Frame dal film "È stata la mano di Dio" courtesy The Apartment e Fremantle

È stata la mano di Dio

È strano, solo in apparenza, come questa sensazione di cambiamento sia in noi cominciata ad emergere in quelle forsennate sere di festeggiamenti per lo scudetto del Napoli, scaturendo dalla vita quotidiana, la più vicina alle scene di un film. Allora avevamo sbagliato taglio, se le note, chiare, limpide, ci venivano da parti e materialità insospettabili, forse inconsciamente da noi rifiutate come non attendibili: e invece erano proprio lì i segni della ripresa di un viaggio attraverso il proprio esistere. Non siamo soli e non siamo i primi: i soli sono inutili e inappagate cassandre, in primis ottusi e inani vanesi.
Noi siamo attori della «Mano di Dio» che si fermano ai bivi delle strade per Roma, ad attendere sconosciuti compagni di viaggio; l’esperienza comune ci renderà tutti Fabietto o Tony Pagoda, ma avremo anche prodotto qualcosa insieme, qualcosa di cui non vergognarci.

Ci sono città che avvelenano l’esistenza e che si sconsigliano agli spiriti labili. Napoli non è tra quelle. E se qualcuno ha avuto la vita spezzata in due da fatti di famiglia irreparabili, gravi perdite, sarebbe azzardato imputarlo alla forza del genius loci più che ha un destino già segnato dal teatro della vita.

Ci si chiede se per girare un film, e soprattutto per farlo concorrere agli Oscar, sia necessario avere grandi storie da raccontare. E certamente ognuno di noi ritiene di averne almeno una, la più grande e la più importante da lasciare agli altri o allo sguardo della propria città: la storia della propria vita. Ma è un genere difficile, perché – si sa – pochi hanno qualcosa di veramente interessante da dire. Pochi o tanti hanno vissuto esistenze fatte di tragedie, di patimenti non comuni, di segreti da custodire o di verità da filmare, genuinità da svelare. Allora si diventa curiosi delle vite di personaggi intensi, figure del proprio stesso sentire, che si immagina abbiano vissuto qualcosa di speciale per il proprio percorso formativo, che li ha resi quello che sono diventati, tirandosi fuori da un destino tragico, un destino che non ti ha permesso di vedere l’ultimo respiro di tuo padre e tua madre.

Chi filmando si nasconde dietro il personaggio di se stesso, racconta solo un doppio. E chi lo vede resta a chiedersi dove sia la persona vera. Non è il caso di Paolo Sorrentino, che è stato, e forse lo è ancora, un ragazzo napoletano come tutti, segno di indiscussa affermazione e che ha incarnato la leggenda della Mano di Dio, quella di Maradona e della partenope post-terremoto, indossando la propria storia come una sequenza di incredibile costruzione. È stata la mano di Dio è il film autobiografico di un giovane che rifiuta di dimenticare e che, con una astuta e lenta strategia difensiva, si sottrae alla cancellazione della memoria della città, della madre e di Maradona, senza riuscire a vivere la pace delle retrovie, e ancora meno la sua potenziale speranza di regista.

Siamo nella Napoli degli anni Ottanta, in una “società di popoli, classi sociali incrociate, impiegati e terremotati, calciatori e delinquenti, niños d’oro e pescatori, trafficanti eroi, registi, teatranti, archistar e attori che collegano i decenni e i secoli precedenti all’assurda attualità” e che, dopo l’eccitazione delle vittorie della squadra del cuore, passano gradatamente dal disorientamento all’angoscia, allo smarrimento e alla “disperazione della (o per la) meta”. Frantumata dal processo di proletarizzazione, che annulla uno ad uno i suoi privilegi e le sue paturnie, “questa Napoli di tutti noi”, non esce dalla propria inerzia politica e dalla propria passività culturale. Film dell’inappetenza esistenziale di un figliolo orfano del ceto medio, È stata la mano di Dio offre alcuni “quadri” tra i più toccanti della cinematografia partenopea di questo nuovo secolo. Non c’entra niente con i personaggi e la Napoli di Elena Ferrante, perché ha un’altra trattazione della luce e gestisce un’altra sottile tragicità. L’amica geniale tende al buio, Sorrentino ai colpi di sole. 

Nel genere appassinato, Napul’è purtroppo è elementare; questa sua vocazione alla scenografia dell’esistenza, alla occulta voce di Eduardo, gli ha dato un successo senza futuro, una celebrità senza Senato Accademico e un posto poco invidiabile tra la cavea della catastrofe e della politica. Ma ci sono ragioni per credere ad un piano più vasto e segreto, nel quale le concessioni al pathos sono un vizio innocente (bildungsroman), o un giustificato esperimento. In questo secondo caso, cui preferiamo dar credito, la soggettività artistica napoletana, collegata alla storia della sua stessa città, è pura veste allegorica; fedele al gusto di un occhio-da-presa, ha i requisiti per esistere, non quelli per vittimizzarsi. Ma ciò evidentemente basta allo spontaneo, istintivo disegno di Sorrentino di È stata la mano di Dio.

