Marcel Duchamp, The Creative act da Art News n. 4 1957

Moderno, Volontarismo e s/confine: tra Menna e Beke

Questa è la seconda parte del testo del 1985, sui temi del moderno/postmoderno dibattuti durante gli incontri promossi da Città senza confine e dalla rivista Città & Città, che furono momenti di riflessione sulle “arti cosiddette analogiche e riproducibili”. In altre parole, un qualcosa del secolo scorso, che aveva conosciuto la sua epoca d’oro nello sviluppo del pensiero di László Beke che, successivamente, fu dimenticato, denigrato, svalutato dalla finta informazione documentaria e dalla storiografia banale, che negli ultimi tempi è tornata commettendo gli stessi errori di allora. Per tale motivo, questa uscita sceglie di focalizzare l’attenzione – ponendo a confronto l’eredità di Menna e Beke – sulle proposte di pensiero autonomo, indipendente, volontaristico e post-metropolitano, rispetto all’esclusivismo post-moderno.

(seconda parte) (cr.:Archivi Città & Città, Napoli, 1985)

2. L’autocritica dell’arte e della ragione artistica può avvenire solo riflettendo sul mondo e sui suoi mali reali, storici, come sono stati prodotti dall’umano. Non solo una riflessione di natura critica, ma uno studio curatoriale nell’ambito delle molteplici discipline e delle varie pratiche, che muova dall’interesse del miglioramento. D’altra parte, è possibile acuire la contraddizione fra la realtà esistente e l’ideologia: da una parte, l’azione critica che valuta testo, pretesto e contesto, alla luce di quelle idee in cui la società stessa vede i suoi più alti valori, dall’altra, vede in queste idee i difetti della realtà artistica e del riduzionismo di parte o curatoriale.

Tipica della teoria critica, è l’idea che al linguaggio operativo delle arti vada restituita la possibilità di esprimere le passioni, la sofferenza e le esigenze degli artisti, sottraendolo all’uso alienato dei mass-media e degli interessi di grossi gruppi economici. La critica e l’arte adempiono a questa esigenza realistica ed extramimetica dell’espressione, che tramite i linguaggi viene portata all’esperienza e alla memoria. Questa direzione della critica e della semiotica va in senso divergente rispetto a quella della crescente formalizzazione, tipica delle correnti positivistiche, e a quella dei sistemi oggettivi della ragione strumentale, propri delle critiche idealistiche. Nella “pratica critica” gioca un ruolo di primo piano il concetto di volontarismo, destinato ad assumere tutto il suo peso nelle ricerche di Beke. Da un lato c’è il volontarismo critico delle pretese attaccate all’assoluto dell’ideologia dominante, e dall’altro le pretese eccessive della realtà. Mentre la posizione del volontarismo usa la negazione in modo formalistico e astratto, la critica d’arte prende sul serio i valori artistici esistenti, ma tenta di confrontarli in una totalità teoretica in cui si mostri la loro relatività. Alla base della «critica volontaristica», c’è la denuncia intransigente di tutto ciò che mutila l’artista e la sua letteratura critica e, quindi, ne impedisce la piena realizzazione. È chiaro che per essa, come ricorda Menna citando il Beke di Montecatini (e a sua volta Beke cita Marcuse), l’utopia rappresenta un’idea positiva, una meta (una metà) regolativa del procedere della ragione. Oggi l’utopia è impedita dall’enorme sproporzione tra il peso dei meccanismi di potere del sistema dell’arte e quello delle masse atomizzate, da cui derivano tutti gli altri mali sociali. Il compito che la critica si assegna è quello di portare alla luce tutti i fattori di impotenza sociale e di oscuramento della ragione attraverso la pratica artistica non amministrata. Solo così è possibile tenere testa alla catastrofe semantica e superare le nuove forme di deragliamento e di cieco affidamento all’ideologia tecnicistica, che ancora una volta serve a veicolare il dominio.

