Giuseppe Veneziano
Autoritratto con sguardo intenso

Icona Pop. Giuseppe Veneziano

Incorreggibile distratto, i nomi sono da sempre la mia croce: scrivere Daniel anziché Damien (Hirst) o Bansky anziché Banksy, è il minimo che mi possa capitare. Lo stesso mi succede col pittore Veneziano: per tutti, Giuseppe; per me, Domenico. Sì, Domenico come l’artista rinascimentale che, emigrato a Firenze, provò a unire il cielo con l’inferno: il colore dei fiamminghi e la crudele prospettiva. In questo caso, però, la mia colpa è veniale. Come Domenico, Giuseppe, sicilianissimo a dispetto del cognome, ama citare i grandi del presente e del passato, contaminandone i soggetti e persino gli stili. Il tutto all’insegna di un Pop che, per quanto disprezzato dalla critica ufficiale, va sempre più configurandosi quale linguaggio elettivo dell’arte contemporanea.

A giudicare dalle tue opere, il Pop non è un movimento, un periodo storico, ma una categoria ideale.

Sì, il Pop nel tempo è diventato una categoria dell’arte. Credo che il linguaggio pop sia quello che sa raccontare il nostro tempo meglio di qualsiasi altro linguaggio artistico. Esso è dinamico, energetico e dialoga benissimo con tutte le tecnologie più innovative.

Il titolo della tua ultima mostra si riferisce all’Europa, a una sorta di mezzaluna più che fertile, industriale che attraversa il continente.

“The blue Banana” è un termine geopolitico che conoscevano soltanto gli addetti ai lavori. È una dorsale economica che racchiude, da Nord a Sud, le città della cosiddetta megalopoli europea. Il termine è stato coniato alla fine degli anni Ottanta proprio perché quest’area aveva una forma di banana.

Mi pare, però, che la tua banana dialoghi anche con l’opera di Cattelan: a differenza della sua, rimane dura. C’è sotto lo zampino di qualche pillolina?

Nessun dialogo con Cattelan. Il mio progetto artistico è stato concepito quattro anni fa, prima della banana con lo scotch dell’artista padovano. Il blu è il colore della bandiera europea, non della pillola di Viagra.

Tu e Cattelan avete spesso proceduto su binari paralleli. E tuttavia, che egli affronti certi temi, passi. Se però a farlo è Veneziano, le critiche non si possono contare. Il “Giornale dell’Arte”, ad esempio, ti ha segnalato tra gli artisti peggiori dell’anno. 

Quando ti accorgi di figurare nella lista dei peggiori artisti dell’anno e subito dopo leggi chi ti fa compagnia (Banksy, Beeple, Jeff Koons, JR), il dispiacere svanisce all’istante.

Non sarà che le tue opere divulgano ciò che, per chi ci guadagna, dovrebbe restare esclusivo? 

Può darsi, vado un po’ contro corrente rispetto a chi vuole che l’arte sia roba per pochi: io sono sempre stato per un’arte al cento per cento inclusiva. La mia mostra di Pietrasanta, giusto per fare un esempio, è stata la più fotografata e condivisa sui social dell’estete scorsa. Ci tengo però a precisare che l’aggettivo “inclusivo” non significa “di basso profilo”: chi desidera accedere a letture più sofisticate, nella mia arte troverà di che riflettere. 

Il suo punto di forza – la popolarità – è anche il suo peccato originale.

Pare che fare un’arte intelligente e allo stesso tempo comprensibile sia “banale”. 

La questione è un’altra. Il tuo lavoro “svela gli altarini”. Mostra come quello di altri celi sovente grossolane prese in giro.

Mostra, più che altro, come la confezione dell’oggetto artistico – gli studi di marketing e comunicazione – conti assai più del suo valore estetico.

La tua Madonna degli Influencer, con Chiara Ferragni al posto della Vergine, in questo senso ha fatto scuola.

L’ho riproposta di recente, in vesti botticelliane, in una mostra al Museo Mart di Rovereto. La prima versione del dipinto risale ad alcuni anni fa, quando la Ferragni non aveva ancora tutta la popolarità di oggi. Quella prima versione, possiamo dire, ha fatto proseliti.

La sua fama si è costruita sui social.

Ha fatto una scelta di campo radicale, usa solamente i social, dove ha un controllo diretto della sua immagine, e non va mai in TV a farsi intervistare. Eppure la sua fama cresce in modo esponenziale. Questo ci deve far riflettere su come sta cambiando il mondo della comunicazione. 

