema può fare a meno della città industriale, produttrice, spazio/tempo della merce e dei rapporti sociali mercantili. (…). Ma non può fare a meno dell’urbano come spazio/tempo del codice e della riproduzione, perché la centralità del codice è la definizione stessa del potere (Baudrillard, op. cit., p. 92). […] Si spiega così il significato politico dei graffiti. Essi sono nati dalla repressione delle sommosse urbane nei ghetti. Sotto il colpo di questa repressione, la rivolta si è sdoppiata: in una organizzazione marxista – leninista pura e dura da una parte, e dall’altra in questo processo culturale selvaggio a livello dei segni, senza obiettivi, senza ideologia, senza contenuto. Alcuni vedranno nella prima la vera prassi rivoluzionaria e tacceranno i graffiti di folclore. È il contrario: lo scacco del ’70 ha provocato una regressione verso l’attivismo politico tradizionale, ma ha anche obbligato la rivolta a radicalizzarsi sul vero terreno strategico, quello della manipolazione totale dei codici e delle significazioni”(Baudrillard, op. cit, p. 94).
Ero, dunque, un osservatore discreto, riservato, insicuro, che non amava l’apologia. Cioè esattamente il contrario di quello che dovrebbe essere un critico d’arte, da cui ci si aspetta grande aggressione (qualcuno direbbe faccia tosta), capacità di stringere alleanze e di utilizzarle a fini carrieristici, e naturalmente il piacere di scrivere ciò che si scopre nelle esposizioni di questi favolosi anni Ottanta (si fa per dire). Io invece nelle situazioni nuove, da me stesso create, e nei confronti dell’arte di regime coltivo un perenne complesso di difficoltà e di conflitto, che mi rende scettico, inadeguato e timoroso. Ma la difficoltà maggiore mi è stata inflitta sull’arte del territorio, tra la prima e la seconda metà degli anni ’70, quando passammo dalle Gallerie «all’arte visiva e alla partecipazione sociale» (come la chiamava Enrico Crispolti, per De Donato, Bari, 1977, parodiata da quel reazionario di Alberto Sordi, nel film «Dove vai in vacanza?», Italia, 1978), realizzando eventi su questo stesso territorio. Non ne volevo sapere – fuori c’era ancora un bellissimo autunno – ed ebbi un’idea più brillante che qualche pagina di appunti sul libro di Crispolti, e strappai le note scritte, tre o quattro giorni prima della manifestazione di Montecatini. In fondo, mi dicevo, non è che ogni tre giorni posso cambiare “pensieri”, e in ogni caso la conduzione della curatela come farà ad uscire fuori dalla dimensione ideologica dell’operatore bloccato sullo scoglio dell’arte di partito? Può l’arte contemporanea essere una operazione di partito? Me ne ricordo, ahimè! Quando il libro della De Donato tornò con le correzioni, sotto le mie noticine riciclate c’era scritto in rosso – lo ricordo come fosse ora – “Assurdo!”. Sembra che le cose vogliono, per negazione, dar ragione ad Alberto Sordi! Di ritorno dal convegno di Bologna, ho fatto i conti con i pensierini di questa destra e di questa sinistra forzata, al di là del sociale introdotto da Pierre Bourdieu (La distinction. Critique sociale du Jugement, Minuit, Paris, 1979) e facevo, ancora, i conti con un profluvio di punti interrogativi. Menna a Pomigliano D’Arco è stato indispensabile, era uno dei pochi intellettuali vicini al P.C.I. che aveva letto in maniera diversa, presso il Teatro del Bibiena, le nostre pratiche marginali, quando nel ’78 diceva:
“Il rischio è un annullamento teorico che lascia aperta la strada alla repressione e all’autosegregazione”. L’arte non ha rinunciato, in questi anni, al potenziale politico implicito in un fare che riconduce l’ideologia a una pratica individuale e ad una verifica continua del soggetto agente. Ma ha anche avvertito il rischio di quel annullamento teorico, che le toglierebbe ogni possibilità di verificare la funzione liberatoria che le viene attribuita e alla quale essa non vuole certo rinunciare. Per queste ragioni la pratica dell’arte, dopo il ’68, si è accanitamente interrogata sul proprio statuto, sui propri strumenti, sulla sua stessa politicità, accettando di attraversare un’esperienza implosiva dopo quella esplosiva degli anni intorno al ’68. Di qui lo scarto, la differenza tra la ricerca artistica e la cosiddetta avanguardia di massa, così come si è caratterizzata nel movimento del ‘77” (Collage, in Il viandante e la sua orma, Cappelli, Bologna, 1981, p.98).
Menna, nell’introduzione a Quadro critico (del 1982), mostra il maniera chiara la sua posizione nei confronti di un post-moderno di facile consumo e non come strumento d’avanguardia alla Lyotard, schierandosi a favore di Habermas:
“… […] la partita intrapresa dall’artista moderno con la società in cui vive ed opera non si può considerare chiusa come pretendono i teorici della condizione post-moderna nel momento in cui liquidano senza appello le istanze centrali delle avanguardie storiche considerandole, quasi con insofferenza, come residui di un pensiero umanistico da relegare ormai in soffitta. Le cose non sono così pacifiche e il dibattito si presenta tuttora apertissimo, tanto che, muovendo proprio da un punto di vista esplicitamente umanistico, Habermas ha di recente ribadito l’attualità del progetto moderno, di cui egli coglie le contraddizioni e le difficoltà senza, per questo, pretendere di accantonarlo con un processo sommario”(Moderno, Postmoderno e Neoconservatorismo, in “Alfabeta”, marzo, 1981); Menna, Quadro Critico, edizioni Kappa Roma 1982, p.6).
Insomma, una pena. Ma, credo, che il mio essere curatore oggi nasca proprio dal dissenso e dallo scetticismo per le pubblicazioni dell’arte territoriale di Enrico Crispolti. Nonché dalla determinazione ad affrontare i problemi dello sconfinamento discusso da Menna, dal voler vincere lo scetticismo e buttarsi nella proposta dialettica della semiotica delle arti visive. È qualcosa che tenta di spingersi al di là dell’artistico e dell’estetico, del moderno e del post-moderno, passando, come dice Beke, attraverso il wollen e il konen, il creative act di Marcel Duchamp e la preparazione del “catalizzatore nella costruzione della sua propria opera d’arte” (Atti di Montecatini,op.cit., pp.247-249).