La “location” «The Square» I

I processi di acidificazione hanno man mano mutato l’arte contemporanea e le relazioni che la caratterizzano, modificando anche gli orientamenti dei movimenti artistici e dei presunti linguaggi visivi: le istanze hanno iniziato ad avere rilevanza mondiale e le basi sociali della sua crisi e della sua confusione (post-avanguardistica) si sono estesi, fino a comprendere soggetti di vari campi ed estrazioni, rendendo eterogenee le forze del riconoscimento, prive, nel loro insieme, di una multidentità e di una multimedialità. Tutto il problema del film The Square pertanto è quello di fare di questa tematica “da piazza” una tematica “di strada”, di operare affinché questa proliferazione critica, di ambienti consunti, sia indotta a svolgere una sua funzione nel racconto futuro dell’arte! Ma ciò non è sempre facile!

Uno strano destino guida la fortuna dei film. Nella produzione di un regista o di un celebre attore cinematografico esistono quasi sempre dei lungometraggi che il consenso o l’entusiasmo del pubblico assegnano a volte al successo smodato – e non sempre giustificato – altri invece ad un controverso flusso di legittimazioni storiche. Quest’ultimo è il caso del film The Square (2017) così come, per altri versi, è il caso di Vacanze Intelligenti interpretato da Remo e Augusta Proietti (esattamente Dove vai in Vacanza di Alberto Sordi, con Anna Longhi – 21 dicembre 1978), rimasti sovente nel dimenticatoio della critica d’arte e soltanto da qualche anno resuscitati.

Ogni epoca ha il suo narcisismo artistico. Il narciso sarebbe dunque colui che si ritira nel suo, nella sua soggettività estetica lungimirante, non si abbandona al flusso dell’inconscio, della condivisione artistica con gli altri, trascura la duttilità dell’essere e rappresenta la durezza della maschera dell’arte di tendenza – e non vede sente capisce il “non visibile”. Cinici e narcisi sono, dunque, quelli identificati nel mercato dell’arte: i dittatori, i tiranni del gusto dominate, i cupi curatori dell’espansione dell’egotismo. Sviluppando il discorso e i dialoghi di Christian, in The Square (2017), ho riflettuto, a proposito della crisi dell’arte contemporanea e di un saggio di qualche anno fa di Paul Werner (Museum, Inc.: Inside the Global Art World, tr. it. di X. Rodriguez, Prickly Paradigm; 073 edizione, 2006), su una mia vecchia idea: sembra che gli artisti e i curatori si siano fatti un’immagine della medialità a somiglianza di sé, legata alla follia narcisista. Essi simulano una competenza, ma non sanno che imbrogliare. Chi vuole mettere alla prova un narciso dell’arte contemporanea col tradimento? Il cinema dedicato alle arti visive offre appunto abbastanza testimoni e testimonianze. Questo seducente desiderio è un pensiero malefico elevato a arbitro negativo, è quello che il mio amico artista mediale avrebbe chiamato ancora il vecchio narciso: è il re delle artistar; artistar che deve essere combusto, l’artista vecchio che tradisce, imbroglia e, invece di essere un mercurio sapiente, un briccone divino, si identifica con questa parte del replicante relazionale. Sente questo campo come suo e prova a interrogarsi, come Christian, fra i sacchetti della spazzatura! È la letteralizzazione dell’osceno, direbbe Jean Baudrillard. Non sa giocare utilizzando l’arte, fa finta di essere lui l’arte e il destino: diventa ideologia, setta, superbia. È un hapax legomenon che produce The Square, oppure il Latte dei Sogni. Quell’artistar che abbandona volontariamente usurpa il nome dell’Artistar. Forza maggiore (2014) ci mostrava qualcosa di difficoltoso negli intrecci umani e familiari, e per estensione di noi stessi, che potremmo non voler vedere. Una commedia drammatica che mette in primo piano la debolezza umana. Con The Square, il regista svedese mette in scena la “risibilità post-duchampiana” dell’arte contemporanea, in cui culminano le esperienze emotivamente fragili. Il film recupera il titolo da un’installazione artistica, composta da un quadrangolo all’interno del quale ognuno, senza distinzioni di genere, cultura, classe sociale, religione e credo politico, ha teoricamente uguali diritti e doveri. La descrizione ruota attorno alle vicende lavorative e private di Christian (Claes Bang), curatore di un prestigioso museo d’arte moderna e contemporanea di Stoccolma, le cui convinzioni, fondate sulla sua professione e sul proprio status sociale, non avranno più vigore, spostandosi, a poco a poco, verso una catastrofe estetica e umana. Film poco universitario, o poco formalista, a seconda dei punti di vista, The Square ha dovuto subire la sorte delle opere minori, spesso utilizzate per confermare i grandi temi di autori come Ruben Ostlund, oppure presuntuosamente riciclate per fornire pezzi d’appoggio a questa o a quella particolare lettura del mondo delle arti. Come una architettura espositiva, dove anche l’avvenimento fortuito o il culto del dadaismo, l’inaspettato e la palingenesi dell’arte moderna, diventano elementi da studiare dentro le gradazioni precise di una messinscena che presceglie il distacco, il campo lungo, la durata. 

