Effetto Duchamp (prima parte)

Prima parte: Come mai anche i ready-made più banali e generici sembrano descrivere con puntualità il nostro stato di crisi artistica? Perché le costruzioni vaghe (e un po’ lusinghiere), nella pratica delle arti-stars, sono sempre convincenti? Qualunque cosa dicano di noi, i post-ready-made non ci insegnano qualcosa di nuovo, eppure sono i più diffusi nel mondo e per il mondo: la vittoria del «processo creativo duchampiano»? Il “gesto bloccato” del “processo” esprime forse una diffidenza dell’enigma, nell’incontrastata sicurezza di un oggetto che tutto assorbe e modula nel proprio infinito costruire e ambiguizzare: e si ostina ad evocare, tra chi assimila e chi fruisce, le irriducibili qualità di qualche cosa d’altro …

«Voi lo sapete, amici, ed io lo so.
Anche i versi somigliano alle bolle
di sapone; una sale e un’altra no». 

Umberto Saba

Quando l’amico di Angelo Shlomo Tirreno rientrò a Parigi, città del suo dottorato di ricerca, era stanco ed affaticato. Era, infatti, reduce da settimane e settimane di studi bibliografici, dossografici, papirologici, su cui i Custodi della LIBRIDINE, per decretare a chi spettasse di prevalere sull’altro, avevano deciso di sfidarsi a suon di traduzioni attendibili e prove di esegesi del «processo creativo». Prima Angelo aveva detto al Messaggero Enrico (Maria Sestante) che si sarebbe piegato al suo volere, solo se questi gli avesse fatto arrivare il testo originale da tradurre, ovvero il testo di Marcel Duchamp filologizzato (pubblicato su Art News,1957(New York). Il testo riporta una dichiarazione dell’«Ingegnere del tempo perduto», esposta alla conferenza della Federazione Americana delle Arti, riunita a Houston e dedicata, in maniera pertinente, allo studio del “processo creativo”), invece che dei plichi papirici, con delle glosse e note incomprensibili. Il curatore di Parigi, dopo qualche riflessione, era riuscito a volgere le parole dell’artista nativo di Blainville a suo favore: aveva messo nelle reti della LIBRIDINE un sacco di incertezze, per chiudere col patrimonio della letteratura artistica classica, cosicché nessun tassello traduttivo potesse essere collegato con la memoria dell’antico universo iconologico ed effettuale. Aveva poi mandato la traduzione a Enrico, sfidando Angelo a consegnargli un vocabolario simbolico del “ready-made”, simile a quello che Angelo brandiva. L’esperienza BIBLIOTeconomica di Angelo, tuttavia, aveva capito il double entendre contenuto nella conferenza di Marcel: se gli avesse consegnato quello schema euristico di traduzione, avrebbe automaticamente ammesso la sua sottomissione all’equivoco della peinture conceptuelle, di cui parlava Apollinaire nel 1913. L’epigrafista parigino aveva allora rilanciato con una richiesta impossibile: disse al messaggero che la sistemazione trascrittografica e concettuale del progetto ermeneutico di Enrico sarebbe stato consegnato soltanto in cambio di una “seconda prospettiva che fosse fatta di “nessuno dei vocaboli”, di “alcuna delle consonanti”, di “niuno degli aggettivi”, di un “giammai dei pronomi” allora conosciuti.

Angelo Shlomo, sentita la richiesta, non si era scoraggiato. Aveva preparato una cinquantina di versioni traduttive del testo di Marcel Duchamp, la prima sostanza meta-traduttiva e meta significante dell’Ingegnere del tempo Perduto, l’aveva fatta crescere in Laboratorio (glossematico) e, quando aveva preso la forma di lettura e di letteratura desiderata, l’aveva mandata all’avversario. Questi alla vista di una conferenza che aveva la pretesa di redigere la problematica della scrittura e della letteratura aperta, la prima sostanza di falsificazione dell’indefinibilità dell’arte e, quando aveva preso la forma di un ready-made imperdonabile e istituzionalizzato, museografico, l’aveva usato come paradigma dell’arte post-moderna. 

