Alessia Armeni e Chiara Fantaccione, Sunset Boulevard, installation view, photo Giorgio Benni, Courtesy Curva Pura

Ciò che nel passaggio resta “imperduto”

Continua ad entusiasmare la proposta artistica della galleria Curva Pura di Roma. In questa occasione Alessia Armeni e Chiara Fantaccione si confrontano sul tema benjaminiano del passaggio, intessendo un dialogo artistico che è più un viaggio cromatico pieno di rimandi formali e concettuali. La mostra è visitabile fino al 29 marzo.

Chi scrive non ha mai attraversato il Sunset Boulevard, la lunga arteria stradale che si “srotola” dal centro di Los Angeles fino al quartiere di Pacific Palisades. Per visionare questa strada lo può aiutare quella congerie di rappresentazioni che pullulano l’immaginario legato al sogno americano: macchine decappottabili e Harly-Davidson sfrecciano sul manto stradale; una coda di palme, alte e ieratiche, a perimetrare il percorso, l’insegna di Hollywood troneggia indifferente sul pendio di una collina, Beverly Hills e le sue sfavillanti dimore, e poi un colpo d’occhio profondo su quell’impasto di colori rosati che orchestra il cielo, sul tramonto che getta un abile gioco di luci e ombre sul nostro peregrinare verso l’orizzonte.

Trionfo cromatico, passaggio insondabile, il tramonto si configura come l’archetipo perfetto di una soglia, un punto di cesura imponente definisce un prima e un dopo rispetto alla regolare scansione del tempo. Ci sono un giorno e una notte, un domani e un ieri, proprio perché un tramonto è lì a “rammendarne” la continuità, e a strutturare la ripetizione intrinseca di questa alternanza. Non è un caso se Claude Levi-Strauss in Tristi Tropici scrive che gli uomini prestano più attenzione al tramonto che al levar del sole: «quando il sole si abbassa verso la superficie levigata di un’acqua tranquilla, come l’obolo di un dio avaro, o quando il suo disco staglia la cresta della montagna come una foglia dura e dentellata l’uomo trova, in una breve fantasmagoria, la rivelazione delle forze opache, delle brume e degli sfolgorii di cui, nel fondo di se stesso, e durante tutta la giornata, ha vagamente percepito gli oscuri conflitti». Potremmo dire, seguendo il grande antropologo, che il tramonto è un rito di passaggio in sé, una dimensione spaziotemporale che smuove i più sottili moti di coscienza dell’umano, li sobilla lacerandoli, fra la proiezione del futuro e la permanenza del passato.

È questo lo sfondo concettuale attraverso cui si articola la splendida mostra bipersonale Sunset Boulevard di Alessia Armeni e Chiara Fantaccione, curata da Nicoletta Provenzano e allestita presso gli spazi della galleria Curva Pura di Roma. Le due artiste, estremamente diverse nello stile e nel linguaggio artistico, convergono sul crinale del tramonto, sulla soglia del passaggio, per imbastire un percorso dove passato e futuribilità si confondono, s’intrecciano, e lasciano scoprire, attraverso l’arte, ciò che nel passaggio resta imperduto (per parafrasare la poetessa e saggista Ann Carson). Il trittico di opere della pittrice Alessia Armeni pone in evidenza momenti importanti di un percorso artistico coerente, intriso di grazia e addensamenti contemplativi. È come se l’anellarsi di tali opere volesse seguire il cammino interiore di un artista che riflette retrospettivamente sul suo lavoro. Un aprés-coup del gesto artistico che fa della variazione cromatica e della luce i suoi punti cardine.

L’opera 24h_painting_roma_05/02/23 ne offre una chiara espressione: il passaggio di luce della durata di 24 ore a cui è sottoposta una parete viene campionato e suddiviso nelle sue regolari scansioni cromatiche. Come tratto specifico del linguaggio dell’artista, il bordo in arancione della tela contorna il lavorio pittorico permettendo all’opera di tralucere di un’aura sacrale, di definire i propri confini di oggetto-quadro ma anche di sospingersi al di là della propria natura di supporto (non è già questo il vibrare di una soglia?). Ciò che brulica dietro un gesto così preciso, votato all’attenta visione e alla ripetizione, non è tanto la scala cromatica prodotta, quando il riuscire a rappresentare il puro accadere. Non l’accadimento quindi, non l’accaduto, ma il passaggio di luce così come avviene, così come entra nel campo del materico. Questa sensazione, questo “inabissarsi” nell’immanenza dell’atto artistico lo si riscontra anche in Abisso, dove è materializzata attraverso la pittura l’azione riflettente che due specchi rimpallano fra loro, una mise en abyme che fa della profondità e della voluminosità delle pennellate un’espediente per trattenere ed indagare la rarefazione della luce. Candy, infine, concentra la propria attitudine figurativa sull’immagine del famoso cartone animato. Tale soggetto non è, come afferma la curatrice, perfetto «epitome del passaggio adolescenziale»? Traccia imperduta che fa dell’umano un essere intriso di ricordi?

Di tutt’altro avviso è l’elemento crepuscolare messo in campo da Chiara Fantaccione. Nelle sue installazioni riscontriamo lo sconfinamento tra oggetto reale e digitale, delineato in modo tale da effondere nei fruitori un certo effetto estraniante. È, infatti, l’immagine artificiale e virtuale ad imporsi come vettore di realtà nell’opera Golden hour, confrontandoci con un futuro on screen, da tramonto pixellato e geometricamente stilizzato. L’impero del simulacro, e il debordamento fra realtà e apparenza che ne consegue, sono richiamati anche dall’altra installazione Golden hour presente in galleria. Un possibile orizzonte naturalistico viene ricostruito artificialmente – coperte isotermiche e resine a modellare montagne ed elementi acquatici – e verticalizzato, esposto sulla parete e avvicinato ad una proiezione di luce rotonda, simboleggiante il sole al tramonto. Cosa ci resta di questo passaggio, di questa soglia naturale, se non la sua cristallizzazione artificiale, il suo adempiere a solo symbolum, simulacro dell’imperduto? Le sculture in resina dell’opera Requiem sanciscono i contorni di un presente che è già passato, un’attualità che vive di una sovrabbondanza produttiva tecnologica di cui non rimarrà – si ipotizza – che flebili tracce di dispositivi dismessi: chip, pezzi di plastica, connettori, etc…

In un mondo che declina distopicamente verso il futuro, l’artista ci ricorda che niente è più provvisorio della materialità dell’oggetto tecnologico: tutto incede velocemente verso la virtualizzazione, il tramonto ultimo del reale.