La corrispondenza inter.mediale dell’arte
Linee di convergenza mediale. È proprio vero: intelligenti pauca, ‘l’intelligente ha bisogno di poco’. Qui non c’entrano l’etica o la saggezza: il detto non significa che chi ha cervello si accontenta di ciò che ha; c’entra l’idea alla base della parola ingegno. Questa parola deriva dal latino intellegentia (o intelligentia), che a sua volta viene dal verbo intellĕgo (o intelligo), derivato da lĕgo (da non confondere con lēgo ‘delegare’) con l’aggiunta del prefisso – che è anche una preposizione – inter- ‘in mezzo’ (o dell’avverbio intus ‘dentro’). Il verbo lĕgo ha tra i suoi significati ‘leggere’, da cui qualcuno ricava che intelligenza indichi la capacità di leggere in mezzo alle cose (inter-lĕgo), in mezzo agli estratti di segni tecnologici o di segni umanistici e letterari, oppure dentro le cose (intus-lĕgo). L’intelligenza è dunque la capacità di “sfogliare l’interno degli ipertesti”, di abbracciare la realtà non in maniera epidermica ma, andando oltre, in abisso, per “svellere” gli aspetti nascosti e non prontamente manifesti. “Leggere dentro” significa anche collocarsi temporaneamente nella pelle dell’altro (oggetto, cosa o ragione) e conferma che l’intelligenza per essere tale, non è legata solo alla sfera logico-razionale, al pensiero analitico, ma presuppone anche l’abilità di vedere, intuire e rispettare le emozioni altrui. Già gli antichi greci avevano ben compreso quest’ovvia verità: per Aristotele era inutile istruire l’intelletto, senza formare la coscienza. La parola apprendere, invece, ha origine nel campo semantico dell’amore. Deriva infatti dal latino “studere,” che significa «desiderare qualcosa, anelare intensamente», segno che senza passione, senza “amore” non si può crescere in nessun campo. Diciamo subito che il passaggio fonetico da intus-lĕgo a intellĕgo è difficile da giustificare, per cui propendiamo per inter-lĕgo (che, invece, si spiega facilmente con l’assimilazione della r alla l successiva, come nella preposizione articolata antica pello da per lo). La preposizione inter, inoltre, ben si adatta alla spiegazione che vogliamo dare dell’etimo, legandolo non al significato ‘leggere’ del verbo lĕgo, bensì a ‘prediligere, selezionare, comporre, costruire’. Quest’ultimo, infatti, è il significato primario di lĕgo (da qui vengono l’italiano legare, allegare, collegare ecc.), non a caso unito con il verbo greco légo, che significa tanto ‘raccogliere’ quanto ‘parlare’, quindi con il nome lógos ‘parola, discorso, principio, ragione, argomento’. È chiaro che il verbo greco e il verbo latino hanno in comune un avo, che è la radice indoeuropea leg- ‘raccogliere’. Da questo ceppo il greco ha sviluppato la parentela lessicale dell’esprimersi, il latino, invece, quella dello scorrere con gli occhi. Inter-lĕgo (non intus-lĕgo), quindi, non è ‘leggere in mezzo’, ma ‘raccogliere in mezzo’, cioè selezionare tra le tante informazioni quelle importanti e poi disporle insieme. Tornare a praticare insieme la multimedialità e la metatestualità, il pensiero critico, l’immaginazione creativa, il dialogo tra scienza e umanesimo, tra tecnica e formazione per scartare tecnicismi, esasperazioni tecnologiche e campi retorici senza spessore. Era un po’ che ci pensavamo e forse era anche un pensiero ‘necessario’, giacché l’impegno a diffondere la cultura del pensare bene per costruire cose buone, del bene comune, del fare di fare le cose bene per il bene, fare cose di valore per tutti – è un pilastro del nostro obiettivo di utilità tecno-semiotica.