La messa a punto della piazza della condivisione nell’inquadratura dipende principalmente da due fattori: la distanza tra il punto di ripresa e il soggetto e l’ampiezza dell’angolo visuale. Gli elementi dell’esposizione determinati dalla scelta delle lenti, tuttavia, non riguarda soltanto l’ampiezza dell’esposizione inquadrata, ma anche la profondità di campo caratterizza in maniera evidente lo spazio visivo dell’azione riprodotta su un pannello bidimensionale (lo schermo), restituendo l’effetto di tridimensionalità dell’oggetto artistico che si offre come espositore. Con The Square, il cinema dello svedese Ruben Östlund continua a trattenersi sulla relazione causa/effetto. In Forza maggiore era l’arrivo di una frana che mette in crisi gli andamenti di una coppia. Nei campi lunghi di The Square vi sono il furto degli oggetti personali e un video virale su Youtube a scatenare tutte le diverse repliche tra il personaggio principale e gli altri boss della scena espositiva. Christian è il direttore di un museo di arte contemporanea. Padre divorziato con due figlie, si dedica anche a progetti di benefit. Per mostrare interesse verso l’estetica relazionale, sta preparando la sua prossima esposizione: “The Square”, un avamposto minimalista che chiama i visitatori a liberare idee come generosità e filantropia, avere presente i doveri verso l’altro. Christian, contemporaneamente al vernissage, sta organizzando una campagna pubblicitaria degna di nota, che cerchi di spingersi oltre i limiti. Il ridicolo e il trash urtano il mondo dell’arte attuale. Con esilaranti installazioni e provocazioni – che ricordano la Biennale del 1976 de L’AMBIENTE COME SOCIALE, o anche “Live in Your Head. When Attitudes Become Form” (la mostra curata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969, con il rifacimento di Celant alla Fondazione Prada, Venice 2013) – il film si trasforma in una “critica della storia dell’arte” come “fine della storia dell’arte”. Gorilla che si addentrano in casa, l’uomo con la sindrome di Tourette che interrompe l’incontro con l’artista, l’esibizione del soggetto primordiale alla cena di gala. E fuori, il mondo dei senzatetto, le buste piene di spazzatura. Il cinema di Östlund diviene lo specchio di quello che vuole mostrare per denigrare. C’è quella durezza derisoria che passa da You, the Living (2007) di Andersson e attraversa l’immagine migliore della Maren Ade di Vi presento Toni Erdmann (2016). Nel prolungare le scene per portare all’effetto demolitore, Christian appare il curator ideale di una visualità artistica funerea. Ecco, di fronte a The Square, noi siamo come quegli ospiti del museo che attendono la cena sfarzosa mentre simulano di capire l’arte relazionale. Tra i film attuali sull’arte contemporanea, lo sguardo di The Square è quello che più problematizza l’effetto-scandalo della crisi. Questa inquietudine, mista a perplessità, è molto più interessante e significativa della sequela di irrisioni e stroncature che sono apparse sulla stampa specializzata delle arti visive. Che cos’è, dunque, lo spazio di The Square? Io ho tentato, per rispondere, due riflessioni:

1) Lo spazio di The Square è un luogo comune del tardo minimalismo: È il luogo comune che inonda: gallerie d’arte mondiali, musei, spazi istituzionali, mercanti, collezionisti, promoter, curatori, etc … È il luogo comune (perché se ne parla ancora), e perché nel film si vuole vivere!