L’opera è varia; ci sono frammenti documentaristici, racconti intimi, raccolte di momenti lirici, una decina di fotografie storiche del viaggio interiore, memorie autobiografiche, scene esortative per lo scorrere della storia, discorsi di morale, riflessioni sociali, cenni sulla lingua, sul cibo, sull’amore e il sesso, ritratti e retrospettive, dialoghi con il mito, l’attualità imprendibile e la catastrofe del dopo terremoto. Tutte pietre (di basolato vesuviano) che lastricano la strada di un percorso di formazione, o di un’identità da realizzare: siamo tutti figli dello stesso desiderio, accompagnati dallo stesso progetto e dalla stessa nostalgia, abbiamo tutti un blues da piangere (come direbbero il Perigeo e Pino Daniele).

È quindi un piacevole viaggio e una sorpresa incamminarsi nella visione di questa sua autobiografia. Il film è una lettera aperta ai suoi compagni di viaggio e proprio da loro, Capuano in particolare, nasce il bisogno di raccontarsi senza veli, per riunire sotto il comune denominatore di una più intima identità, il ruolo della città e quello del proprio riconoscimento, il vissuto familiare e quello pubblico, entrambi non sempre facili da conciliare, soprattutto se provenienti da una classe sociale semplice.

Di tutte queste ansie e speranze resta tutto: in particolare della scena finale si conserva memoria dettagliata per il piacere dell’anamnesi; facendo rientrare questo lavoro di Paolo Sorrentino in una scrittura cinematografica non meno rilevante delle altre sue produzioni.

Ma c’è un passato di formazione che può riabilitare il bambino alla Bildung, alla prova di origine, una vicenda intima, che diremmo quasi ciclopica, se la sua misura non fosse l’ostinazione alla memoria della sorte, il calcio di Maradona e l’avventura di iniziazione allo spettacolo dell’Utopia o all’Utopia dello Spettacolo. Il progetto iniziale è semplice: ridurre il nostro innumerevole vissuto partenopeo al numerabile della propria ricostruzione. Quanto all’Antro della Sibilla il suo merito è enorme, perché offre una sicura cernita di luoghi e oggetti, da cui procedere per un inventario minuzioso e completo: si enumerano l’Uomo in più, la mano del fato, la grande malinconia, la tumultuosa città di sempre, la radiografia del diciassettenne, lo spettro della goffaggine, il destino della difficile storia di formazione, una famiglia piena di gioie semplici, disperazioni e contraddizioni, la leggenda dello sport che si trasforma in epopea di vita, la rinascita dell’orgoglio mitologico, l’incidente irreparabile, la difficile strada per il futuro.

Piacere e curiosità sono attrattive minori, di fronte alla metodicità del compito di sconfiggere la catastrofe; si deve quindi sorvolare, con i “tuff, tuff” delle onde del mare di Napoli, che accompagnano lo scafo per le notti brave, per superare le difficoltà “a dimenticare a memoria” gli amici destinati al carcere, quelli che tutti noi abbiamo vissuto, appositamente introdotti per distinguere, forse a fini speculativi, un genere letterario da una forma di vita.

L’interesse di questo lavoro sta nel disegno semplice e audace che lo regge. Ma è un progetto che scivola come una canzone di Roberto Murolo, come una glossa a margine delle parole di Fabrizia Ramondino, Raffaele La Capria, Anna Maria Ortese. E ripetutamente Sorrentino se ne appropria: il treno corre regolare, il finestrino (o filtro fotografico) è distante dalla vista del Munaciello, con un’inquadratura eccessivamente ristretta. Partenope è ormai lontana, la vivacità e la speranza mediterranea sempre prossima; e così, il protagonista, non dimentica la perdita che gli ha strappato gli affetti, così come non può dimenticare la musa ispiratrice (Patrizia): giardini, terrazze di banchetti spontanei, cupole, colonne, signore che azzannano una mozzarella di bufala, Nenella e San Gennaro. La strada dell’esperienza è sconfinata e incerta. Ma esiste un’altra via, un’altra voce per ridurre ad un numero infinito di occasioni, e sperare quindi in una nuova sollecitazione appropriata. Occorre invertire il procedimento, non percorrendo solo il proprio mondo, ma la lingua dell’Altro, precisamente quella di Antonio Capuano, che si fa presente, poiché in essa è necessariamente contenuta tutta la speranza e tutto il conflitto possibile. Questa voce ha il vantaggio di supporre non tanto un numero finito di autodeterminazioni, quanto un numero ridotto ed esauribile di spiriti che rincorrono il cinema stesso, “la città del cinema”!

Inizia la vera opera, che lo accompagnerà discretamente fino all’inizio di un nuovo giorno … fino all’inizio di una nuova sequenza, circolare, orizzontale, viziata dal ritorno a casa, che si staglia ancora sul golfo e ancora sull’immagine della Madre.

