Guy Debord, ... alle prese col niente filmico ..., no.copyright 1968

Effetto Duchamp (IV)

L’ironia diviene non solo il principio di una nuova forma di vita artistica, ma anche di un’inedita possibilità di pensare l’artista e il processo creativo. Un principio di unione, di conflitto, di resistenza, ma anche di desistenza e di speculazione vuota. I tratti ironici che lo assecondano sono le coordinate di quella anomala figura del contemporaneo, e della vera teoria politica dell’approccio artistico, che potrebbe denominarsi: risibilismo.

La radicale attualità di M. Duchamp si deve anche, ma non solo, all’ostinata determinazione con cui si occupa della libertà del fare e al denso rifiuto di “qualsiasi soggezione del complesso del rebus”. Più esattamente, infatti, saranno le due tesi principali a partire dalle quali argomenterò nelle pagine successive. Duchamp è un nostro contemporaneo, uno strano contemporaneo, conteso tra emozioni e ragione artistica, tra bello e brutto, serio e faceto, idea e oggetto di consumo, linearità e complessità, politicamente corretto e scorretto, trasparenza ed enigma, fare e non fare, funzionale e de/funzionale, nichilismo e magismo, popolare e elitario, celibe e ammogliato, in quanto doppio infinito. Questa scommessa politica sulla pratica dell’ironia – che altro non è se non una scommessa in favore del cloud potenzialmente critico – si applica così ambiguamente all’analisi del modus operandi delle iperplasticità contemporanee, a cui si può ricorrere ancora oggi, come test, contro o a favore delle mistificazioni o delle condanne delle teorie neo-liberali dell’arte moderna. 

Attraverso le parole di Guy Debord della Società dello spettacolo, si ha come l’impressione che l’elemento di continuità tra Duchamp e altri autori – come ad esempio Man Ray – non stia tanto nella pratica determinata della loro estetica, quella esplicitamente visuale, quanto in un dato implicito che emerge in modo indeterminato, che non è scritto e si trova tra le figure e le rivoluzioni plastiche. Alludo alla sensazione che si può avere fruendo politestualità, in cui il linguaggio cerca di esprimere concetti vuoti, o che perlomeno non sono storicamente e temporaneamente determinabili. Uno di questi problemi può essere riscontrato quando si parla di attributo duchampiano: esso è ciò che l’intelletto percepisce di una sostanza come costituente la sua essenza; ma al di sotto della categorica proposizione di Duchamp si nasconde una apparente ambiguità: 

“Il dadaismo e il surrealismo sono le due correnti che hanno segnato la fine dell’arte moderna. Essi sono contemporanei, benchè in maniera solo relativamente cosciente, dell’ultimo grande assalto del movimento rivoluzionario proletario; e la sconfitta di questo movimento, che li lasciava confinati al campo artistico stesso di cui avevano proclamato la caducità, è la ragione della loro immobilizzazione. Il dadaismo e il surrealismo sono nello stesso tempo storicamente legati e in opposizione. In questa opposizione che costituisce anche la parte più conseguente e più radicale dell’apporto rispettivo di ciascuno, si rivela l’insufficienza interna della loro critica, da entrambi sviluppata da un solo lato. Il dadaismo voleva sopprimere l’arte senza realizzarla. La posizione critica elaborata in seguito dai situazionisti ha mostrato che la soppressione e la realizzazione dell’arte sono gli aspetti inseparabili di un unico superamento dell’arte” (tesi 191, in cap. VIII: La negazione e il consumo nella cultura, ne La società dello spettacolo[1971], tr. it. P. Salvadori, Vallecchi Editore, Firenze, 1979, pp.144-5).

Questa ambiguità si risolve solo facendo riferimento all’orizzonte della strategia ironica: l’attributo è tanto infinito quanto la sostanza, ma di essa rappresenta una codificazione; essa permette alla facoltà satirica dell’artista di non essere pregiudicata dal proprio carattere relativo, e di poter tendere continuamente a un miglioramento strategico che non ha termine. Attraverso la citazione della Tesi 191 di Debord, possiamo verificare le differenze di interpretazione sostenute da due intellettuali situazionisti come Debord e Baudrillard. Nel testo sul Delitto perfetto(citato nella terza parte dell’Effetto Duchamp), vediamo che il sociologo di Reims, in area di critica virtuale (anni ‘90 del ‘900) indica l’Ingegnere del tempo perduto come custode della critica utopistica; mentre invece nel ‘68, la redazione definitiva della Società dello Spettacolo vede Duchamp, all’indomani della sua scomparsa, come uno dei protagonisti dell’insufficienza critica della tarda avanguardia.