Con questa ricostruzione, il detto «intelligenti pauca» prende un significato particolarmente ricco, nel nostro mondo di tecnomedialità strabordante: l’intelligente prende dal mucchio solamente le cose che contano, le mette insieme e con esse forma la sua opera o individua la strada della sua transitabilità. Il laboratorio mediale, se guardato attraverso le lenti fornite dalla semiotica, è un mondo fatto di testi, codici, numeri, immagini, di segni e dopo settimane di osservazione sul campo, anche l’etnografia ha iniziato a cogliere la trama testuale del laboratorio mediale. Lo sguardo accostato alla pratica ha consentito di far emergere il continuo allestimento delle varie forme di azione artistica mediale come un processo di disposizione costante e continuata. Tutto viene elaborato, registrato, catalogato, codificato e questo complesso e quotidiano processo di ordinamento conduce i vitali percorsi sociali di costruzione, memorizzazione, archiviazione e classificazione della pratica artistica, di far confluire e fronteggiare tecnicismi e umanesimi (tecnemi e umanemi).
Avete presente i giochini che si trovano nelle riviste di enigmistica? Uno dei giochi enigmistici più conosciuti e soprattutto alla portata di grandi e piccoli è il gioco dell’unire i puntini numerati per visualizzare la figura risultante. Ebbene, gli artisti che sono in grado di “collegare i punti” possono divenire intellettuali lungimiranti, riformatori e modelli di riferimento. Hanno una capacità unica di integrare una visione sistemica (l’intero panorama dall’alto di una collina) e, allo stesso tempo, vedere i piccoli insiemi che potrebbero essere più rilevanti e significativi. In un’epoca in cui tutto si costruisce intorno alle relazioni, unire i puntini dell’arte e superare il determinismo realista tecnofobo, o il nichilismo dadaista assolutistico significa dissodare l’abitudine a vedere le interconnessioni tra problemi, informazioni e tendenze, che potrebbero altrimenti sembrare estranee ad uno sguardo epidermico o distratto. Non è il singolo prodotto espositivo, il singolo canale di vendita, un solo membro del team a fare la differenza, ma sono i “punti” che si legano e si combinano per formare un approccio sistemico all’innovazione, dove ogni “punto” rappresenta: la capacità di collegare un problema reale (ambientale, economico e sociali) con i bisogni di un gruppo di persone o tra più soggetti. Collegare i membri del team gli uni agli altri, le loro esperienze linguistiche, le loro possibilità ipertestuali, conoscenza, competenze e soprattutto prospettive ed interessi. Impariamo a collegare set di abilità complementari e di diversi settori (come suggerivo nel mio Art.comm, Castelvecchi Roma 2002).
Fornire un contesto significativo per affrontare l’incertezza e la complessità del percorso artistico per non lasciare tutto nelle mani dell’abisso enigmatico introiettato da Marcel Duchamp. Immaginiamo il lavoro che facciamo ogni volta quando proviamo a dare significato ad una serie di esperienze che viviamo e che sono totalmente sconnesse. Connettere idee con idee diverse per creare concetti nuovi e insoliti, connettere tecnologie senza tecnicismi con culture tecnologiche senza determinismi. Ricordiamo che la creatività è caratterizzata dalla capacità di percepire il mondo in modi nuovi, di trovare schemi nascosti, di stabilire connessioni tra fenomeni apparentemente non correlati e di generare nuove soluzioni. Mettiamo in campo attività compositive che abbiano un valore pratico. Ricordiamoci che impariamo meglio quando apprendiamo e/o sperimentiamo nel contesto un’attività mirata ad un obiettivo concreto e ben definito. Quando siamo di fronte ad una circostanza in cui dobbiamo cercare di creare qualcosa, risolvere un problema o di costruire un nuovo modello, produciamo nuove connessioni tra tutte le informazioni che abbiamo a disposizione. Il lavoro per l’artista si fa sempre più concettuale e relazionale, divisi come siamo, tra un costante bisogno di cooperazione, visualizzazione, sperimentazione, analisi e apprendimento in team. Per affrontare le nostre sfide al meglio la capacità di “connettere i punti” rappresenta quella abilità fondamentale per dare significato e valore a ciò che impariamo, costruiamo ed attiviamo nell’ecosistema in cui operiamo. Poi, per tutto il resto, basta sempre un semplice algoritmo.