Questo, a dire il vero, lo fanno anche i “buoni”, come Zerocalcare.

Zerocalcare, diversamente della Ferragni, in TV qualche volta ci va. Michele è un grandissimo artista. Uno dei pochi in grado di raccontare le mille sfaccettature dell’animo umano sia nei momenti di forza, sia in quelli di fragilità e insicurezza, dove dà il meglio di sé.

I fumetti, come diceva Umberto Eco, sono arte. Anche tu hai cominciato con le strisce.

Sì, realizzavo fumetti per una casa editrice di Torino, “Il Capitello”; disegnavo poi le copertine per “Stilos”, il supplemento culturale del quotidiano “La Sicilia”, e per sei anni ho fatto vignette, illustrazioni e caricature per Il “Giornale di Sicilia”. La satira è stato il mio imprinting. Tante mie opere nascono da un’attenzione particolare alla cronaca. La storia, se ci pensi, non è che un insieme di fatti di cronaca. 

L’uomo non è cambiato molto.

La religione, il sesso e la politica sono tre parametri su cui ruotano spesso le mie opere. Sono dimensioni sociali che mi aiutano a comprendere meglio ogni epoca. Questi fattori sovente si mescolano e cambiano col tempo.

Anche i tuoi quadri richiedono tempo, per essere compresi. Ad esempio il Cristo leonardesco con un virione in pugno all’inizio mi sembrava un po’ eccessivo. Oggi l’intreccio ideologico tra piani all’apparenza inconciliabili – la religione, la politica, la malattia – appare molto più evidente.

L’arte consolatoria non m’interessa. Una mia opera può anche dare fastidio allo spettatore per l’argomento che tratta, ma l’importante, per me, è che lo stimoli a riflettere. Spesso mi è capitato di affrontare tematiche che sono poi diventate di grande attualità, sicché i miei lavori da pietre di scandalo si sono convertiti in profezie.

Qual è dunque, a tuo avviso, la funzione dell’artista?

Compito dell’artista è educare all’arte, compresa quella che esiste già. Mi capita spesso di rivisitare dipinti del Rinascimento o del Barocco – i periodi storici che prediligo – a cui magari in tanti si accosteranno per la prima volta proprio attraverso il mio lavoro. Alcuni vanno a guardarsi Guido Reni o Caravaggio soltanto per capire a chi io mi sia ispirato.

Un’arte didattica ai limiti del moralismo. Vedere i protagonisti della storia dell’arte o dei fumetti interpretare episodi di cronaca nera ha un effetto spiazzante.

Spesso dietro il bene si nasconde il male, e viceversa. Un libro di Andrea Pinketts, Il vizio dell’agnello, racconta proprio la cattiveria improvvisa dei buoni, che quando si manifesta è devastante. Nella mia opera Almost friends, Pippo con la pistola fumante ha appena ucciso Topolino…

L’opera è un Crypto NFT… La Crypto ha appena ucciso la pittura? [ride]

L’arte non dipende dal mezzo in cui si esprime, altrimenti tutti i virtuosi sarebbero degli artisti. Quanto alle opere Crypto NFT, ne ho già realizzate cinque, e quattro sono state già vendute. Ritengo che tutte le innovazioni che possano cambiare le carte in gioco non debbano essere ignorate. 

Lavori direttamente al computer oppure il punto di partenza è un lavoro tradizionale, da digitalizzare?

Diversamente dai nativi digitali, che realizzano le opere solo al computer, inizio sempre dalla pittuta. Per adesso è così. In futuro non so cosa succederà. Più che un vero protagonista del mondo NFT, mi sento un novello Caronte che traghetta l’arte dalla dimensione fisica a quella digitale. 

Cosa farai da grande?

Non riesco mai a vedere il mio futuro. Domani viene a trovarmi una gallerista di Seul. Vuole fare una mostra il prossimo ottobre con opere mie fisiche e virtuali. 

Giusto per restare in tema.

Lei ha già comprato una mia opera Crypto NFT, quindi è seriamente interessata a fare la mostra. Ci sono poi eventi già programmati: il 19 giugno si terrà una mostra antologica a Palazzo Pallavicini a Bologna; a luglio dovrei ritornare in Germania a esporre in una Galleria di Bamberga. Infine, una mostra a New York che rimando da due anni causa Covid. 

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