L’intento di queste poche pagine è capire se, in questa relazione tra risibile e sostanza rivoluzionaria – quindi nel processo continuo di distanziamento delle illusioni immaginative – si possa rintracciare una teoria dell’aggressione, o piuttosto della non aggressione. Per fare ciò vorrei soffermarmi su una proposizione che risale ai Paralipomeni di Benjamin all’interno delle note all’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, proprio perché Guy Debord tratta il cinema alla stessa maniera in cui Duchamp ha trattato l’arte plastica, del ‘900, o l’arte futura: 

“Possiamo senza dubbio ammettere che i nuovi e svariati quesiti che il cinema pone alla comprensione della gente abbiano la loro parte in base alla domanda di tale bene. Se si tiene presente ciò, allora si stabilirà la concorrenza tra fotografia (cinema) e pittura come principio esplicativo anche per certi esperimenti dell’arte pittorica più recente, apparentemente piuttosto strani. Pensiamo a Marcel Duchamp. Duchamp è uno dei fenomeni più interessanti dell’avanguardia francese. La sua produzione è molto ridotta ma il suo influsso è tutt’altro che limitato. Duchamp non deve essere identificato con nessuna scuola. È stato vicino al Surrealismo, amico di Picasso, ma è sempre rimasto un solitario. La sua teoria dell’opera d’arte ([del valore dell’arte? Del testo non si distingue tra Kunstwerks e Kunstwerts]) che egli recentemente ha esemplificato (non illustrato) in una composizione “La Mariée mise a nu par ses Célibataires” sembra essere pressappoco questa: non appena un oggetto in genere viene considerato da noi un’opera d’arte, questo stesso oggetto in genere non può più assolutamente esercitare la propria funzione: l’uomo di oggi può provare molto di più questo specifico effetto dell’opera d’arte sia negli oggetti [in configurazioni casuali di rifiuti e detriti] … defunzionalizzati [degagierten?] (sottratti cioè al loro contesto funzionale[)] (in una palma da appartamento cui sono appesi tasti di pianoforte, in un cappello a cilindro perforato perforato in diversi punti) che nelle opere d’arte accreditate come tali. La realizzazione di oggetti surrealistici, nei quali al caso (alla ruggine dello Stasbalolagerun [?]) viene accordato un ampio spazio, è diventata per molti pittori di questo ambiente un’attività appassionante. È lecito considerarli fenomeni degenerativi. Anche in tale veste possono avere però un loro valore diagnostico.” (W. Benjamin, Apparati all’Opera d’Arte, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di F. Valagussa, Einaudi, Torino, 2011, p.78).

Benjamin afferma che la defunzionalizzazione e le configurazioni detritiche delle idee artistiche sono le stesse che l’ordine e la connessione delle cose indica implicitamente, come intendere la relazione tra pensiero risibile (dada-surrealista) e mondo all’interno di quel processo decostruttivo, che porta il semplice pensiero visivo a diventare ragione del ready-made. Questa identificazione posta da Walter Benjamin esprime qualcosa di assolutamente spontaneo, un dato immediato della coscienza artistica, quello della defunzionalizzazione che sul piano temporale contraddistingue il rapporto tra risibile, mentale e mondo. Il fatto che a ogni cosa corrisponda un’idea, non pone di per sé problemi sul piano della pratica artistica; mentre invece è proprio la particolare simultaneità di ironico e mentale – ovvero il fatto che gli ordini e le connessioni si identifichino nella loro scansione temporale – a essere un dato fortemente problematico sul piano politico. Questa, infatti, è la condizione dell’immaginazione, in quanto implica una confusione delle due dimensioni, quella delle cose che significano e delle opere che prendono valore. Come se di fronte ad un’immagine riflessa, non fossimo più in grado di distinguere l’originale. All’interno di questa condizione, ciò che è inaspettato e detritico nelle cose dell’opera, lo sarà anche nel pensiero, con le dovute conseguenze. Non è affatto un caso che il concetto di defunzionalizzazione è transitato, nell’ambito espositivo, tramite quello che Baudrillard ha chiamato Effetto Beaubourg e Thierry De Duve ha chiamato, in contrasto con il sociologo di Reims, La condizione Beaubourg:

“… inaugurato con una mostra retrospettiva dedicata a Marcel Duchamp. L’ideologia culturale … aveva effettivamente bisogno della malevadoria involontaria del maestro, ed è, ne sono sicuro, con una compiacenza molto tongue-in cheek che il maestro gliel’ha accordata” (vedi la sezione L’arte e le Istituzioni, in Il pubblico dell’arte, a cura di E. Mucci e P.L.Tazzi, Sansoni, Firenze, 1982, p.35).

Ma l’errore di De Duve è quello di usare troppa generosità nei confronti della sperimentazione di Duchamp, confermata anche da Piero Manzoni e da Marcel Broodthaers, quando dice che:

il “ready-made non doveva essere considerato né come un gesto liberatorio, né come un oggetto trasformato e neppure come un concetto analitico, ma come un enunciato sperimentale capace di designare le proprie condizioni di enunciazione” (ibidem, p.36).

Ma cos’è un enunciato sperimentale capace di designare le condizioni di enunciazione? Cosa sarebbe un sequenziatore di segni che formano un segmento del discorso, delimitato da alcuni punti fermi, o da due intervalli? Si riferisce sempre ad una situazione comunicativa reale e può essere più o meno un oggetto esplicito, o anche costruito da più di un oggetto? In effetti, se l’enunciato di tradizione letteraria è sinonimo di frase, quello visivo che cosa sarebbe? Sinonimo di che cosa? Dell’oggetto d’arte stessa? Enunciato della sua “ironia” di enunciazione? L’oggetto dell’enunciato (discorsuale?) o del simulacro si adorna sempre di un punto interrogativo. Il problema non è nuovo, esiste già per i primi collage ma, di generazione in generazione, tra i riferimenti alla teoria del discorso e alla clinica della defunzionalizzazione, resta ancora inafferrabile; oppure soltanto oggetto, magari affascinante, niente più di un’emozione o di una risata. Un richiamo classico. Non si guarisce il sintomo braccandolo. Il sintomo è una formazione sostitutiva di cui occorre rispettare la vivacità e la funzione. Germoglio dell’osservatore, sposta per la censura e per la rimozione una verità incongrua e cioè insopportabile per un dato fruitore. In fondo, è lo stesso De Duve che ci parla a Montecatini dell’Acting Out, ovvero della recita duchampiana: può un regime enunciativo scambiarsi con un Museo-Cenotafio?

Anche se in modo ancora molto generico, questo può dare un’indicazione su una possibile nozione di risibilità radicale in Duchamp: solo intendendola come rottura, come stacco, si può realizzare questa simultaneità e confusione. Tale condizione costituisce il principio spontaneo della enunciabilità risibile, che  nulla ha a che fare con un qualsivoglia parallelismo, in cui il mancato letterario garantisce già un’indipendenza dei livelli, una mathesis dell’impossibile, basata sul discernimento indice già di una maturità d’azione: un parallelismo con la comunicazione senza incontro, ma che vorrebbe essere già in sé incontro, a causa della struttura stessa del rapporto tra gli elementi differenti di ciascun attributo. Facendo riferimento a una frase che si trova nella prima parte della relazione sul processo creativo, possiamo dire che Marcel Duchamp, sin dai suoi primi scritti, insiste sulla necessità di formare un’opera desiderabile, affinché il maggior numero possibile di artisti possa acquisire un’identità altra dell’immagine dell’opera e del suo contesto, ovvero “dove viene vomitata”.