L’incontro con la critica al tecnicismo rappresenta un momento magico nella vita di ogni creazione artistica. Si possono fare molti incontri, ma occorre essere aperti ad essi per poterli riconoscere e trarne benefici. La critica al tecnicismo fine a se stesso è colei o colui che ci insegna qualcosa di cui abbiamo bisogno per portare produttive modifiche nella nostra costruzione estetico-politica. La critica al tecnicismo è fortemente se stessa e crede in ciò che fa, o pensa, con grande passione, tanto da trasmettere la forza della sua consapevolezza di vita a chi lo incontra. Questa energia vitale è contenuta dentro la pratica intermediale, che va a produrre un effetto particolare in chi la incontra, oppure è trasmessa attraverso un atteggiamento fortemente positivo nei confronti dell’arte contemporanea e delle esperienze mediali che essa offre. La critica al tecnicismo sa sorridere dentro e dona agli altri l’opportunità di crescere, evolvere e diventare artigiani digitali consapevoli delle loro capacità. Non ci sono limiti di età, di sesso e di fascia sociale per essere artigiani digitali, occorre essere consapevoli che il fuoco divino dell’umanesimo arde dentro le scoperte tecnologiche, nascosto nell’artista, per illuminare con la sua luce e scaldare col suo calore. Ho incontrato molti artisti nella mia vita e ogni volta si è trasformato qualcosa dentro e sono cambiato, l’intertestualità digitale è il territorio della mutazione e del work in progress.
È un po’ come risalire le antiche tradizioni di secoli fa, che venivano trasmesse oralmente dal saggio della comunità. Egli parlava ai giovani nei momenti importanti, alla sera attorno al fuoco, durante le lunghe notti d’inverno, all’inizio di rilevanti cerimonie che segnano i momenti della vita che scorreva. C’era tanta attesa per l’ascolto di quanto veniva offerto che segnava il momento presente e influiva sul futuro. Erano istanti magici. Il momento di creare viene quando si è pronti a trovare l’equilibrio tra la critica al tecnicismo e la forma poetica aperta, costruttiva e leggibile. Come ormai sappiamo, il mondo dell’arte condiviso da tutti ha una rappresentazione inter-individuale chiamata mappa storica del mondo. Essa si costituisce dalla nascita e crescita con il contributo di tre filtri fondamentali, attraverso i quali gli artisti vivono le esperienze costruttive dell’opera. Questi filtri sono curatoriali, compositivi e soprattutto progettuali, perché sono il risultato di una eredità fisiopsicologica di cui si perde l’origine nella notte dei tempi. Sono sociali, per il condizionamento dato all’artista dall’educazione integrata, dalla sfera sociale di appartenenza. Sono individuali, per l’apporto del processo compositivo dell’opera nel corso delle metacognizioni che costituiscono la trama della nuova storia dell’arte aperta al patrimonio tecno-semiotico dell’AI.