La lettura del processo creativo che trasportava i segreti delle strane corrispondenze tra parole e immagini – aveva detto al corriere – si presentava come uno strumento da combattimento, tipo di una moneta mai vista prima, che non fosse nè poetica nè ecfrastica, né propriamente filologica, né assolutamente relazionale, né immersiva, né psicoattiva, solo allora Angelo si sarebbe piegato. 

Ma ancora una volta l’ingegnere della scacchistica era riuscito a piegare le parole dell’altro a proprio favore. Aveva fatto intessere una damiera come sottofondo del testo sul “Processo Creativo”, per rivestire il ready-made di linguaggio reale capovolto. Quindi, aveva fatto rinominare l’oggetto ritrovato, gli aveva dato in braccio scacchiera e scacchi e gli aveva annunciato il testo di una nuova prova, da trasmettere a Enrico. Il messaggero, però, deve scusarsi, con imbarazzo. La stanchezza BIBLIOTeconomica (libridinosa) non gli permette di mandare per bene a memoria – come dovrebbe – le parole della concretezza filologica. Il messaggero può partire alla volta della Città senza confine, la raggiunge e, terminati i convenevoli, sottopone il testo-ready-made all’Amico Ritrovato (Hans Koller/Free Sound, Akt, Eine Treppe Hinabsteigend, Nr. 2, Marcel Duchamp). 

Che si tratti di un colloquio con un gallerista, di un gioco di società fra artisti più o meno affermati o della rubrica di un direttore d’arte contemporanea, capita spesso che un esperto d’arte ci proponga un ready-made. E, quasi sempre, l’oggetto che emerge dall’analisi ci lascia di sasso. Siamo stati coinvolti in modo pertinente e, a parte qualche dettaglio, abbiamo l’impressione che la nostra intimità creativa sia stata messa a nudo dall’arte e dai suoi limiti: visivi, concettuali e forse politici.

Questi ready-made soddisfano una curiosità tipicamente post-moderna: nessuna epoca ha mai tentato di obbedire – con la stessa tenacia della nostra – all’antica ingiunzione del “processo creativo” inoltrato dall’oscuro ready-made. A fianco di seri istituti teologico-politici, vengono in nostro aiuto estetiche alla moda, scritture di giornalismo provocatorio e molte altre della stessa risma, che pretendono di possedere la chiave dell’universo interiore di Duchamp e si propongono, con un crescente successo popolare, di svelare i lati oscuri della personalità di uno degli artisti più indecifrabili e irrefrenabili della storia dell’arte di tutti i tempi. La ragione di tanto successo dipende dal cosiddetto effetto ready-made, un principio formulato da M. Duchamp, secondo il quale qualsiasi sia il ritratto che emerge dal test dell’object-trouve, produrrà un risultato convincente, purché consista in una descrizione vaga e moderatamente comprensibile, e il lettore si persuada che quella oscurità, quell’enigma lo riguarda, anzi è addirittura introspettivo.

Atelier Marcel Duchamp

Dopo aver sottoposto un gruppo di studenti a un test sulla motivazione dei ready-made, chiedendo di valutarne l’esattezza su una scala da zero (nulla) a cinque (perfetta), le risposte di comprensione furono del tutto aleatorie. In una ulteriore e riproponente serie di re.ready-mades, una sorta di Duchamp alla seconda interviene sugli oggetti con una «ri-manipolazione» e una «ri-ri-manipolazione» del tutto «ri-gratuite»: la ruota di bicicletta posta su uno sgabello (Ruota di bicicletta alla terza e alla quarta, 2013- 2024) e una doppia gabbietta colma di frammenti di materiali diversi (Perché non fare ancora starnuti?, 2024-2064), assumono così una carica di significato abissale, in quanto mettono in atto un doppio, un triplo, un quadruplo, un quintuplo spostamento.  Ma cosa sono, effettivamente, queste dislocazioni? Esso si attua attraverso l’accostamento inedito di fattori, sottratti alla banale mentalità dell’uso quotidiano, oltre che attraverso la loro proposizione secondo l’ottica “rammendata”, imposta dalla scelta dell’autore. Anche Emmanuel Radnitzky travolge il significato che le cose hanno normalmente e le trasforma sotto i nostri occhi in NFT: tale è la strana impressione della sua Pagnotta acquerellata (1927-2027), uno sfilatino diligentemente coperto con uno spesso strato di vernice azzurra, o del Marteau sans maître – La Manche dans la Manche (letteralmente: Martello senza maestro (padrone). Il manico nella Manica” (1920-2067). Benché l’oggetto fosse sempre lo stesso, tutti i soggetti vi si riconobbero, in gradi diversi: su 39 studenti, 16 diedero una serie di spiegazioni altissime, ma infondate, 18 diedero un punteggio da «critica razionale» e poi incomprensibile; 4 un punteggio di «oggetto ermeneutico» e 1 un punteggio di «pura istigazione»; nessuno lo valutò pochissimo o per nulla. È affascinante notare come, in casi del genere, non venga mai in mente ai soggetti, a meno che non glielo si chieda esplicitamente, che la descrizione potrebbe adattarsi altrettanto bene a qualsiasi altro oggetto. L’impressione immediata di riconoscersi sembra irrefrenabile.