Parlerò, dunque, di László Beke, autore di saggi, di due opere di Storia dell’Arte, e di interventi teorici all’interno di Convegni, in giro per l’Europa (a cui ho partecipato): uno molto importante raccolto negli atti di Critica 0 del ’78, poi commentato da Menna e trasformato in un paradigma di nuovo riferimento per Città senza confine. La critica, per fare un esempio riguardo a questa riunione dei Piccoli Racconti, poi ripreso in Città & Città, è il multiplo di scrittura riflessiva e opera d’arte, un’assemblea di esperienze riunite oggi per parlare di scrittura critica, in altre parole di “volontà di sapere” (M. Foucault). E questo in una dimensione speciale, nel senso che siamo qui nel contesto della Palestra di Pomigliano D’Arco, insieme agli artisti, i critici e gli intellettuali invitati ai Piccolo Racconti, ossia in un luogo molto concentrato, tanto illuminato, con l’aggiunta di una dimensione che è stata già introdotta da Menna, cioè la “critica volontaristica”, quella che tende ad un discorso utopico, cosa che non esclude assolutamente che io stesso possa evidenziare un certo numero di opere e di concetti, idee che mi stanno molto a cuore, anche in virtù degli scritti di Menna come il libro su Critica della Critica (Feltrinelli, Milano, 1980). E poi ci sono altri che vorrei mettere in risalto, gli intellettuali che portano qualche novità nel mondo del pensiero critico. Perché Laszlo Beke? Perché ho dialogato con lui a Montecatini nel 1978! Perché ho approfondito il concetto di «travisamento necessario», che proviene dalla cerchia di G. Lukacs e soprattutto Leo Popper. È un intellettuale molto singolare, che nel pensiero sulla critica fa epoca. S’interessa alla critica attraverso la pratica curatoriale e per lui l’ontologia è la scrittura critica dell’arte e che fa arte. La fenomenologia è la logica dell’opera d’arte. Per esempio, utilizza un certo numero di riferimenti semiologici, che coincidono con l’importanza che gli attribuisce Filiberto Menna nei nostri Piccoli Racconti. Come dice Beke – sconfessando anche il resistente weberismo di Menna – “la critica, come l’arte stessa, non è affatto una occupazione pura e semplice, ma piuttosto una specie di vocazione, perciò un modo di autorealizzazione, come tale, va incontro ai cambiamenti della propria funzione nello stesso modo che l’arte va incontro ai propri” (Beke,Verso una critica volontaristica, p.245, in Teoria e Pratiche della critica d’arte, Montecatini 1978, a cura di Mucci e Tazzi, Feltrinelli Milano  1979). Beke, in risposta ai dogmatismi arbitrari espressi da Bruno Munari, contro la libertà della critica, afferma che: “Nel caso ottimale il critico deve mirare ad una rifondazione continua della critica …” (ibidem, p. 245). Beke coscientemente dice, alla fine degli anni ’70, in un clima di politicizzazione generalizzata, che il critico, pur esordendo come storico dell’arte, cambia attraverso il “ruolo di manager”, affermando quello di “critico-artista” (ibidem, p.246). Beke ricorda che utilizzare H. Sedlmayr e l’iconologia di Panofsky significa – contro il funzionalismo reazionario di Bruno Munari- spingere verso “l’analisi dell’arte direttamente incentrata sul prodotto ed “esatta””(ibidem, p.246). Beke rivendica la tradizione del processo “autointerpretativo”, “metalinguistico” e “autoriflessivo” della conceptual art, “che ha esercitato la maggiore influenza su di noi”. Il concettualismo espanso, che viene fuori da questa posizione, è un valido strumento euristico, che ha però il torto di pretendere l’assolutezza unilaterale: la totalità si rende perspicua soltanto se indagata mediante l’interazione (interno/esterno del sistema e dal sistema) e la complementarietà dei principi conoscitivi, che descrivono e comprendono una reciprocità senza fine (senza confine),mentre la complessa unità delle cose e delle pratiche inesorabilmente si sottrae al parzialismo munariano (qui mi riferisco alla visione ristretta che Munari esprime nelle pagg. 81-85. de La critica d’arte e le istruzioni per l’uso, in Artista e Designer, Laterza, Bari 1971), se tentiamo di raggiungere la complessità della ragione critica, istituendo un legame politico di causa ed effetto, teoria e prassi. Nella teorizzazione del volontarismo artistico, Beke scavalca Eco (di Opera Aperta) dicendo che la pratica critica, rispetto alla dimensione funzionale semiologica, può proporre una “visione nuova aggiunta ad un effetto liberatorio dovuto alla chiarificazione teoretica del problema. C’è una sola possibile interpretazione esatta, un accordo con l’intenzione dell’artista e/o con le circostanze della creazione” […] provare che con un’opera d’arte il suo “messaggio” deve necessariamente cambiare nel corso di ogni interpretazione concettuale – verbale, ed è esattamente questo messaggio distorto che l’interprete deve utilizzare per i propri scopi” (Beke,idem, p.247).