Ogni parola e ogni immagine è il primo anello di una catena … È stata la mano di Dio dice Alfredo (Renato Carpentieri): non ha perso la fede in un Napoli “indiscusso” e “finito”, che contiene la lingua della sorte e l’universo; ora ama solamente concentrarsi sui propri slanci di sognatore, sulle proprie arterie di tifoso! Non c’è altro che conduca alla salvezza più che il mito di Maradona, che diletti l’animo senza seppellire il sogno, né affaticarlo con gli affetti e le sue perdite. Né parola come di un’involontaria, dolce deriva.

“Questa fuga vertiginosa di luoghi e di scudetti, di “proletari e borghesi inorganici”, d’orizzonti alla Micco Spadaro, di secoli, nei quali il mio pensiero balena più fitto, la mia fantasia batte più rapidamente l’ali che nel “tuff-scafo” pieno di sigarette di contrabbando”. 

Né lo incantano meno gli affetti sorprendenti dell’ordine alfabetico: “sempre nuovi passaggi, contrasti inaspettati e strani fra vocaboli che si toccano, nuovi richiami di ricordi, nuove sorgenti di comicità, nuovi segreti e virtù e meraviglie, semplici, molto ingenui in Napul’è”. Con questo ritmo vanno aggiornati i conti: una piccola sequenza fotografica al giorno occuperebbe dieci anni di Bildungsroman. Ma ancora ci sarebbe quella fretta regolare e tensiva che trasforma una sceneggiatura drammatica in un piano sequenza autobiografico, per tutti noi che veniamo prima e dopo il Pibe de Oro! La tecnica è semplice, come è semplice una commedia di Eduardo! Per guadare l’attenzione di un pubblico semplice che qualche volta, oltre a sparare, spera ancora. Si fissa un criterio di scelta lessicale che possa facilmente essere condiviso con il maestro del cuore, con chi ti ha dato la possibilità di toccare Polvere di Napoli (Capuano 1998) e si prosegue poi in uno scoglio che scende sempre più giù This must be the place, verso Fellini, Scorsese, i Talking Heads e ancora Diego Armando Maradona. Occorre che un sentimento, un pensiero, un’intenzione, cioè una qualunque Voce di Dentro (regia televisiva dell’opera di Eduardo, 2 novembre 2014) selezioni i lemmi e li disponga in riga. Ne esce una curiosa malinconia che, per la sua evidenza, sembra avere un forte potere seduttivo, sugli ipocondriaci napoletani, sulle anime languide e sui maestri dello scetticismo che hanno guardato quel golfo prima di noi.

È, questo, il dono della maturità, il lascito più importante per una seconda nascita da regista, ormai immagine celebre e consapevole, all’esistenza adulta: farsi cioè conoscere come individuo, con la propria storia, con le gioie e le sofferenze che l’hanno segnato e con la vulnerabilità delle proprie scelte che, se dapprima sono state sottoposte al giudizio paterno, possono ora essere rivelate alla diversa luce della maturità e dell’esperienza. Un’occasione per la catarsi, insomma, perché comunicare e mostrarsi nella verità del cinema è, di per sé, amare Maradona senza riserve. Ed è questo amare senza riserve il linguaggio del film: quasi una chiave poetica, che non divide l’amore per il proprio luogo di nascita da quello delle avventure del cinema, vissute anch’esse come occasioni per dare e ricevere, in una somma finale che vuole esprimere il significato raggiunto dalla spontaneità dell’esistenza.

Le posizioni del cinema autobiografico, anche quelle più solide sotto il profilo teorico, hanno sempre considerato la nostalgia come un sentimento dubbio, da combattere. La Capria, al contrario, osa rivendicare pienamente la nostalgia. Dapprima, perché in un’epoca in cui la modernità di una città, della propria città, può essere percepita come un fattore d’interdizione, di norme, di riferimenti obbligati ed esclusivi (quindi di conformismo), il protagonista di Ferito a morte reclamava il diritto di non essere assolutamente moderno. In seguito, perché questa nostalgia è esattamente ciò che arriva a perturbare, a confondere l’ideologia; si potrebbe dire: la nostalgia, elemento di passaggio da una strategia sociale a una nuova strategia politica.

Il rimpianto, insomma, è ciò che permette a Sorrentino di passare da una posizione di ricordo rivoluzionario (la sostituzione della catastrofe dell’infanzia con l’utopia del cinema) a una posizione di resistenza. Il colpo di genio della popolarità di Napoli: aver saputo trasformare la malinconia in forza critica. Questo metodo lo ha confinato tra i registi sentimentali, ma per far giustizia del suo e del nostro sguardo, si è sempre trattato di volontà formativa, ossia di scarsa lontananza dalle proprie origini. Fabietto pensa, invece, al feroce destino che colpisce gli ignavi e, per non perdersi, a quelli che progettano la storia edificante della ricerca ossessiva e sfortunata di una sola immagine. La differenza di spessore si trova riassunta in poche battute del romanzo di Sorrentino, Hanno tutti ragione (Feltrinelli 2010). Il dubbio è reciso sul nascere, ma non lo lascia indenne, gli restituisce un vocabolario come album scenotecnico. Da questo sottile mutamento, si può pensare ad una conclusione: Napul’è!

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