I curatori d’arte – parliamo qui dei loro presunti ready-made e non della pretesa di predire il futuro dell’arte – contano molto su questo sentimento di adeguamento per assicurarsi un pubblico “facile da gabbare”. Non di rado, in effetti, i loro sostenitori affermano che gli object trouvé, o la testificazione del ready-made, sarebbero veri perché la maggior parte degli artisti, e degli addetti ai lavori di arte contemporanea, si riconosce nella indescrivibile oscurità del proprio ready-made o nel rispecchiamento del proprio divismo, al di là del pragmatismo e dell’empirismo. Galleria d’Arte di Blainville, davanti all’oggetto ritrovato n. 9 sosta un gruppo di adepti che vuole essere autorizzato a delinquere. La loro guida giornalistica dimena le mani, accompagnando con enfasi, parole che suonano esaltanti e ammirate. Gli adepti in sala, non possono fare a meno di girare lo sguardo nella direzione dell’EFFETTO DUCHAMP e sforzarsi di capire qualche parola di quel vademecum del rifiuto del lavoro, dell’autorità, dell’Accademia, degli Studi, della Conoscenza, del situazionismo, che conduce all’EXPOSURE e sforzarsi di interpretare quella nuova condizione di dissoluzione dell’opera d’arte. Ma il linguaggio è di quelli che mentono a tutto, il sentore di qualcosa di speciale è nei gesti della menzogna che trascina il gruppo estasiato e incredulo. Così tutti si mettono a guardare, e dopo poco, esclamazioni di sorpresa ed inquietudine rumoreggiano nella stanza dell’effetto. La curatrice entrò nel salone dove si consumava tanto interesse per il niente, e non poté ignorare il pubblico che si affollava scomposto.

Cercò allora sul libretto illustrato, che aveva preso all’ingresso della Galleria, quale fosse l’attrazione dell’effetto in cui si trovava, ma niente di eccezionale catturò la sua attenzione sulla pagina.

Quando fu abbastanza a tiro da leggere il numero dell’effetto Duchamp, che richiamava tanta gente, tornò sul libretto e scoprì che non ce n’era illustrazione, ma soltanto una piccola nota che riportava queste parole: “Adesso puoi seguire la strada del Maestro, puoi iscriverti all’Università o all’Accademia e, senza frequentare un cazzo di corsi, lezioni e seminari, puoi segnarti sul libretto tutti i voti e tutti i meriti che vuoi, il piano di invenzione dell’effetto biografico è libero e richiede menzogne abbondanti. Autore Anonimo”.

Si fece largo fra la piccola folla,- per riuscire a guardare l’Effetto Duchamp e finalmente eccola, ad altezza artista, non più grande della Gioconda con i Baffi … tutta “fine che non giustifica alcun mezzo”.

A dire il vero l’effetto non era piatto, ma dava la sensazione di un vortice, di un fumo che girava a spirale fino al centro dell’oggetto rappezzato. Qualche istante dopo, qualcosa cominciò a prendere forma dentro quell’oggetto. La curatrice vide un artista che di spalle fissava una parete, poi presto dissolversi nella fuliggine dell’occhio.

