Sapremmo assai di più della complessità della vita se ci fossimo applicati a studiare con determinazione le sue contraddizioni, invece di perdere tanto tempo con le identità e le coerenze, le quali hanno il dovere di spiegarsi da sole.
José Saramago
Sapremmo assai di più della complessità della vita se ci fossimo applicati a studiare con determinazione le sue contraddizioni, invece di perdere tanto tempo con le identità e le coerenze, le quali hanno il dovere di spiegarsi da sole. José Saramago
Al nuovo duchampiano manca il tempo. E se ne vanta continuamente, mentre finge una ridicola autocommiserazione.
Tre semplici norme pratiche gli bastano per regolarsi con il tempo dell’arte contemporanea: gli altri vanno fatti fuori; le situazioni espositive bisogna risolverle subito e definitivamente; se qualche opera non va o si inceppa chiamare l’esperto.
Gli altri, le situazioni, le cose, gli oggetti sono tutti affari economici.
Ascoltare un po’ meglio l’opera dell’altro, pensare ad una diversa soluzione, occuparsi personalmente delle creazioni è così antieconomico!
Delegare e decidere, questo è l’enigma della nuova politica del ready-made. In una società che si ritiene adatta per convenire sulle sorti del ready-made, bisogna sottrarre il tempo dell’invenzione alla sua discrezione. Tutto deve essere fatto immediatamente. Il prendersi cura e il pazientare sono vizi da scacchisti concentrati.
La contemplazione è un abuso irritante dell’intervallo perso, un vivere alle spalle di chi davvero si dà da fare. Perché contemplare? Per capire qualcosa basta azionare la strategia pubblicitaria, bastano tre opere che ci portano in Biennale.
Telefonini pieni di agende, rubriche digitali strapiene di appuntamenti e di migliaia di numeri telefonici e indirizzi di Fiere ed Esposizioni importanti, che seguono freneticamente gli spostamenti dei proprietari.
Il nuovo duchampiano non può mai avere grandi aspirazioni epistemiche. I suoi slanci sono controllati, i suoi pensieri regolati dalla contabilità della Galleria, il suo futuro è … la data della prossima vernice. L’artista intellettualmente irriverente, dadaista, punk è finalisticamente dispotico e distopico. Crede che ogni cosa del regno dell’arte ha un fine, e che questo fine è indicato nella totalizzazione della cosa stessa. E crede che quanto più un intelletto isola l’enigma, il rebus, l’incomprensibile, il doppio, l’ironico, l’ambiguo, il pretestuoso, tanto più le sue oggettualità possono definirsi alte, profonde, e tanto più il suo oggetto può avvelenare e la sua azione è intesa ad un fine. Questo presupposto è anche la ragione della religione liberale dominante. E, dunque, anche il movente del processo creativo che mantiene in vita la divinizzazione dell’arte borghese.
L’artista intellettualmente-tecnico, ready-made, associa valore oscuro e procedimento dominante. Non pensa che l’arte possa anche non avere uno scopo, che all’arte possa anche mancare il mito, il divismo, l’esponibilità, la riproduzione. Stima che l’azione priva di enigma è degli artisti sui generis e addirittura banalmente democratici … Non riesce a capire che ci possono essere anche sensazioni comprensibili – prive di un linguaggio determinato. La rielaborazione di un pensiero di Alberto Savinio (da La Florida n. 2-3, Napoli 1946) è dedicata a coloro che pensano al dada come il dominio del teorico, il dominio del concettuale, come alla provocazione tout-court e al suo contrario, o al divertissement senza costrutto, ma anche alla concreta spiegazione, elaborazione e realizzazione del processo creativo. Il dominio di Marcel Duchamp si espande ancora oggi su tutta la piazza artistica contemporanea. Praticamente nessun artista visivo, dopo di lui, può imporre l’estetica totale del ready-made, fingendo l’azzeramento del terremoto dada, come se nulla fosse stato.