Numerosi appaiono i temi più significativi che permettono di accomunare retrospettivamente il lavoro di Menna a quello di Beke, considerati quali fautori di una svolta epistemologica che, dall’ambito dei Piccoli Racconti di Città senza confine, si estende ad un più vasto dominio critico: a) l’intendere come conferimento di senso il “travisamento necessario”; b) la nozione di The Creative Act (riferita alla conferenza di M. Duchamp); c) il carattere controfattuale dell’atto creativo, tra facitore e spettatore; d) la considerazione di quell’area dell’opera che rimane fuori dalla diretta considerazione dell’artista; e) la relativa importanza del messaggio latente e la considerazione dei fattori, proposti da Marcuse, di verità, bellezza, emozione, comprensione, sensibilità e razionalità; f) la disponibilità della critica migliore a non parlare più dell’opera d’arte; g) ogni opera d’arte ci appartiene per un breve periodo, poi si dà alla storia; h) una critica che possa suggerire il travisamento radicale; i) ding an sich, aprirsi verso l’infinito, raggiungere il punto zero dell’arte; l) permettere alla tela bianca il campo più vasto; m) provocare la telepatia tra artista e fruitore; n) volontarismo a pari livello delle opere d’arte e degli oggetti comuni, delle cose; o) azionare la rivelazione come processo utopico che superi interpretazione e arte stessa (sempre Beke Montecatini, op.cit. pp. 245-251).

3. Tentare di costruire una critica libera e sconfinante, una critica che parta da una Situazione ’85, adesso che abbiamo decretato, insieme a Luca la chiusura dell’edizione napoletana di Città & Città, significa necessariamente imbattersi nel pensiero di Filiberto Menna, dal momento che, in un certo senso, il critico d’arte ha già fatto questo tentativo, e ci si può anche domandare se non sia anche riuscito. La sua “critica in atto” ha in effetti due caratteristiche che non possono lasciare indifferenti. La prima è che costituisce l’analisi dell’espressione artistica come critica prima. L’obiettivo dichiarato di Menna è quello di operare uno “spostamento della critica della coscienza critica”, che occupa nella tradizione Occidentale una posizione dominante, a una critica «tra e dentro l’opera e tra e dentro la testualità». Ecco perché il mio oggetto preferito, nel campo della «sconfinatura, della paralogia, del deragliamento», è non soltanto spiazzante, ma centrale per l’impresa di uno statuto e di un contro-statuto di una certa critica d’arte. La seconda è che questo primo spostamento ne comporta un altro: un’uscita da qualsiasi ortodossia ideologica, che è una delle fonti di origine del pensiero critico di Menna, ma un’uscita che non è tanto un “abbandono quanto una ricostruzione”. E la ricostruzione, che punta a conservare l’aspetto liberatorio del progetto di azione sconfinante o di quadro critico, è effettuata mediante il passaggio dal paradigma delle avanguardie a quello della memoria strutturalista. Il mio oggetto preferito è, dunque, non solo legittimo e centrale, ma anche già trattato ab ovo, nelle possibilità che lui stesso offre rimanendo sconfinabile!