– Dicono che predica il futuro dell’umanità! – un artista simbolico e attraente sostava accanto a lei, – spero che abbia inventato effetti allegri! – continuò quello con un largo sorriso.

La curatrice era ancora piuttosto confusa.

– Lei cosa ha visto? – gli domandò.

– Ah, mi dispiace non posso rivelarglielo, altrimenti perde l’aura! –.

E poi: – Posso darti del tu, devi avere più o meno la mia età!

La curatrice cominciò a guardarlo con interesse quel Lotto 9 e poi sorridendo disse:

– Mi chiamo curatrice.

– Io sono Curatore & Artista, non metterti a ridere! Per gli amici curator.

– Ok Curator! Senti, io invece te lo dico: quello che ho appena visto in quell’effetto Duchamp, non ha senso, c’era un tizio di spalle, che guardava qualcosa appeso ad una parete e … – Stava per finire, quando il curator scoppiò a ridere:

– Davvero il curatore è ballerino? Posso chiamarti il direttore del Prix Marcel Duchamp? Scusami, dicevi … appeso ad una parete … un effetto Marcel Duchamp? … -.

La curatrice lo guardò per un attimo perplessa e depressa; poi lui, sorridendo:

– Posso offrirti da bere?

Lei ci pensò un attimo ma poi capì:

– Volentieri Curator! … un largo sorriso le arricciava le guance.

Non voglio sostenere che tutti i ready-made diffusi nell’arte espansa, o nelle sorti dell’arte contemporanea, siano insulsi. Tuttavia “l’effetto ready-made esteso” ha un ruolo anche nelle opere serie e oggettivamente validate dal grande gallerista mondiale: è un po’ come l’effetto placebo, che contribuisce alla riuscita sia di rimedi strategici, finanziari e pratiche di per sé prive di alcuna attendibilità logica, sia dei farmaci estetici, stilisticamente convalidati come dei prêt-à-porter.

Il nome di questo fenomeno, noto anche come coefficiente d’arte, è in onore del creatore della prima strategia moderna di irrazionalismo giustificato, che sembra sintetizzasse il successo del proprio enigma in due frasi: “ogni minuto nasce un enigma” e “bisogna dare un contentino a tutti gli enigmi”. La credulità della gente non è l’unica ragione dell’effetto coefficiente: la seconda lapidaria affermazione punta il dito verso un meccanismo, che dipende direttamente dal modo in cui ciascuna strategia di oggetti trovati divenga convincente. Il fatto di mettere in relazione cose diverse, situandole in un contesto inusuale, porta in primo piano, nel ruolo di soggetto, i materiali attraverso la molteplicità di frammenti diversi, che compongono gli assemblaggi ed i montaggi più disparati.

La complessità delle relazioni così instaurate genera una laboriosità di significati sospetti, che si aggiungono ai vecchi-nuovi significati storici delle avanguardie. Per vie opposte, ma complementari, si giungerà alla ri-presentazione infinita di oggetti qualsiasi, qualificati dal puro fatto di essere (ri)-stati scelti e ri.posti dalla dispersione dell’NFT. La ri-funzionalità reciproca di queste ricerche è confermata dal fatto che esse ri-nascono su uno stesso terreno: l’esperienza (ri)storica, che tende per sua natura alla (ri)morte dell’arte, nel significato tradizionale del termine. Spostando l’interesse nel senso di un puro ritrovamento di oggetti reali, si passa dal collage di frammenti eterogenei di revival e stili, alle opere dell’NFT: né pitture, né sculture che eliminano anche il supporto dell’esperienza online, su cui incollare frammenti di materiali infiniti. Sono composizioni di mondi su mondi, in varie forme, laccate da altri mondi e sovra-opposte a incastro, da altri universi di materiali, o legate da oggetti e tenute insieme da bulloni della vita reale.