L’intelligenza artificiale è un insieme di tecnologie e processi in grado di elaborare grandi quantità di dati artistici per restituire sintesi o previsioni complesse e razionali. In realtà non esiste una sola definizione di AI. Dire semplicemente che è intelligente tutto quello che imita la mente umana è inesatto. Il mondo della finzione si configura in una nuova realtà per il curatore AI, anche se sappiamo che la riproduzione esatta della realtà è impossibile perché il linguaggio riflette il mondo in modo tipico, ossimorico, come un grido silenzioso; la realtà è registrata nel verbo o nell’immagine del verbo senza apparire in forma tridimensionale, ma superando tutte le dimensioni evocate dalla geometria. Così, osserviamo che la realtà artistica del database storico non è una realtà isolata, ma piuttosto è incatenata a una serie di altre realtà che consentono alla storia di accadere, dando origine a un “nuovo prodotto”, una volta che rivela o trasforma altre realtà. In mezzo a questa intricata ri-creazione di realtà, tra l’altro, “l’opera aperta digitale” è capace di svelare le “tombe” dell’oblio, nascoste dallo spazio o dal tempo, ma che esistono, sono esistite o sussisteranno, cambiando tutto, offrendo l’opportunità di trasformazione e di rappresentazione. Nella visione di Umberto Eco “ogni testo è una macchina pigra che chiede al lettore di fare parte del proprio lavoro” (Cinque scritti morali, Bompiani, Milano, 1999, p. 11). E, all’avvio di questa macchina, il curatore-collaboratore, nel suo ruolo di “operatore”, ha necessità di “controllare” la macchina, assegnandosi una conoscenza preventiva della materia in cui andrà ad incrociarsi, senza compromettere il meccanismo della macchina e il quadro in cui è inserita. Quindi, è importante menzionare che il gesto immaginario gestisce un universo la cui logica di funzionamento manca di autenticità assoluta, subordinata a componenti non sempre basate su una realtà vivente. Il testo, da solo, non dà tutto ciò che il ricevente dovrebbe comprendere, che sarebbe da riassumere al minimo. Quindi, la finzione artistica, già di per sé, e i suoi pilastri supportati dall’immaginazione, consentono al curatore di essere, in un certo modo, un soggetto autonomo, poiché la velocità fatale della finzione costruisce un mondo e i suoi eventi mancano di possibilità di dire tutto di lui, perché i processi sottostanti sono simili (o almeno ambiscono ad esserlo) solo in alcuni casi. Potremmo azzardare l’ipotesi che il machine learning sia un sottoinsieme di una robotica mimetica, un sottoinsieme della curatorialità artistica post-duchampiana. Volti artificiali e carni coltivate, gemelli digitali e beni crittografici, dati e media sintetici, creature bio-robotiche e metaversi emergenti fino ai simulatori quantistici e alle neuroprotesi: forse non viviamo dentro una simulazione, ma di certo vivremo grazie a una simulazione testuale. O meglio, in virtù delle molte simulazioni semiotiche che stanno ridisegnando il nostro mondo visivo ed esistenziale. Qualcuno l’ha chiamata età dell’oro della simulazione, uno spettro ampio e divisivo di sorprese e anormalità, di fiction e di corporature ideate di postumani e di atmosfere illusive: l’universo artistico squadernato dinanzi ai nostri occhi. Di più: queste sorprendenti e talvolta arrischiate ingegnerie simulacrali assemblano un nuovo catalogo del reale. Danno vita a un pianeta ricostituito e popolato da soggetti, esperienze ed ecologie partorite – a vario titolo e senso – attraverso simulazioni computazionali. Tra strane mimesi e singolari genesi, tra simulazioni e sintesi, è un’improvvisa produzione (sostenibile?) di nuove, eccentriche nature. È un rinnovato modo di essere e di divenire (abitato) del nostro pianeta. Nel film del 1990 Atto di forza, tratto da un racconto dello scrittore Philip K. Dick, il personaggio principale è un lavoratore mondano ossessionato dal desiderio di visitare Marte. Non potendo permettersi un vero viaggio, si indirizza a una società di servizi biotecnologici, in grado di innestare false memorie e fargli credere di essere stato su quel pianeta. Cosa che però il primo attore aveva fatto per davvero in passato senza saperlo, stando alle orme di una memoria rimossa, che scoprono nella sua mente. Alla fine del film, dopo numerosi imprevisti e disavventure, il protagonista si chiede se tutto quello che è successo sia reale, o se sia a sua volta un sogno, una simulazione della realtà, che era esattamente il lavoro richiesto alla società a cui si rivolge all’inizio della storia. Qualcosa di simile capita anche al protagonista del film del 2001 Vanilla Sky, che fatica spesso a comprendere se le sue esperienze siano reali o frutto di un sogno. E capita, come ancora più noto, al protagonista del film Matrix, inconsapevole di abitare in una simulazione fino a che più eventi lo portano a prenderne coscienza.
