A one

Io cammino, tu cammini, «Egli s/confina» (ecr. 04- 1985/6: Città senza confine)

Le soluzioni per attraversare la città sono tante, più o meno percorribili, ma ci sono. L’importante è non demordere e assorbire le condizioni sociali della mutazione artistica, non solo di macchina da scrivere, ma anche di autovalorizzazione dello sconfinamento e imbracatura performatica per scalare la difficile condizione della «Città senza confine». Se l’accezione abituale di senso allude a qualcosa di definito, l’idea degli annali di Città & Città dell’83-84, qui di seguito recuperata e ancora attuale, è quella di un senso indefinito, onnidirezionale, che si articola in momenti eterogenei e, soprattutto, in qualcosa di assolutamente instabile e s-quilibrato.

Camminare la città non è cosa facile: bisogna guardare, studiare, leggere, dipingere, s/versare poesie, s/verseggiare sconfinamenti, approfondire, ispirarsi, mettere in azione le bombolette spray sulla giusta superficie, e quindi rileggere la tag e correggere l’intervento di classe nello scontro tecnologico. Tutti i writers, o aspiranti tali, lo sanno, soprattutto chi è alle prese con il primo punto, la prima linea, la prima superficie, chi si destreggia col primo murales. L’immagine della Città senza confine è come per la Stadtebilder di Walter Benjamin, ovvero una scatola a sorpresa. È concreta e precisa, e tuttavia singolarmente intensa ed evocatrice. Chi ascolta il richiamo di una Città senza confine, ovvero di una Napoli sprofondata nel suo s/confine, viene coinvolto in quella trascinante avventura delle folgorazioni del pensiero di Benjamin.

Questo discorso è stato ben compreso da Peter Szondi, nella Nota Conclusiva all’edizione italiana di Immagini di Città del 1971, tradotte da Marisa Bertolini. Come dice il brillante filologo di origini ungheresi, la recherche di “Benjamin ha una grande valenza storico-sociologica. Movendo dalla condizione sociale tardo-borghese, irrigidita e prigioniera del principio dell’individuazione, egli cerca la strada delle perdute, originarie categorie del sociale. La protesta che il primo Hegel e Golderlin levarono in nome del vivente contro il positivo, suona di nuovo alta in Benjamin”. Riferendosi ad uno dei passi più toccanti, scritti su Il Mare del Nord, Szondi continua a dirci che: “Tutte le cose rivolgono alla malinconia il loro lato oscuro. La tensione fra nome e realtà, che è all’origine dell’arte, viene dolorosamente esperita ormai solo come la distanza che separa la persona dalle cose. E in questo dolore fa breccia l’esperienza vissuta, che Benjamin registra senza indugiare nell’analisi. Il chiaroscuro del cielo lacera la realtà e revoca l’identità, che sola rende possibile dare nome alle cose. I gabbiani perdono il loro nome, sono ormai solo se stessi, ma appunto per questo forse più vicini all’uomo che se egli ne possedesse il nome. […] Eppure il significato del vissuto in Benjamin non si esaurisce qui. Chè esso nel contempo rappresenta il capovolgimento di ciò, da cui in Proust come in Benjamin trae origine la metafora. Come infatti là il nome si separa dai gabbiani perché il cielo li ha divisi e la differenza ha il sopravvento su ciò che li unisce, così due cose fra loro diverse perdono nella metafora l’identità con se stesse perché, grazie ad un’analogia scoperta dal poeta, si stabilisce fra loro una nuova identità” (Immagini di Città, Einaudi, Letteratura 20, Torino, 1971, p.106-115).