L’opera di Menna è outsider, come dice Laszlo Beke, e copre i campi della “critica del testo” e della “critica dello statuto della critica”, delle “scienze sociali affini”, della “critica della politica dell’arte” e della “critica del diritto dell’arte contemporanea”; ma la sua tesi centrale, mai abbandonata, e lungamente difesa nel suo opus magnum, può essere enunciata in poche parole: la struttura stessa della critica, in quanto interlocuzione continua del suo statuto, presuppone l’intesa sulle condizioni stesse della struttura critica, come scrittura sociale. La critica allora comincerà con l’analisi dell’interlocuzione, che assumerà la forma di una “pragmatica generalizzata del testo”, cioè di una pragmatica che permetta di pensare la socialità del testo, mentre la pragmatica si accontenta di pensare l’attività espressiva dell’artista. È evidente l’ampiezza dello spostamento in relazione al criticismo tradizionale: il sociale, il comunicativo, è tendenzialmente pensato nel modo della cooperazione oggettuale, e non della teoria e del design fine a se stesso. Si tratta di occasioni critiche volontarie, legate ad un lavoro critico militante, che rivela tuttavia una costante teorica fondata su un’interpretazione dell’arte come pratica linguistica specifica, relativamente autonoma, che trova dentro il linguaggio tutte le connessioni determinanti con il contesto sociale. Il lavoro semiologico mostra nello stesso tempo una costante ideologica, in quanto individua nel lavoro artistico e in quello critico due momenti irrinunciabili dei processi di trasformazione del reale. Provare a tratteggiare il modo in cui è stato definito il consumo della città in quanto pratica quotidiana, attraverso cui la cultura viene interpretata e quindi prodotta, e con cui i suoi significati circolano e si trasformano, implica non tanto rintracciare i confini di un’area di ricerca, quanto ripercorrere la costruzione di un oggetto d’indagine peculiare. Il consumo così inteso è infatti un modo di fare, un insieme di operazioni su cui si sono esercitate più discipline e prospettive critiche, dalla sociologia dei consumi e dei processi culturali (da Thorstein Veblen a Pierre Bourdieu, fino alle ipotesi radicali di Jean Baudrillard), passando attraverso l’antropologia del quotidiano elaborata da Michel de Certeau, per giungere alle analisi sul piacere derivante dal consumo dei prodotti culturali più disparati, dagli spazi urbani ai centri commerciali al walkman, e sul legame che esso intrattiene, nell’ambito degli odierni processi di globalizzazione, con la formazione di identità locali. In realtà, già Marx in Das Kapital (1867-1895) rilevava le interconnessioni che legano la produzione delle merci al loro consumo, ma è noto come la sua attenzione si concentrasse sull’alienazione insita nella strutturazione della produzione, e non di ciò che viene prodotto, tanto meno del modo in cui viene usato. L’oggetto e la serie. Tra antropologia e semiotico è un paragrafo di Critica della Critica, che affida un ruolo molto importante all’analisi dell’ideologia tecnologica: “Baudrillard, in questa fase, propone quindi un netto privilegiamento del livello tecnologico del sistema, fin quasi a considerarlo originariamente coerente, luogo di produzione del senso, al di qua delle contraddizioni esistenti a livello delle pratiche e retroagenti sul primo … […] spostare l’analisi dal piano puramente strutturalistico al piano ideologico” (Menna, Critica della critica, Feltrinelli, Milano, 1980, p.66).

Per Baudrillard, il capitalismo era da buttare, anzi si “sarebbe buttato da solo” a causa delle diseconomie, soprattutto sociologiche (povertà, anomia, eccetera). Ma leggiamolo a senso: “Come la società del medioevo si accettava in equilibrio su Dio e sul diavolo, così la nostra si regge sull’usura e sulla contestazione. Ancora attorno al maligno potevano organizzarsi scismi e sette di arti occulte. La nostra negromanzia è invece candida: nessuna miscredenza è possibile nel benessere… Aspetteremo [perciò] le incursioni brutali e le frantumazioni improvvise che, in maniera tanto inimmaginabile, ma sicure, quanto il maggio del 1968, spediranno in stritoli questa messa bianca”. In realtà, poi, i “blitz crudeli” si sono trasformati, per i sessantottini, in assunzioni prestigiose. Ma questa è un’altra storia…

In primis, Baudrillard, con il suo approccio, come dire, “macchinale”, che si scopre leggendo La società dei consumi, non si è mai stancato di ripetere che la società in generale è una “strumento”, che attraverso i suoi simboli, dipendenti da precisi rapporti di produzione, o comunque strutturali, fagocita gli uomini, trasformandoli in fantocci che obbediscono a idoli, a “rappresentazioni di rappresentazioni”…