Letteralmente, machine learning significa macchine che imparano, a cui potremmo aggiungere macchine che ready-made-iano; una sorta di tautologia curatoriale della macchina che traduce l’anglicismo del “già fatto”, del già confezionato, del prefabbricato, pronto all’uso con il pronto alla curatela (ready for curatorship) e che attraverso il contributo traduttivo di Luigi Baggi (pre-made artist) noi potremmo chiamare ingegno pre-fatto, pre-made convergence. Quest’ultima definizione ci viene da un’operazione di conio del medialismo, implementata insieme a Baggi e sperimentata nell’area delle Imprese Mediali (1.0 nel 1991), in un momento in cui Internet era una realtà chiacchierata, ma non era stata ancora presentata e diffusa in massa. E questa è la sostanza del concetto: i software, gestiti da algoritmi, sono progettati per analizzare grandi quantità di dati. Sono la base per i due passi successivi: apprendere dalle informazioni a disposizione ed elaborare previsioni. Lo sviluppo del machine learning fa tesoro del passato per conoscere meglio il futuro (senza sfera di cristallo, ma con modelli predittivi da curare). Il deep learning è, a sua volta, un sottoinsieme del machine learning: significa letteralmente “apprendimento profondo”. Dunque, continuando il ragionamento semiologico, se il deep learning è usato come tavolozza dell’artista la posizione del medesimo slitta ad occupare la figura del curatore. A differenza di più comuni processi di machine learning (basati sull’elaborazione dei dati per eseguire la realizzazione di un progetto o di una forma espositiva), il deep learning sviluppa modelli su più livelli: opere, mostre, orizzonti espositivi, etc … portandosi via l’experience designer dell’artista e del curatore. Ed è quindi capace di individuare, estrarre ed elaborare dati in autonomia, senza che sia l’artista o la natura a fornire la materia prima per funzionare.
Per Big Data, come dice il nome, si intende un insieme di dati talmente “grande” da superare la capacità dei database tradizionali. Per dilatazione, il termine big data si riferisce anche al settore e alle tecnologie che programmano imponenti quantità di informazioni. Cosa c’entra tutto ciò con l’intelligenza artificiale usata in campo artistico? I dati sono il petrolio dell’AI, così come la registrazione degli avvenimenti storici nel campo della cronistoria d’arte sono i database della cultura visuale. Un algoritmo è una procedura di calcolo, uno schema con il quale l’artista codifica le modalità di elaborazioni dei dati. Gli algoritmi rappresentano l’anima razionale dell’intelligenza artificiale, il pennello e il colore per poter comporre. Le reti neurali sono sistemi di apprendimento che trasferiscono sulle macchine la struttura dei neuroni che l’artista nei secoli ha trasferito negli stili: nel complesso delle scelte e dei mezzi espressivi che rappresentano l’impronta peculiare di una scuola, di una tradizione letteraria, musicale o artistica, e specificatamente della personalità dell’autore. Un chatterbot è un software maturato per simulare (via chat o voce) un’interazione umana. È una delle applicazioni dell’AI più diffusa, perché attraverso la comprensione del linguaggio artificiale, consente di sostituire l’artista, magari di trasformarlo in curator. Già diverse gallerie d’arte contemporanea, ad esempio, usano questi software per vendere le opere online oppure crearle, riprodurre un avatar e poi introdurre la figura complessiva del curatore. L’artista senza la mediazione del curatore mediale (il ready for curatorship) apparirà alla domanda sull’istruzione un Wilder o un Barbar. Tale risulta essere ancora oggi, con l’aggravante che trovandosi a vivere in una società dalle mille sollecitazioni iconiche, ne introietta i messaggi in maniera confusa e perde il discernimento tra la buona e la cattiva immagine, diventando caotico e qualunquista nelle sue espressioni di libertà spirituale compromessa dall’ambiente artificiale.