Gaspar Adriaensz van Wittel, alias Gaspare Vanvitelli

In Città senza confine la metafora dell’attraversamento urbano serve, in armonia con la sua visione sconfinata ed alla ricerca del tempo perduto. Allora cosa fare? Si possono scegliere diverse strade: dice ancora Szondi, glossando a margine di Benjamin, “non c’è descrizione senza distanza, se non nel reportage” (ivi, p.102). Diremmo noi senza lo sconfinamento. Si possono scegliere diverse strade. Un tempo era sicuramente più semplice perché bastava innamorarsi delle strategie di una galleria d’arte – magari la libro-gallery sotto casa, collegata col grande mercante di routine – per regolare/regalare la spray/performance o, in alternativa trovare un editore come Luigi Castellano e una rivista come Citta & Città, disposta a pubblicarci o a distribuirci. Un giorno, Luca mi ha detto che la frase di Picasso che preferiva era: “Sono necessari molti anni per diventare giovani”. Gli piaceva talmente che l’ha fatta scrivere anche sui muri del suo studio di Via Dei Fiorentini. È una frase bellissima che possiamo usare in modo traslato. Sono necessari molti ragionamenti per toccare l’agnizione partenopea. È strano il nostro lavoro: noi dobbiamo usare la nostra parte razionale per ottenere dagli altri un atto spontaneo di comunicazione.

Se osserviamo il comportamento artistico odierno vediamo che lo slancio verso la città domina la nostra vita. L’ambiente sociale napoletano post-terremoto, ad esempio. Tutti qui, on-city oppure off-city. Attualmente ci sono anche altre strade percorribili: come ben illustra la foto di Enrico Ricciardi sulla copertina di Città senza confine, come ci fanno vedere le foto di Augusto De Luca nello spazio urbano, come ci soccorrono i segni di Wolf Vostell, gli interventi di Jurgen Klauke, Urs Luthi e poi, soprattutto, A ONE, B’Last, Crash, Dondi, Futura 2000, Noc 167, Lee Quinones, Quik, Kenny Scharf, Zephyr, tutti invitati in Rassegna. Viviamo in un mare di estasi della comunicazione (e metropolitana), e irrazionalità fa rima con emotività. Provate a disegnare il vento del Golfo. Non è disegnabile, vero? Non è rappresentabile se non attraverso gli oggetti che esso muove: l’immagine di una sottana sollevata, un parapioggia rovesciato, una foglia che vola. Quando guardiamo il mare del Golfo, noi pensiamo che le onde siano del mare, mentre invece sono del vento. I movimenti del mare che ci portiamo dentro, sono invece come quelle correnti che scorrono più in profondità. Come il vento, anche l’emotività – che si s/confina – non è prendibile, ma è rappresentabile attraverso le cose d’arte. C’è un punto di incontro nelle nostre passeggiate, nel quale la ragione artistica e il sentimento estetico si fondono ed è quel momento maledetto, bellissimo e struggente: lo s/confinamento.

Per immergerci nel territorio, dobbiamo prima di tutto capirlo e per fare questo ci riempiamo di riferimenti e di dati nascosti nella storia dell’avanguardia napoletana, così che capiamo le ostilità, il tipo di erranza e come funziona la percezione dello spazio sociale. Un approccio logico ed esterno. Noi condensiamo tutte queste informazioni in qualcosa che di solito è una manciata di parole, una sintesi, un simbolo, una metafora, una pittura, un video, un film, una fotografia; quasi come uno slalom percorso magistralmente tra le strade della Città. Questo nostro lavoro emotivo viene presentato al fruitore, che lo giudicherà con curiosità, dimenticandosi la sua parte da consumatore annoiato davanti alla tv. Come vedete, il cammino nella città, è tutto un contraddittorio immaginario. Una serie di informazioni logiche fanno nascere un messaggio ansioso, che sarà selezionato con il raziocinio. È un caso di dubbio, testato da un istituto di ricerca e studi sul Mezzogiorno. Quel che resterà saranno gli avanzi, briciole, dell’emozione.