Duchamp rappresenta ancora oggi una lucida scommessa del sistema dell’arte contemporanea per riappropriarsi della realtà, eludendo le incertezze borghesi, le ambiguità di regime discorsivo, i caos semantici. Prima di lui l’arte produce da sé i propri oggetti di morte e di consumo, dichiarando la loro appartenenza al mondo in base a categorie estrinseche, alla loro sostanza creativa (il quadro in quanto quadro, la scultura in quanto forma plastica che usufruisce di materiali nobili,etc…). Semanticamente poi, l’oggetto artistico si definisce per la sua rispondenza a determinati canoni estetici e stilistici, poi arriva il “dilettante di Blainville” e sottrae tutto a tutti. Col suo sorrisetto enigmatico, con l’ombra del “suo stesso rebus” (nell’arte dei materiali), negando tutto e firmando tutto, si sottrae alla conoscenza e al senso ultimo, inscenando la più grande battaglia nella Storia dell’arte, per apparire come il solo senso e il solo scopo! Un solo che si sposta nell’isola a fianco della desolazione, un “separato” che si trasforma in «un»-“solo” della confusione, dell’enigma che «governa il caos» e dal transito si sposta, cognitivamente, da una assolutizzazione della liberazione catartica ad una assolutizzazione della nemesi libertaria!
Non c’è un uso buono o cattivo della libertà di pratica ready-made. C’è solo un uso sufficiente o insufficiente da parte del Capitale: basta questa affermazione delle Imprese Mediali, per comprendere il tono di questo vero e proprio Manifesto dell’EFFETTO DUCHAMP, dedicato all’uso smodato dell’essere artistico dadaista. Per tutta la mia generazione, Marcel Duchamp incarna quella leva potente, usata dalla neo-avanguardia, che viene dalle arti visive ironiche, satiriche e beffardi dell’ambiguità e dell’umore nero. Inizialmente lontana da compromessi, dai mercanteggiamenti, dai patteggiamenti che, fin troppo spesso, ci vengono imposti dalla realtà e dai suoi rapporti di forza, per poi divenire essa stessa, nelle mani del Privato/Artistico di “Punta della Dogana del Compromesso” e della Pubblicità Forzata!

Marcel era partito dall’idea di ricordarci il nostro dovere di ribellarci a un mondo che offre, ogni giorno, la sua dose di orrori, un nuovo volto della barbarie, per poi diventare il nuovo “vessillo della rozzezza”. Ecco perché ci è parso che nel momento in cui la curatorialità attraversa una vera crisi di fiducia, in cui ci interroghiamo sui limiti del suo “stato etico” d’espressione, l’AUTORE DEL PRIMO e dell’ULTIMO READY-MADE possa darci vantaggiosi lumi nella nostra lotta per una storia dell’arte, una storia della critica d’arte e un “farsi dell’opera mediale” più umane. Non un nuovo breviario, foss’anche quello di uno dei padri del medialismo, ma poche pagine di quella sua lingua di un assoluto marginalismo e criticismo, per ricordarci che non esiste una buona abitudine o un cattivo ready-made, ma soltanto un uso senza un “coefficiente comprensibile e sincero”.
Cosa dice, in effetti, Marcel Duchamp sulla libertà del ready-made? Che, se è stata e continua ad essere un’arma contro tutte le fonti di rivelazione dell’arma, essa è oggi minacciata dallo stesso spirito liberal che aveva presieduto alla sua nascita. Una constatazione che noi non condividiamo, anche se non si tratta, quantomeno nel nostro animo, di mettere su di un piano di uguaglianza i pericoli che gravano sul pluralismo politichese, anarchico e liberticida dell’uso del dadaismo e le violenze di cui sono vittima coloro che con delle curatele autonome si oppongono ai regimi della curatorialità e della critica autoritaria o dittatoriale, professate dal “funzionalismo istituzionalista dell’arte sociale crispoltiana” e dal funzionalismo minimalista gestito dall’architettonismo installativo dell’arte sociale dell’establishment.