Negli anni ’70 del ‘900, nel cuore dell’epoca post-industriale e agli albori del liberalismo sinistrese (radicale ed anarchico), la sfida viene così lanciata: è possibile – e anzi necessario per la memoria duchampiana – pensare la sovranità concettuale in un rapporto di assoluta immanenza alla comunità artistica in progress, concepire l’effetto ready-made come subordinato al plasticismo illusionistico, immaginare la potestas (qui pro quo) come una funzione e un’espressione della potentia. L’illusione della libera concettualità non è più rivolta verso il volto rassicurante del dominio del figurale sul plastico e viceversa, come nel frontespizio dei cataloghi dell’arte povera, della land art o della conceptual art, perché non ha più bisogno di essere rappresentata per esistere. Non si tratta, per lo spettro di Duchamp, di rendere gloria a un nuovo Dio Mortale (la moltiplicazione e la riproduzione del sapere plastico su quello figurativo). Si tratta, piuttosto, di fondare la consistenza ontologica dell’illusione epistemologica del ready-made sociale (di ogni artista, quello singolo come quello collettivo), nella rete immanente delle relazioni estetiche che, per la politica installativa ed espositiva, si chiamano rapporti di forza: mantenere il diritto dell’illusione nella rappresentazione e nella costruzione dell’oggetto significa, per il campo post-duchampiano, mantenere integro un vero e proprio diritto di conflitto semantico fra retinici e a/retinici, fra infra/sottili e monumentali [massimalisti]. La preparazione artistica si trova sempre di fronte ad un bivio: camminare lungo la comoda ma fallace strada dei sensi e delle emozioni, che conduce all’opinione, o intraprendere la faticosa ma corretta strada della ragione, che porta alla verità. L’illusione del ready made diffuso è la nostra realtà! Perché del mondo là fuori vediamo il poco che i nostri occhi sono in grado di vedere e ci aggiungiamo quello che il cervello vuole farci credere, che sia più o meno artistico. Il risultato è una rappresentazione delle cose che non è reale per niente. Ma c’è una buona notizia: capire come e perché questo accada, permette di arrivare a rappresentazioni nuove, più ampie e versatili. Di fare cioè quello che un tempo avremmo definito “estensione dei confini dell’arte espansa”.

L’effetto Duchamp da anni si dedica al tema nel suo laboratorio artistico post-occidentale; ma, proprio perché è stato capace di espandere i confini del ready-made, oggi sperimenta anche l’ingegno del tempo perso. Denominando With my tongue in my cheek il proprio ritratto (1959, opera in 3 dimensioni, assemblaggio, gesso, matita su carta montata su legno, 25 x 15 x 5,1 cm; più o meno “con la mia lingua nella mia guancia”; Tongue-in-cheek, letteralmente “lingua nella guancia”, è un’espressione inglese che viene usata per riferirsi a uno stile umoristico in cui le cose sono dette seriamente solo a metà, o espresse con sottile ironia) ha dato modo di comprendere che l’opera è un posto dove si incrociano illusioni, ironie, buon senso e cattivo senso, memoria plastica e memoria figurativa, e dove i segni, senza una enunciazione definitiva, si traducono in espressioni disturbate.