Laboratorio mediale: Le varie forme di opera digitale nel laboratorio mediale rappresentano l’allestimento spaziale e temporale di tutte le narrazioni che hanno bisogno di una consistente quantità di legami, risorse e alleati per consentire la vita sociale quotidiana del laboratorio. I testi sono rilevanti sul piano del networking con altri gruppi tecnologici e con le istituzioni della ricerca artistica nazionale e internazionale perché consentono la medialità nello spazio pubblico. Se i testi che sollecitano l’ordine quotidiano della pratica, d’improvviso sfumassero, come se in un palazzo franassero tetto e soffitto ed anche molte delle pareti, cosa accadrebbe? Le testualità artistiche sono l’infrastruttura informativa in continuo apprestamento e sostengono la vita sociale del laboratorio mediale, sono i luoghi in cui si deposita la cognizione distribuita e tengono legati insieme le diverse componenti eterogenee della pratica mediale, poiché iscrivono giorno per giorno la materialità artistica che da empirica, artigianale e sperimentale viene poi codificata come razionale. Una volta scoperto il filo di arianna della testualità mediale diffusa, che funge da base sociale istallata del laboratorio, si inizia a cogliere che i testi sono ovunque: gli scaffali con i manuali, i protocolli disseminati sui banconi delle gallerie d’arte, rilegati nei quaderni d’arte, i tavoli di lavoro e di esposizione con pagine e note confuse tra provette, pipette, computer, installazioni sonore, etc …
Si possono fare due esempi di testi mediali intesi come struttura convergente (tra tecnica e umanesimo): il primo è la lista dei materiali, o la lista dei reagenti ai materiali e delle componenti tecnologiche affisse nel banco del laboratorio; un secondo esempio è quella che gli artisti mediali chiamano la lista delle liste (una lista dove sono elencate tutte le macrotipologie di liste di materiali e di concetti, di paradigmi, presenti in laboratorio da meno tempo) le responsabilità, gli spazi e gli oggetti. Le liste sono uno strumento organizzativo, che sottolinea responsabilità individuali e collettive sia di tipo umanistico che tecno-scientifico. Le liste consentono di avere a disposizione il meta-quadro di un’opera e della sua cadenza oggettuale, presente in laboratorio e segnala le attribuzioni personali e collettive di responsabilità e di stratificazione espositiva, la distribuzione dei compiti e insieme la densità della materialità presente nel laboratorio mediale. Alle liste si legano altri tipi di classificazioni e archiviazioni testuali dei progetti, dei manoscritti, dei folder di tutti i protocolli usati o in uso per un allestimento multimediale, fino a ricomporre una testualità diffusa che sostiene la pratica e la coordina.