Si giunge poi, ultimo anello della catena, all’opera limite candidata di nuovo al Prix Marcel: “quando egli espone, nel 2024, un normalissimo meta-oggetto ridisegnato, il valore sta tutto nell’averlo tolto da qualche posto, suo abituale contesto, e averlo situato in un luogo sacro della Fiera Artistica, luogo delle procreazioni ad effetto: è ancora uno spostamento d’uso. In un periodo storico violento e attuale (diciamo quello tra le due crisi e la guerra Ucraina) l’effetto irrompe nell’immaginario sociale, come contenuto trasognato. È l’età d’oro delle grandi resurrezioni dispotiche e mitologiche. L’effetto, scacciato dal reale della violenza della storia, trova rifugio nell’esposizione d’arte, nel ready-made sociale”.

Oggi nel ready-made irrompe la storia, seguendo lo stesso scenario: la posta storica, scacciata dalla nostra vita, attraverso quella neutralizzazione gigantesca chiamata coscienza mediale, festeggia sulla diffusione dell’exposure da ready-made la sua grandiosa resurrezione, a livello mondiale e a livello quotidiano. Questa storia, esorcizzata da una società in via di congelamento lento e brutale, allo stesso modo in cui un tempo il processo faceva rivivere i miti perduti, si sfalda nella guerra!

La curatorialità del ready-made è il nostro referente perduto, vale a dire il nostro autentico stadio di alienazione. E come tale prende il posto dei dispositivi ad effetto. Sarebbe un’illusione espandersi al di là di esso, come ci si è espansi con l’ingresso della politica nell’arte. Stesso equivoco, stessa mistificazione. La politica che entra nella superficie dell’opera d’arte, sulla superficie di una grande e spettacolare bidimensionalità, svuotata del suo contenuto sostanziale e legalizzata nel suo esercizio da ready-made; area di gioco e terreno d’avventura corporativa, questa politica è come l’eccitazione latente del giocattolo o dell’ordigno di guerra: illusione di liberalizzazione.

Il grande evento di questo periodo, il grande trauma, è questa agonia degli effetti, l’agonia del reale effettualizzato e del razionale svenduto in una Borsa di Studio, che introduce ad un’era dell’infinità dell’effetto. Sembra che la categoria del ready-made debba applicarsi ora ad una certa fortuna curatoriale dei temi e delle mostre attuali. Piuttosto che tentare, di tale supposizione, una qualche verifica, sarebbe senz’altro più simpatetico provare ad applicare, al caso specifico di esposizione artistica, le interpretazioni del fenomeno-ready-made, su cui lo stesso Marcel Duchamp si è così insistentemente diffuso. Cosa si potrebbe dire, con Marcel Duchamp, per esempio della Retorica Esposta ad Effetto, nei suoi modelli in versione globale? È noto che tale Collezione ha come pezzo forte la conferenza del ‘56 sul Processo Creativo: è il caso, per provare a stare al gioco richiesto, di partire precisamente dall’analisi dell’effetto limite, dell’effetto blocco comprensivo, com’è delineata in quel testo chiave.

L’effetto, vi dice Marcel Duchamp, è la magia del coefficiente. Il coefficiente, meglio se detto con la maiuscola, è inteso come il sistema di codificazione egemone del caos, cioè quella sorta di continuum mediale, che attraversa l’infinitamente piccolo come l’infinitamente grande, degli odierni meccanismi di effettualizzazione. Di tale codificazione dominante, il sistema ad effetto, dice Duchamp, riprendendo l’incomprensione di Eliot da The Egoist, rappresenterebbe il momento mediale, la féerie. Una sorta di vertigine e di stornamento al limite di un sistema di segni che si usa definire totalizzante, ma che segue piuttosto una logica ad effetto, probabilistica, stocastica e fictionale. Tale da consentire, paradossalmente, una dislocazione nell’omologazione: l’effetto Duchamp è, infatti, omologo alla riduzione del concetto di senso in quello di mediale, che è proprio del codice fantasma. Al tempo stesso, però, se ne discosta con una lista infinita, una sorta di curvatura della lista, che sorge ad effetto al punto estremo di tecnicizzazione radicale degli oggetti trovati, dal sistema e nel sistema. Senza contenuto, l’effetto di far significare l’insignificante diviene paradossale: lo spettacolo che gli artisti offrono di se stessi “a se stessi”, del loro riscontro galleristico, si rivela mitologia.