Occuparsi di percezione visiva e di opera d’arte concettuale, significa studiare come ci facciamo un’idea del mondo dell’arte che ci circonda; ma se l’effetto Tongue-in-cheek, ci pone la domanda “vediamo la realtà accuratamente?”, la risposta non può che essere no. E nemmeno avrebbe senso farlo. Non ci riusciamo, perché la filtriamo attraverso occhi capaci di una lettura limitata delle cose: l’evoluzione ha selezionato organi della vista funzionali alla sopravvivenza del buon senso e dell’infra.sottile: questo è ciò che spiega l’EFFETTO DUCHAMP. E a questo scopo è probabilmente del tutto indifferente rendersi immediatamente conto che, in un cubo con la superficie fatta di quadratini a colori, un quadratino può essere avvertito come arancione o marrone a seconda dei colori degli altri quadratini intorno (stiamo parlando dell’illusione ottica). Il mondo del resto non è colorato, siamo noi che lo vediamo così e, per esempio, vediamo di un colore che chiamiamo verde la luce di una certa reiterazione rifratta dalla mia maglietta, in un certo ambiente. In realtà «per creare la nostra visione del mondo non usiamo solo gli occhi ma, al novanta per cento, il cervello: come dire che non siamo solo osservatori, ma anche creatori di significato. Chi si occupa di percezione parte da qui, ma non può non considerare di avere alle spalle secoli di discussione filosofica, da Platone in poi. La domanda “vediamo davvero la realtà?” è un antico dilemma. Oggi però le scienze che Duchamp, come animale storico, non conosceva, possono cominciare a dare una risposta, studiando gli organi di senso e come il cervello interpreta i segnali che questi gli mandano. La scienza ha evitato a lungo di chiedersi il perché avvengano le cose, concentrandosi sul come. Invece, credo che farlo sia necessario. E capire che la nostra percezione del mondo è fallace diventa l’inizio di una percezione diversa, anche di noi stessi, degli altri, dell’ambiente. Se siamo campioni di distorsione della realtà anche solo guardando un cubo di quadrati colorati che testimonia un lavoro minimalista, figuriamoci quanto possiamo sbagliare quando giudichiamo le azioni e le opere dell’Altro. Con questo voglio ricordare che non ci sono movimenti artistici chiusi, ma solo eventualità e inquietudini culturali che si avvalgono di un’informazione differenziata da cui i linguaggi, in un processo di continua trasformazione, vanno cercando una nuova identità culturale propria, sia per le carenze dello sviluppo economico, culturale o d’altra natura. Essendo molto debole, la loro azione è disarticolata e sfugge a qualsiasi controllo: in mancanza di una capacità critica, l’influenza di tendenze esterne sfocia nel saccheggio; la scarsa riserva ecologica, invece, tende a sparire nella generale decadenza dell’avanguardia, incapace di adottare dei criteri concreti dinanzi all’impossibilità di intendere un’arte sempre più remota e vuota. Credo che questo sia un problema che si ripete in molti giudizi critici. 

L’arte  di Marcel Duchamp, come “telepatia” e come “alchimia  forzata”, contrasta con l’arte intellettuale e con i mezzi necessari per poter conoscere e indagare la realtà immediata. Infatti, alcune considerazioni della neo-avanguardia, rispetto all’effetto Duchamp sono abbastanza approssimate. Si ricordi, ad esempio, Germano Celant su Casabella del 1970: 

“Duchamp ha fatto esplodere l’apparenza dell’arte e vi ha sostituito l’idea … ha esaltato l’energia del cervello. […] L’idea è diventato il vero precipitato della ricerca artistica … Un lavoro a scomparsa totale che ipotizza come medium ottimale la telepatia”.

A questo punto, per un contrappasso materialistico, che dovrebbe affascinare Celant, potrei dire che l’arte è una forma di miseria in più, a cui alcuni credono di poter sfuggire (qui mi riferisco all’autodefinizione di Duchamp dell’artista “come paria”, 1964). Oppure potrei parlare di un atteggiamento difensivo, che faciliti la formazione critica più che “acritica” (G. Celant, Per una critica acritica, in “Casabella”, 1969, 343, pp. 42-44, oppure in “Nac,” 1, ottobre 1970, pp. 29-30) e che riprenda un confronto con una incidenza sociale e consenta una espressione diretta attraverso la descrizione delle relazioni tra le persone. Per altri l’accettazione di un’arte mitica (medium ottimale di telepatia), e idolatrata fra concetti “acritici” sballati, è una mediocre risposta all’esigenza di una cultura di carattere neo-avanguardistico autonomo. L’assenza di nuove proposte coerenti rende possibili decisioni e approssimazioni plastiche frammentarie, che rappresentano il sentimento di autoemarginazione che ci schiaccia e ci getta fra i mediocri e gli indecisi. Non si può pensare a movimenti artistici concreti, che definiscano e significhino “azione, pensiero e comunicazione” e poi collegare poverismo e telepatia. E neppure si può pensare a zone concrete che in questi anni hanno visto il recupero “fittizio di telepatia” (Surrealista e Fluxus), insistendo su ripetizioni e illustrazioni dell’acritico, trovandosi ridotte in un sistema di diffusione dell’arte borghese.

La stanchezza della neo-avanguardia che interpreta male Duchamp, accresciuta dalle sue false tendenze di “mercato del segno e del senso”, forse con il tempo porterà qualcosa di costruttivo, cioè la tendenza a meditare e rivedere disposizioni che si danno in quanto tali. Forse leniremo la nostra inquietudine e potremo ri-pensare l’indefferenzialismo e il de-funzionalismo (ambiguo) di Duchamp per occuparci della terra con una migliore semina.