Questo campo semiotico ha almeno un punto in comune con lo strutturalismo rivisitato: fondando la socialità del testo sull’interlocuzione, tra perimetri e confini della pratica artistica e della pratica della città, evita il narcisismo metodologico del post-moderno, insistendo sul fatto che il linguaggio dell’opera, ovvero la letteratura critica, non può essere pensata né come un’attività di interazione tra gli artisti, né come una facoltà individuale. Siamo già lontani da Enrico Crispolti e dal suo “rudimentale teatrino dell’arte come partecipazione sociale”. Fondare una critica della critica su una pragmatica vuol dire operare un doppio spostamento in direzione della nozione analitica: con queste opposizioni, contro il pareggiamento di arte e critica, proposto soprattutto nell’area culturale francese, Menna riconosce uno spazio proprio dell’interpretazione attraverso una definizione del suo statuto teorico e del suo funzionamento linguistico. Ciò che viene chiesto alla critica è un’atto di autoriflessione, di porsi cioè come critica della critica. Che cosa fa di una data opera un’opera critica? L’ipotesi proposta da Menna è che la critica si identifichi con una sorta di organismo vuoto, relativamente costante, riconducibile a tre momenti o funzioni: una funzione storica, una funzione teorica e una critica in senso proprio (o giudizio). Questi tre momenti assumono aspetti diversi nei diversi contesti storici, ma sono in ogni caso compresenti ed è la loro interazione che fa di un atto interpretativo un fatto critico.

4. Occhi nuovi per vedere dentro e vedere oltre. E braccia per accogliere la nuova critica, e dunque anche l’arte degli altri con fiducia e progettualità. Altrimenti si rischia di stringere il nulla. Poi non chiudersi in amarezza, lamentele, rigidità (che sono una perversione). E non pensare alla consacrazione in termini di risultati, di traguardi, di successo. Sono diverse le raccomandazioni delle Figure Critiche di Menna al dialogo e ai dialoganti della critica nel giorno del «Convegno di Città senza confine». Innanzitutto restare progettuali ogni giorno, alimentando la fiamma della speranza, che l’arte ha accesso nelle espressioni di ognuno. Quindi fare attenzione al tarlo del narcisismo o la smania del protagonismo, che possono nascondersi anche dietro l’apparenza di buoni progetti, come pure al rischio della ripetizione meccanica: fare letteratura critica per abitudine, tanto per farla. L’invito di Menna è, invece, di rinnovare lo sguardo, a partire dal criterio con cui i prodromi del moderno ci guardano. In tal modo, si sciolgono le durezze del nostro sguardo critico, si risanano i desideri volontaristici, di cui parla Beke, e si possono vedere occhi nuovi per realizzare la nostra artisticità e il mondo dell’arte, dunque anche le situazioni più sistemiche. Non si tratta di uno sguardo ingenuo, che fugge la realtà o fugge di non vedere i problemi – ha fatto notare Menna partecipando alla discussione di Pomigliano D’Arco -, ma di occhi che non si fermano alle apparenze e sanno entrare anche nelle crepe della fragilità postmoderna e dei fallimenti della catastrofe strutturalista, per scorgervi la presenza del volontarismo disegnato da Beke:

”Più radicale, e tutto sommato più interessante, la posizione assunta da László Beke nel Convegno di Montecatini: muovendo dal concetto di “travisamento necessario” di ogni messaggio artistico all’impatto con il fruitore, il critico ungherese suggeriva l’ipotesi dell’avvento non lontano in cui “le differenze tra fenomeni artistici e non artistici devono essere di fatto eliminate”. Si verificherebbe, cioè, un pareggiamento tra arte e non arte e, di conseguenza, non ci sarebbe più “alcuno spazio per parlare di interpretazione e di arte stessa. Questo stadio, che Beke definisce “utopico”, richiama in qualche modo l’utopia estetica delle avanguardie che predicava la trasformazione dell’arte in estetica diffusa. Con una differenza significativa,però, in quanto l’ipotesi di Beke prende atto dello slittamento, e del cambiamento di segno, che ha subito il processo di estetizzazione vagheggiato dalle avanguardie all’incontro con la moderna società e cultura di massa” (F. Menna, Figure Critiche, Città senza confine e in antologia dei Piccoli Racconti, Image Team, Napoli, 1984, pp. 41-42).