Non credo che ultimamente, dopo il terremoto, sia cambiata la narrazione: siamo cambiati noi. Lo racconta bene un testo di Benjamin ed Asia Lacis del ‘24, dove questa nuova filosofia dice che: “Da Napoli sino a Castellamare, lungo la periferia proletaria, si estende il quartier generale della camorra di terraferma. Questa organizzazione a delinquere, infatti, evita quei quartieri in cui potrebbe essere sottoposta al controllo della polizia. Si divide tra città e periferia e questo la rende pericolosa. Il viaggiatore che fino a Roma procede a tastoni di opera d’arte in opera d’arte, come lungo uno steccato, a Napoli non si troverà a suo agio. […] le statue sono sempre in ali del museo chiuse al pubblico e il termine “manierismo” mette in guardia davanti alle opere della pittura locale. Miseria e povertà hanno un effetto così contagioso come le si racconta ai bambini, e il folle terrore di essere imbrogliati è solo la misera razionalizzazione di questo sentimento. […] Pompei rende irresistibile l’imitazione in gesso delle rovine dei templi, […] Cronache di viaggio fantastiche hanno colorato la città. In realtà è grigia: un grigio rosso e ocra. È molto grigia di contro a cielo e mare. E non da ultimo questo grigiore toglie ogni piacere a chi viaggia. Perché chi non comprende le forme qui ha poco da vedere. La città è rocciosa. […] Porosa come questa roccia è l’architettura. Fare e costruire si mescolano tra loro in cortili, scalinate. Si conserva ovunque uno spazio che possa divenire teatro di nuove e imprevedibili costellazioni. Si evita il definitivo, il codificato. Nessuna situazione, così com’è, sembra pensata per sempre, nessuna forma impone un “così e nient’altro”. In questo modo nasce l’architettura, l’esempio più convincente di senso di ritmo di una comunità. Civilizzata, privata o ordinata solo nei grandi hotel e nei magazzini del porto; anarchica, contorta e paesana al centro, dove solo da quarant’anni sono stati fatti passare grandi tratti di strada. E solo in essi la casa è cellula di architettura urbana […] In questi vicoli è difficile distinguere cosa debba essere ancora ultimato e quel che ha già cominciato a deteriorarsi, perché nulla viene portato a termine o completato. La porosità s’accorda non solo con l’indolenza degli artigiani meridionali, ma anche e soprattutto con la passione per l’improvvisare, a cui non devono mancare spazi e occasioni. Edifici vengono utilizzati come teatro popolare. Si dividono in palcoscenici animati da spettacoli simultanei. […] Ciò che accade sulle scale è un’alta scuola di regia. […]” (Opere, vol IV, 1, Francoforte 1972, traduzione di Mauro Ponzi in «Es», 9-10, 1979 pp. 95-98).

Questi messaggi sono lo specchio della nostra territorialità e non so se siano giusti in senso assoluto, ma certamente sono situazionali. Adriano Spatola, in un testo sulla poesia anonima che configura la dimensione della Città senza confine, scrive: “Il mondo che abitiamo è un mondo coperto di segni. Sono essi che permettono la ricostruzione e l’interpretazione del suo passato, come del suo presente. La mano che li ha tracciati e continua a tracciarli è lo strumento di uno dei più antichi e radicati bisogni dell’uomo. Attività magico-religiosa o tecnica-pubblicitaria, istinto inconsapevole o raffinato mestiere, libero gioco o semplice mezzo di comunicazione, questo bisogno nato con l’umanità si è ramificato e differenziato, complicato e moltiplicato senza sosta, fino a rappresentare oggi uno degli aspetti più vistosi della nostra civiltà. Ci muoviamo in una foresta di superfici macchiate, incise, disegnate, incrostate, scritte, urtiamo contro di esse come contro uno specchio, e quelle più antiche ci riflettono come quelle contemporanee. La nostra storia di ieri si conserva nelle caverne, sulle rocce, nei templi, sulle tombe, quella di oggi la scriviamo sui muri delle case, nelle strade, sui marciapiedi. Ma la linea che unisce il primo segno umano al cartellone pubblicitario è una linea ininterrotta: come ha detto Robert Desnos: «l’affiche est de la famille des graffiti». Nell’attimo stesso in cui prendiamo contatto con questa vocazione umana alla parola scritta o parlata, all’immagine e al suono, ci rendiamo conto della sua natura complessa, atemporale eppure indubitabilmente storica, in perpetua metamorfosi, e tocchiamo con mano i sedimenti che questa inesausta agitazione molecolare lascia, vere e proprie tracce, intorno a noi e dentro di noi. Ma come le correnti di un fiume i messaggi scorrono ai diversi livelli, a diverse velocità, e la forza più corrosiva è quella del livello più basso, dove l’acqua trascina fango e sassi contro la diga ufficialmente adottata da una società. […]” (in Franco Vaccari, Tracce, ed. Sanpietro, Bologna, 1966). 