2) Ma non è certo una sorta di scena vuota dove potrebbe arrivare non importa chi, al contrario: lo spazio è … ciò che accade. E che significa “accadervi”? “Aver luogo”, filmicamente; voglio dire che le lingue del fare artistico sono piene di spazio, che non saremmo in grado di vedere né di seguire l’arte contemporanea e il cinema che la rappresenta senza molteplici riferimenti ad una qualche spazialità. Provate a rileggere la trama delle neo-avanguardie a confronto con la trama dell’audiovisivo e divertitevi a replicare le metafore spaziali della medialità. E non dite: “questo non sta in piedi”, perché sarebbe una figurazione spaziale; diciamo che piuttosto bisogna riconsiderare l’argomento del film, ed è ancora figura spaziale.

Nessuno ignora che gli artisti visivi influenzati dalle neo-avanguardie e i registi come Ostlund si occupano di spazio (o piuttosto di spazi dentro e fuori il Museo), e che il linguaggio della “crisi dell’arte (delle arti) – come gli altri linguaggi, più degli altri – è imbottito di riferimenti spaziali. Un’abitudine di vecchia data ci porta a dire, al singolare, che il minimalismo si riassuma nel discorso “geometrico” del The Square, cosa che conduce finalmente a prendere atto del fatto che la geometria non rappresenta l’ultima parola e forse neanche il Museo.

Dentro The Square, dunque, si svolge la crisi dell’arte, la crisi dell’esistenza borghese a cavallo dello sviluppo dell’ultima fase dell’arte moderna, la crisi delle inquadrature, delle performance che presuppongono l’intervento degli artisti e di oggetti. Si può dunque partire da una nozione di spazio definita, in cui si svolge una proto-fiction. Questo fare ha un suo spiegarsi teatrale a livello della biologia del comportamento, cui l’etologia, appunto, conferisce un territorio museale, ritagliando la nozione di spazio su se stessa, sulla sua storia, che poi sarebbe quella di una cornice appoggiata sul suolo urbano dell’ex-reggenza monarchica.

Basterebbe anche questo primo elementare commento – suscitato più dal dubbio e dalla sorpresa del quadrato magico, che da un’analisi fredda e distaccata – per rendere metaforico l’interpretazione di un altro contemporaneo di The Square: Museo e Vernice acida! È dunque vero che Ostlund ha proceduto alla stessa maniera dell’arte contemporanea, ovvero per conflitti veri, per larghe dimensioni di difficoltà ed incomprensione e che le sue inquadrature possiedono l’aspetto un po’ rude ed austero della natura? L’autore-collettivo, in effetti, persuaso che scopo di The Square sia la riproduzione e l’analisi della realtà, pensa nell’altro: «quando le immagini ci regalano quel misto di difficoltà tra la crisi delle arti visive e la crisi del cinema, correggono la natura della storia, mentono sapendo di dire la verità». The Square si è domandato perché mentire con l’arte visiva, perché essere incomprensibili, perché essere distanti dalla relazionalità, pur stando nella relazionalità? Il pubblico, così come la giornalista di turno e anche l’autoanalisi del curatore, come sempre si è ben guardato dal comprendere ciò che voleva il performer di The Square, «ci sono state persone che hanno un senso nel quadrato; altre più spinte non avrebbero mostrato alcun risentimento nello scoprirvi un’irritazione oscena. Eh! Dite pure loro ad alta voce»: «caro antieroe, caro tirapiedi del neo-minimalismo globale, che voi non siete affatto ciò che essi pensano, che un quadrato è per noi un semplice pretesto per l’analisi».

Ostlund, infatti, rappresenta per The Square il violentatore di una sceneggiatura dallo sfondo documentaristico, mescolando intrecci distinti collegati dal personaggio del conservatore del Museo, l’indagine sul furto del suo cellulare, un’avventura sessuale con una giornalista americana, il lancio di una campagna mediatica per una nuova esposizione. Ma questo presunto realismo in grado di filtrare, attraverso un particolare temperamento, l’elemento fisso della realtà – e quindi offrire “ una creazione che appartiene a tutta l’umanità” – dovrà ben presto scontrarsi con la constatazione bruciante che l’opera cinematografica non situata in nessun luogo (la definizione è dell’immagine mediale) affronta le reazioni a catena delle conseguenze disastrose. A questo punto, è necessario interrogare il film alla luce dei problemi che esso pone. È vero che The Square non si contenta di proporre una facile satira del mondo dell’arte moderna e contemporanea? L’antieroe Christian, afflitto da difficoltà di carattere personale e professionale, mostra i limiti di una «vecchia stagione spettacolare del curatore». Perché, dunque, The Square (il quadrato della condivisione) è l’emblema della lente curatoriale distorta della società contemporanea? Come far luce su questa operazione di catastrofe generalizzata che manifesta però la precisione di un fascino allo stato puro? L’unico modo per rispondere a simili interrogativi è seguire il suggerimento dello spazio ostile, come fascino allo stato puro! Delle contraddizioni imprevedibili, pur assai differenti tra di loro, offrono il motivo schematico e il referente tematico del dogma e della prossimità.