Ecco perché il lavoro di Beke a Montecatini ha esortato a evitare atteggiamenti esclusivi, ed anzi si è basato sulla riscoperta del “travisamento necessario” di Leo Popper, l’esteta ungherese prematuramente scomparso, e indebitamente ignorato, all’alba del XX secolo. A Montecatini, Beke ricorda che la teoria di Popper “potrebbe essere considerata come un ulteriore sviluppo della teoria del Kunstwollen di Alois Riegl. Come scriveva il giovane Lukacs nel 1911: “Secondo Popper la forma nasce dal fatto che qualsiasi materiale viene falsato da qualsiasi mezzo di espressione; è la nostra miseria e limitatezza che porta la redenzione” (Filozofiai Szemle, 2, 1972, p. 251). La discrepanza fra wollen e konnen assume perciò un carattere decisamente positivo” (Beke, Montecatini, op.cit., p. 247). In tedesco i verbi modali sono können, dürfen, wollen, müssen, sollen. Wollen corrisponde al nostro modale ‘volere’ e si usa per indicare: volontà decisa. Per können si intende molto semplicemente l’essere in grado di fare qualcosa, al momento o in generale. In sostanza il kunstwollen è l’impulso artistico, che orienta l’insieme della produzione artistica delle differenti epoche storiche e il kunstkonnen è l’affermazione di conoscenza, l’atto del fare artistico e critico. Nel testo con cui si apre L’anima e le forme di Lukacs, il primo problema che viene discusso è quello della critica d’arte, la scrittura considerata in stretta relazione con l’opera artistica. Per il giovane Lukacs questo rapporto si configura in maniera estremamente complessa: la critica, infatti, si avvicina sensibilmente all’atto artistico stesso, ma non può essere confusa con esso. Se per un verso la critica aspira, infatti, a rendere sensibile la trasparenza delle immagini che compongono l’opera stessa, a scoprire il significato di queste immagini e a fissare la concezione del mondo implicita nella forma, essa è per altro verso qualcosa di diametralmente opposto ad un semplice calco dell’opera d’arte. Essa costruisce, piuttosto, una sorta di dialogo esistenziale tra l’opera data ed il punto di vista del critico, che viene assimilato da Lukacs al tipo platonico, ovvero ad una configurazione che si trova all’opposto della figura aristotelica tracciata da Deleuze o dalle derive dell’economia libidinale di Jean Francois Lyotard: ossia a colui che è demandato il compito di scoprire l’idea che si cela nell’immagine artistica o, più esattamente, colui la cui reminiscenza ideale viene espressa dall’immagine artistica. Lukacs si mostra meno interessato alla riproduzione oggettiva del significato dell’opera, che alla maniera in cui la sua interiorizzazione nella coscienza del critico si lega alla personalità di quest’ultimo. Il paradosso sotteso al modo d’essere del “saggio critico” è simile a quello del ritratto in pittura: offre una rassomiglianza, senza peraltro determinare che chi lo contempla intenda cogliere l’identità tra il modello reale e la sua raffigurazione pittorica. Per queste ragioni il problema della verità non si pone nella critica delle fonti adoperate da Beke, come avviene invece nel campo delle scienze positive. Per il giovane Lukacs de L’Anima e le forme – che ispira Beke a Montecatini – l’aspirazione fondamentale del critico deve essere la creazione di un mondo autonomo (l’autonomia come pratica trans-individuale di Gilbert Simondon proiettata da Gilles Deleuze in Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 1975, pag. 94-101), sovrapposto alle opere d’arte esistenti e tale che, con la sua coerenza e vitalità (ripresa di Simmel da parte di Lukacs), acquisti un’esistenza indipendente.

Il fatto che la finalità del volontarismo critico sia da rintracciare nella creazione di una vita più autentica, espressa dalle opere, dimostra quanto tutti noi, compreso Walter Benjamin, siamo debitori della problematica della cosiddetta filosofia della vita di Dilthey e Simmel. La tensione bipolare, tipica di tale critica, tra la vita della città e la forma del fare artistico, tra l’impetuoso dinamismo post-sismico (del e nel reale) e le pratiche che tendono in qualche modo o a cogliere l’essenza profonda e a esprimere strutture e valori ideali, può essere trascesa, per il volontarismo di Città senza confine, proprio sulla base di quella oggettivazione spirituale che è l’opera d’arte.