Secondo molti dizionari, sia orientali che occidentali prima di diventare artisti (androgini) eravamo pittori, scultori, fotografi, etc … Tra gli artisti non ci sono l’artista maschio o femmina, ma al momento di scendere sulla terra si deve decidere se stare a destra o a sinistra, se stare dalla ragione o dall’emozione, se essere sole o luna, se nascere pittore o graffitista. Pare che le anime con una leggera dominante emotiva metropolitana nascano in un corpo pluriandrogino, mentre quelle più razionali in un corpo di writers. Ovviamente il concetto va compreso nella sua interezza, che presuppone che ognuno di noi abbia in sé elementi androgini e testogeni, visivi, tattili e scrittografici: ognuno di noi è urbano e extraurbano. Alcuni sviluppano di più un aspetto, altri un altro, ma ciascuno è nello stesso tempo “punto, linea e superficie”. In ogni condizione metropolitana ci sono stati momenti urbani ed extraurbani. Ho trovato recentemente un raro articolo di Goffredo Parise, edito nel 1976 sul Corriere della Sera, che dice: “la lingua … usata sui muri, nei bus, nei vagoni dei subway, sulle pareti dei camion e sulle cassette postali è immediata, comunicativa, utile. Utile a che? A comunicare e a ricordare al cittadino … il suo dovere di produttore e di consumatore … La lingua americana è usata esclusivamente in un contesto economico. E’ stampata. È informale. Sostuiamola sugli stessi muri di New York, dentro gli stessi vagoni di subway, dentro i bus e camion con un’altra lingua che sia esattamente l’opposto, cioè una lingua gratuita, indecifrabile, priva di significato economico, scritta a mano, con ideali modelli formali del terzo mondo, bella e inutile”(G. Parise, CdS, 7 aprile, col titolo Sbarco a New York ’76: Viaggio attraverso gli Stati Uniti). È interessante vedere come ogni passaggio, di questo discorso di Parise del ’76, riporta la contrapposizione confine-sconfine e inizi citando, per ogni concetto trattato, i principi delle culture del centro e della periferia, propendendo ovviamente, da buoni latini, per le tesi emotive di questi ultimi, gli sconfinati. Ma la sconfinatura post-industriale non ha memoria storica e gli argomenti ritornano sempre altalenando la logica alle emozioni extraurbane, capovolgendo il proprio sguardo e il proprio stile, senza soluzioni di continuità. Questi sono anni in cui lo sconfinamento non chiede più informazioni, ma si difende dall’eccesso di queste, dall’eccesso di media, da troppe radio, da troppa tivù. Il problema non è andare più al cinema, ma trovare posto per l’arte. Dobbiamo continuamente difenderci. Pensare di vedere è esporre, ma per esporre nel “vedere”, bisogna paragonare e assemblare. La discussione di tale confronto è stato l’oggetto di Città senza confine. Infatti, la mostra nello spazio napoletano Pulsar offre, da qui, massima prova della sua attitudine espositiva-sconfinante. Essa sembra far propria l’immagine abusata del teatro del mondo, intendendolo come fosse lo sfondo atemporale delle vicende umane e insieme il fondale di ogni allestimento necessario al «confine dello s/confinamento». A un’osservazione più attenta, tuttavia il paragone tra «sfondo e fondale» dovrebbe essere supportato dalla specificità di Pulsar: “Emette i suoi segnali da giovedì 23 febbraio 1984, in via Costantinopoli, 33, occupandosi di: “Video-Musica-Teatro-Film-Audiovisivi-Computer Graphics-Computer games-Mostre-Performance. Desideriamo tutto ma i nostri bisogni primari sono veramente pochi, a pensarci bene. Infatti, come scrivevo nella Fanzine che accompagna la Mostra Collettiva «Corpo, materia, materiale»: “Superata la prima fase della riscoperta pittorica, siamo già entrati in un tempo in cui gli artisti agiscono per forme di contaminazione espressiva. Gli strumenti del comunicare sono tutti quanti a disposizione dell’autore, che oggi si pone come catalizzatore ed interprete tra «realtà data» (vedi Napoli post-sisma) ed immaginario collettivo, … pensiamo che sia opportuno indicare queste corrispondenze mass-mediali col felice termine di «intermedia» (mescolanza di tecniche che trattano la superficie visiva con sostanze policromatiche e corpi assemblati) (scritto di Gabriele Perretta in Fanzine/Pulsar: emette i suoi segnali, da Giovedì 23 febbraio 1984, Via Costantinopoli, 33- Napoli).