La performance dell’uomo scimmia è stesa su tutta la parte risolutiva del film, con la scultura-vivente del gigantismo alla Ron Mueck. La storicità del gigantismo e il suo carattere di presente non avrebbero tolto nulla alla virtuale trasfigurazione della presenza estetica, per sua natura intemporale e sottratta alla finitezza dell’arte moderna. E appunto l’inesauribilità dello shock a contraddistinguere la creazione artistica e la stessa creazione del film, pur collocandosi al di là delle scuole, dei generi e della tradizione – pur divenendo violenta ed estremamente soggettiva – rimane comunque un atto metafisico, vale a dire in grado di sollecitare le apparenze mondane e sigillare col timbro della catastrofe semantica i suoi prodotti. L’arte cinematografica di Ostlund eredita quello humour tanto paventato da Duchamp e dal suo interminabile effetto, gestendolo con impegno e savoir faire, innestato sulla commedia acida e su una teoria che si fa applicazione post-minimalista.  Così c’è stato chi ha addirittura negato autonomia teorica ad esperimenti come The Square o ripeto per altri versi a film come l’episodio di Sordi, sostenendo che la collocazione critica sfrontata nei confronti del sistema dell’arte visiva, rivolta ad un pubblico particolare di amatori e connaisseurs, avrebbe, per così dire, frenato la relazione tra sistema delle arti visive e cinema, costringendolo a procedere in modo trasversale e storico-critico, in sostanziale dissenso ai metodi della curatorialità artistica.

Altri hanno invece inteso The Square come un pretesto, o una suggestione suscitata da quella storia dell’umorismo duchampiano che, abbozzata nei primi anni ’70 e mai definita, avrebbe visto infine la luce nel poderoso saggio filosofico di Orson Welles F for Fake, o successivamente nella Migliore Offerta di Peppino Tornatore del 2013, omaggio all’intrallazzo delle arti visive e all’ideologia del furto nel campo del simbolico e del figurativo. In ogni caso, se è vero che ogni semiotica agisce sull’opera con un incremento di senso, e che soltanto nella comprensione delle sue diverse virtualità significanti essa attualizza una sua produzione di significato, allora può essere utile considerare le diverse ipotesi – anche quelle contrarie all’intenzione del regista – come sintomi di una crisi delle arti visive. Esse sono, infatti, vettori o direzioni di lettura e di esposizione, che possono contribuire ad individuare la prospettiva di tale crisi, il contesto, nonché le articolazioni e i linguaggi mancati dei fenomeni in oggetto. Alla luce di alcune delle più singolari reazioni critiche contro quelle semiotiche, il caso The Square in Europa diviene allora rivelatore di una sorta di scarto trasgressivo e radicale, tra il cinema e le arti visive allo stadio terminale. Sembrerebbe che, inaspettatamente, The Square fosse costretto a registrare dei progressivi terremoti in quella che potremmo definire – senza nessun intento derogatorio – la retorica del cataclisma. Come se Ostlund, ancora di più di Lars von Trier, si sentisse forzato ad esprimere una profonda semiosi di rottura alla Stimmung emotiva dell’arte contemporanea e alle proprie categorie, dogmaticità, costrizioni, paralogie e confezioni inevitabili. Come se circondata da queste stesse categorie, l’arte visiva «compresa dall’effetto duchamp» le dislocasse e le sottraesse alla sua stessa sismicità, rivelandole alla fine come puri deterioramenti di regime discorsivo, conflagrazione enigmatica e bruciante che segna l’irriducibile morte annunciata del sistema dell’arte più che del sistema del cinema.