Una scena che ho potuto osservare e che mi ha consentito di vedere in azione la manutenzione delle liste mediali, intese come infrastrutture della pratica, è la conta delle strutture installative convergenti tra fotografia, cinema, teatro, performance, etc … Ero in un laboratorio di un collettivo multimediale per il lavoro di osservazione critica, tutti si stavano preparando per l’organizzazione del trasferimento dati da un Museo all’altro. In una delle stanze, vengo attratto da una situazione che non riesco a decifrare in modo immediato: tre artisti sono impegnati in qualcosa che non capisco subito. Questa la scena. Uno degli artisti si trova davanti a un computer, mentre un altro controlla una voluminosa scheda cartacea e ancora un altro maneggia qualcosa che nell’istante non colgo. Chiedo allora cosa stanno facendo e uno degli artisti mi dice: “la classificazione dei materiali naturali e artificiali per l’integrazione tecno-umanistica dell’installazione”. Il trasferimento nel nuovo “laboratorio mediale” imponeva, infatti, di verificare lo stato di salute di tutte le linee cellulari conservate nel tank multimediale. Osservo allora in modo più ravvicinato la scena. L’artista davanti al tank – dotata di guanti e di occhiali di protezione – preleva ogni singolo contenitore delle singole linee cellulari, conservate ai diversi passaggi algoritmici, legge su ogni contenitore il vecchio codice di riconoscimento della linea, il passaggio di ogni linea e il suo responsabile. Se il codice si legge in modo chiaro viene confermato o aggiornato secondo le nuove categorie, se invece si fa fatica a leggere i codici vuol dire che la linea non è più utilizzabile. L’artista che ha in mano la lista cartacea ritrova nell’elenco il codice di quella linea cellulare che viene immediatamente aggiornato o confermato nella lista presente sul computer gestito dal terzo artista. La lista è da considerarsi come la mappa testuale e mediale delle linee algoritmiche che nella pratica della conta ha impegnato il laboratorio per una settimana, con turni di quattro ore per gruppo. Di ogni gruppo faceva parte un artigiano mediale, memoria del laboratorio e dell’ultima volta che si era fatta la conta, e due artisti emergenti da poco arrivati nel collettivo che in quella pratica potevano apprendere diverse cose: la responsabilità verso la struttura macchinica dell’opera; la visione delle responsabilità collettive, umanistiche e letterarie; le regole della codificazione; la rilevanza e la cura della materialità convergente tra tecnica e cultura; la pratica della conta testuale che diventa un lavoro che ordina la pratica intertestuale e intermediale.
Le liste e le loro modalità di archiviazione, mutano nel tempo e quando diventano database vengono nuovamente mobilitate e rinnovate sottolineando l’importanza delle classificazioni e dei continui processi di integrazione tra culture umanistiche e tecnologiche. Si tratta di modalità di strutturazione testuale temporanee dotate di una stabilità condificatrice; di pratiche sociali di ordinamento continuo, sotto forma di elementi leggibili, dello spazio collettivo per consentire di mantenere nel tempo una certa coerenza nelle traduzioni multiple. La trama dei testi mediali che ordinano e classificano, disseminati nel campo della pratica artistica, producono forme di interpretazione e di integrazione, fanno circolare le informazioni, le ordinano e nel fare tutto questo contribuiscono alla creazione della cultura professionale dell’ordine artistico come pratica sociale sempre aperta.
Gli artisti che usano l’AI sono curatori, ricercatori e ordinatori della pratica strutturale dell’opera mediale tramite la messa in azione degli eventi di classificazione, ma vi sono talmente immersi fino al punto che finiscono per essere agiti da queste classificazioni che assumono uno stato di naturalizzazione degli eventi: i testi ordinano la pratica e ordinano il comportamento umanistico degli attori e tutti i testi mediali divengono l’infrastruttura sociale, cognitiva e culturale del laboratorio artistico. Ammesso che sia possibile un giorno arrivare a simulare un’esperienza indistinguibile dalla realtà, si chiedono alcuni artisti e operatori museali: cosa permetterebbe a quel punto di escludere che la realtà stessa non sia una simulazione? Se tutto fosse perfettamente riproducibile, anche la nostra stessa esperienza cosciente, cosa distinguerebbe ciò che è reale da ciò che non lo è?
Essere in una simulazione significa interagire con essa e, quindi, condizionarla: «I tuoi input sensoriali derivano dalla falsificazione e i tuoi output propulsori influiscono sulla simulazione». Le nostre menti sono parte della realtà, ma una gran parte della realtà – che comprende il nostro mondo e quasi certamente molti altri – è al di fuori delle nostre menti: ne sappiamo poco, e ci sono parti che saremmo capaci di non comprendere mai. Cosa che non ha in sé l’irrealtà di quelle parti, e cioè di un piano oggettivo della realtà: «l’oggettività esiste indipendentemente da noi».