In uno scritto sul quotidiano l’Unità, la giornalista Ela Caroli manifesta la propria ammirazione per la mostra dello spazio Pulsar: “Corpo, materia, materiale”, affermando: “ … è stata intelligentemente curata da Gabriele Perretta, giovanissimo critico d’arte e curatore, e i quadri esposti sono di Lucia Gangheri, Sasà Giusto, Franco Silvestro, Maurizio Pivetta, Oreste Zevola, Fabrizia Abbagnano, Gavino Crispo, tutti o quasi tutti giovani che sperimentano le possibilità di mescolare tecniche diverse assemblando e contaminando […], ricollegandosi in qualche modo alla lezione di pop artisti, ma trasferendola in nuovi e personali linguaggi. […] Zevola sviluppa icastica ironia della sua grafica, permeata di sadica poesia, e Lucia Gangheri riesce a nobilitare due materiali poverissimi e banali come i fogli di plastica e lo scotch, creando complesse ed originali composizioni che sembrano fotogrammi di pellicola cinematografica o frames di un videotape, ma che per la loro paziente manualità si possono senz’altro definire “arazzi metropolitani”.” (L’Unità, Napoli, martedì 6 marzo 1984). 

L’affermarsi del gesto, della performance urbana e delle politiche della bomboletta ha creato la possibilità in tantissimi che nel soggetto conurbato si nasconda «un artista in più (sconfinato)» e che basti una passeggiata vesuviana o flegrea, avellinese o casertana, spesso soltanto camminata, su un qualche muro di cinta, su una qualche conurbazione strampalata, per essere considerati dei nuovi Pulsar (eroi-attivisti-metropolitani). In Strada a senso unico, Benjamin potrebbe commentare un tale segnale dicendo: “come la luce ultravioletta, il ricordo apprende ad ognuno la glossa segreta che accompagnava, come una profezia, il libro della sua vita” (cit. in Szondi, p.103). Anche il mondo delle gallerie d’arte non è immune da questi salti s/confinati. Quella del flaneur non è una pratica che si può maturare, ma sappiamo anche delle difficoltà in cui si imbatte un artista “in erba”(molta erba) che si proietta nella Città senza confine”. A One alla domanda “Perché ti sbatti da writerista nella città?” Risponde “per paura che la mia vita non traccia. O anche solo per essere protetto dalla giustificazione” di uno s/confinamento, per scivolare in una storia e non essere più riconoscibile, controllabile, ricattabile: “Quella sul mio muro, non è una lingua: sono delle lettere. Le terre stanno alle spalle della lingua, a monte della parola ma nello stesso tempo sono il fondamento della conoscenza. Se non ci fossero le lettere non ci sarebbe la conoscenza, e se non ci fosse la conoscenza non ci sarebbe l’architettura delle case, e se non ci fossero le case non ci sarebbe chi grida dove sarebbe Rammellzee? Lui grida e io sparo, con la vernice spray.