Se, ovviamente, tutti gli attentati alla libertà del ready-made devono essere condannati, non è il caso di mettere sullo stesso piano la pratica artistica veramente concettuale con quella “banalmente commerciale”; insomma tutti quegli stadi della ricerca in cui essi sono soltanto l’eccezione e altri invece costituiscono il cuore stesso della sola strategia di potere. No, non tutti i ready-made si equivalgono. E bisognerebbe davvero ignorare la realtà di questo mondo caotico dell’arte, pieno di soprusi e di macchinazioni egoistiche, per azzardarsi a considerare alla stessa stregua sia le illazioni di un annunciatore, che le torture inflitte in una prigione di senso che, per lavorare la propria sintesi pubblicitaria, pretestuosamente hanno usato il doppio senso strategico ed enigmatico di Duchamp. Un atteggiamento che, sia detto di sfuggita, è tipico dei nostri vecchi retori della post-avanguardia, dove il vessillo della politicizzazione e dell’istituzionalizzazione è diventato uno sport nazionale per occupare posti di potere in Quadriennali, Biennali e Triennali …
Non credo che Marcel Duchamp sia oggi da ascrivere a quella categoria di rivoluzionari da salotto, che ci fanno mettere nello stesso sacco anarchia, liberalismo, dadaismo e pluralismo post-concettuale; ma non credo neanche che sia mai stato ascrivibile ad una dimensione fuori da questa stessa accozzaglia e da questi stessi equivoci. L’effetto Duchamp, per sua natura, va considerato come capostipite di ciò che ha rilevato Jean Baudrillard (Il delitto perfetto), a patto che lo stesso assassinio o suicidio dell’arte moderna non lo si consideri come un effetto terminale, ma come una strategia di corrosione della stessa sfera ironica: “Duchamp, Dada, i surrealisti e tutti coloro che si sono dati da fare per decostruire la rappresentazione e per far esplodere l’opera d’arte, fanno ancora parte di un’avanguardia e, in un modo o nell’altro, rientrano nell’ambito dell’utopia critica. In ogni caso, per noi moderni, l’arte ha smesso di essere un’illusione, è diventata un’idea, cessa di essere idolatrica per diventare critica e utopistica, anche e soprattutto quando demistifica il suo oggetto, o quando con Duchamp estetizza improvvisamente, col suo portabottiglie, tutto il campo della realtà quotidiana. Ciò è ancora vero per tutta una parte della pop art, con la sua visione lirica del pop-corn o del fumetto. La banalità diventa qui il criterio della salvezza estetica, il mezzo per esaltare la soggettività creatrice dell’artista. Annientare l’oggetto per marcare meglio lo spazio ideale dell’arte è la posizione ideale del soggetto” ( [1995], tr.it. di G. Piana, Cortina, Milano, 1996, p.83).
Il fatto che il Capitale artistico si preoccupi soltanto di ammassare denaro, e non di educare lettori e telespettatori, non deve stupire nessuno: è nell’ordine dell’industria culturale, di un mondo in cui anche il “sociologismo e il semiotismo” della merce culturale regna sovrana. Ma è raccapricciante che l’aretinismo (antipittorico) al potere di una ISTITUZIONE Pubblica reciti l’effetto Duchamp, sotto il plauso di una pletora di intellettuali sbruffonescamente di sinistra (ma molto sinistrati, plauditi e paludati nelle Università private ed elitarie che diffondono sapere confezionato contro le deboli istituzioni del “benismo culturale”), continuando ad imprigionare e a giustiziare tutti coloro che gli si oppongono, che lo contestano o semplicemente lo fuggono. E può soltanto turbare profondamente: non spiaccia a quei compagni di strada (del “potere istituzionale borghese”) che preferiscono occultare, sotto poteri sbiaditi di brillanti simulazioni, la triste realtà del regime dada imposto dal Gestore Massimo dell’Ambiguità. Ognuno ha le cecità che merita ed ognuno si destreggia con la strategia opportunistica che meglio sopporta.
Mettere Hans Haacke in esergo ad un conflitto tra Baudrillard e Bourdieu, come fanno gli epigoni del “sociale socialistico ammuffito”, non è mai cosa innocente. In materia di libertà d’espressione, è proprio il modo migliore per annunciare che si sta firmando una strategia esplosiva, per quanti sono, anche tra i più liberali, i divieti, le censure cui non si rinuncia tanto facilmente. In nome delle buone opere contro le cattive opere, o delle idee giuste contro le cosiddette cattive idee, ciascuno mette avanti i «suoi blocchi», le sue discriminazioni. Discorsi razzisti, xenofobi, antisemiti revisionisti: è lungo l’elenco di ciò che andrebbe sradicato, se crediamo alla partigianeria della radicalità di Bourdieu o di Baudrillard. Nessuna idea è totalmente inaccettabile, nemmeno la più aberrante idea che sta sotto ad un lavoro espressivo con finalità esclusivamente commerciali: ci sono cose, direbbe Marcel Duchamp, riletto da Claudio Cintoli, con cui non si scherza abbastanza.