[…] Non è una guerra tra bande, non è una guerra tra la gente nelle strade. Anche se è vero che in passato la gente ha combattuto davvero nelle strade, a causa delle lettere. E può darsi che in futuro la gente combatta ancora nelle strade a causa delle lettere. […]” (Intervista a cura di Francesca Alinovi, in Flash Art, n. 114, giugno 1983). Lo sconfinamento è l’accettazione di una smarginalizzazione. Così il writer che in questo periodo è intervenuto dentro Città senza confine raccontava dei suoi contributi alla rassegna di Pomigliano d’Arco e Napoli! Diciamo subito che i motivi che spingono ad una sorta di writerismo allargato (espanso) variano da soggetto a soggetto e che, nel momento in cui si fissa sul muro un pensiero o un sentimento, pur non diventando artisti affermati, nel senso pieno del termine, avremo lasciato un percorso, un détournement (sì, proprio quello situazionista), seppur labile, del nostro sentire e del nostro taggare temporale. Pensate, per un attimo alle suggestioni che regalano il lavoro di Gabriele Di Matteo, Lucia Gangheri, Piero Gatto, Sasà Giusto, Fathi Hassan, Saverio Lucariello, Enzo Palumbo, Rosa Persico, Maurizio Pivetta, Francesco Esposito Sansone, Franco Silvestro.

La performance urbana della street art è forse la forma più sconfinata e complessa di comunicazione mai esistita, non è un caso, infatti, che le antiche civiltà del mediterraneo, di cui Napoli è ancora uno dei punti capitali (lo era prima del terremoto dell’80 e lo è in questa situazione post-sismica dei primi anni Ottanta), facessero diventare arte la tautologia dello “stilus” stesso, quel comportamento artistico diffuso che, nella sua accezione romano-antica, è metaforicamente quella tecnica, per indicare i modi di parlare e di agire con la comunicazione in pubblico. Come affermano H. Honour & J. Flemming nella loro Storia Universale dell’Arte: “I mutamenti stilistici, che comprendono sia ritorni a stili precedenti (caratteristica rilevante dell’arte cinese come di quella occidentale) sia l’adozione di stili forestieri, distinguono nettamente la storia dell’arte da quella della tecnologia. Sono il risultato di una lotta perenne con i materiali e i significati. Gli stili, infatti, non soltanto rispecchiano in varia misura le premesse, le credenze, le filosofie, le norme morali, gli ideali politici e d’altro genere della società o della cultura cui appartengono, ma sono anche la creazione di singoli pittori, scultori, architetti e artigiani, e portano inevitabilmente il segno delle loro «scritture» personali. Lo studio degli stili può chiarire le opere d’arte mettendole in rapporto tra loro, e a volte anche con la letteratura e la musica del periodo e del luogo in cui furono prodotte. Gli stili mostrano la gamma delle possibilità offerte all’artista nella scelta dei materiali e dei temi, oltre che dei mezzi d’espressione. Le preferenze di un artista, si posino sul concettuale, il lineare o il pittorico, la simmetria o l’asimmetria, le composizioni statiche o dinamiche, quelle «chiuse» o «aperte» – cioè quelle che isolano il soggetto e quelle che lo presentano come parte di un mondo in cui lo spettatore è invitato ad entrare -, tutti questi fattori e molti altri possono contribuire alla formazione di uno stile” (tr. E. Capriolo, Editori Laterza, Roma-Bari, 1982, p.12).