Questa difesa di un approccio liberale alla strategia ideale di implementazione dell’opera d’arte (il nostro humor noir preferirebbe sicuramente parlare di approccio libertario), non è cosa da poco, con i tempi che corrono. Non avallarne i punti di vista più contestabili, più abbietti, ma difendere il loro diritto a esprimersi, senza che il loro autore finisca in preda alla ridicolaggine e del “perbenismo pettegolo” di una “sinistra violenta e mussoliniana”, non è cosa che vada da sé. Non mancano mai le anime malvagie, sempre pronte a ricordarci che è il caso di stare con questo potere proprio al posto che con quell’altro; così come non mancano artisti e critici, che ci ammoniscono che non si può dire tutto, o scrivere tutto. Il caos artistico odierno, sotto “l’effetto duchamp”, è pieno di artisti-intellettuali benpensanti con petti ricoperti di onorificenze, tremolio nella voce e voli pindarici a portata di mano. Dimentichi del fatto che il gossip pungola la trasgressione, quanto la critica istituzionale solletica l’esercizio Accademico: quella trasgressione scandalosa, doppiezza delle nostre società che preferiscono promulgare titoli di studio contro l’ottusità e l’ignominia, anziché dotarsi dei mezzi per cambiare realmente il meritocraticismo industriale. Infatti, come dicono da un lato Pierre Bourdieu e Jean Baudrillard dall’altro, pur mantenendo la dovuta distanza e polemica, quelle che devono essere condannate non sono le idee, ma le vie di fatto dell’arte, della pratica artistica.
Tuttavia, se vogliamo rintracciare le matrici storiche del collasso liberale, se si vuole individuare, cioè, il momento in cui per la prima volta le modalità del fare artistico anarchico siano state inquadrate in un dichiarato programma di ricostruzione dei valori estetici borghesi e di quelli più generali della società liquida, è necessario risalire alle repliche dei movimenti post-dada odierni, per segnare l’origine ed il fulcro del gesto conformistico. Esso viene preso ad emblema e simbolo qualificante di una conformazione e di una omologazione, che l’artista contemporaneo compie all’interno della sfera puramente estetica, con l’intento di pianificare una presa diretta con la simulazione della performance e con il rigetto del sociale. Si può anche individuare un preciso meme che verifica, a livello dei procedimenti estetici e di ricostruzione dello spettacolo, il programma elaborato a livello della poetica diffusa. Ci riferiamo al meme/packaging ripreso e criticato dalle “imprese mediali”, cioè a quella struttura formale che abbina l’universo-mondo tra gli universi-mondi, presupposto tanto dai post-stilisti, quanto dai post-truppisti. Il messaggio che questa struttura veicola appare “contorto”, non in virtù di un rinnovamento dei contenuti (meme sempre insidioso), ma in quanto attuazione di una strategia che sovverte i modi della produzione memetica, codificati dalla memoria relativa al momento catastrofico considerato.
Il pre/meme/packaging è, infatti, una struttura tipica al di là dell’arte stessa e della sua storia, di molte produzioni artistiche, in spirito conformista e novo-accademico, anche memeporaneo, e si configura come dispositivo capace di bloccare, attraverso un sistema di statistica attuariale, fenomeni di arte favolosamente impegnata e di meme-realtà affabulatoria.
È ovvio, dunque, che non vi sia possibilità di fornire un iconico manuale del divismo relazionistico del meme(re)-made; ma è meno ovvio ipotizzare che la casualità degli universi liquidi, dei giochi del vuoto nel vuoto, del riproducibile nel riproducibile, che il meme(re)-made attua, sottenda comunque una tramatura-tranello, da una parte pone obbligazioni precise a questo gioco, come strategia formale del reggi-moccolo dell’avanguardia; dall’altra, specifica quali configurazioni di ambiguità e di tramatura, quale struttura formale può produrre e quale no. D’altra parte, questi moduli non costituiscono affatto un limite alla possibilità di generare configurazioni sempre diverse (perché la strategia fuffica riesca), né alla capacità degli illusionisti di produrre divismo mediante nuovi accostamenti conformistici. Dal punto di vista attualistico, anzi estremamente attuale, meme(re)-made compare come procedimento esplicito del neo-humour noir e, sulla scorta e nello stesso spirito, di vari esponenti di quel magmatico neo-liberismo, a cavallo tra la fine del XX sec. e l’inizio del XXI, che si definisce come «memesque» (nuovo burlesque). Gli intenti di questa modalità di produzione memetica erano e sono dichiarati, a livello di opportunismo, come una pianificazione totale ed apocalittica della tradizione alienante ed insieme dei valori liberali, codificati, sotto le spoglie dell’Ideologia Progressista.