Rosa Mundi non è soltanto una inesauribile creatrice di figure e installazioni: è la sua una interpretazione del cosmo che in ogni aspetto obbedisce a un disegno, un copione in cui fonti storiche e biografiche, tradizioni filosofiche, metamorfosi alchemiche sono evocate da immagini incantate. La prima, che offre il titolo a questa antologica, in cui si ripercorrono le tappe di un lavoro trentennale, dai primi dipinti del secolo scorso alle sculture in marmo e pietra per la Biennale di Venezia 2022, alle più recenti composizioni video e fotografiche prodotte durante i viaggi in Senegal e a Cipro, è un simbolico giardino.
Come nel film di esordio di Sofia Coppola, Il giardino delle vergini suicide, in cui un gruppo di donne finisce segregato in una casa e nel verde circostante, anche l’artista, varcate le imponenti mura di Palazzo Branciforte, territorio di confine tra il mare e la città, tra ere e dimensioni, vi rimane intrappolata. Soltanto all’apparenza le tre sfere armillari che aprono la mostra ci portano lontano, nei fondali oceanici o nelle località più sperdute del Nord Europa o dell’Oriente; in realtà, in un allestimento che si snoda nella Cavallerizza del palazzo e nelle enormi stanze vuote del suo secondo piano, ogni movimento verso l’esterno, come scontrandosi contro una barriera, si rovescia in un ritorno, in uno scavo interiore. Lo testimoniano i continui riferimenti alla vita privata dell’autrice, alle sue abitudini, in particolar modo ai costumi della sua adolescenza e dell’infanzia, che ci restituiscono un’atmosfera sognante; simile, per molti aspetti, a quella fatta di profumi e rossetti, vinili dei Kiss e cataloghi di viaggi fuori porta che la Coppola dissemina nei suoi stalli verginali. Di fronte a queste tracce, noi tutti ci sentiamo il ragazzo del film che, durante una festa, con la scusa di andare in bagno, annusa i trucchi di una delle “vergini”, o come quello che prova a sciogliere il mistero di un’altra leggendone il diario, raccattato tra i rifiuti, rendendosi finalmente conto di come sia difficile far crescere una rosa. Di loro, delle vergini, non si sa quasi nulla, ma è proprio questa ignoranza, che nel caso di Rosa Mundi è anche mancata conoscenza del suo nome, a trasformarne gli scarti in reliquie fascinose. Sia come sia, la storia non si ripete mai due volte. Il suo percorso non è predeterminato.
Sviluppandosi per via di interazioni e coincidenze, configurazioni e decisioni, si incontrano sempre alternative. A volte sono i secondi o i millimetri a incanalarne il corso. Tutto questo Rosa Mundi lo sa bene; non a caso, una pietra miliare della rassegna è una installazione composta da un cerchio e da una tavola. Il cerchio è una sorta di ruota della fortuna: al suo interno sono fissati, come in un atlante, dei simboli celesti, allusivi agli eventi che possono segnare una giornata. Pare che l’artista e i suoi figli la compulsassero ogni mattina, a mo’ cabala, facendola girare. La tavola accoglie a sua volta una scacchiera, con il re in scacco matto. Ciò non ostante, sotto torri medioevali, che rimandano alle quinte del Guidoriccio da Fogliano attribuito a Simone Martini, affresco particolarmente amato dall’autrice, ci sono pure un arco, e una freccia: gli strumenti adatti a vincere, a colpire la preda. Non è dunque solo il caso, o una necessità stringente, a decidere il destino. Conta tantissimo il coraggio, la determinazione. È l’uomo – la donna – a scegliere, mediante il proprio agire, se ascendere alla divinitas del Creatore o sprofondare tra le bestie; un agire che richiede, sempre e comunque, sacrificio. Perciò, nell’istallazione che ho appena evocato, Rosa Mundi affigge alla tavola una coda recisa dei suoi capelli biondi.
Le sarà costata cara, ma è il prezzo da pagare perché le energie maschili e femminili, la grazia e il vigore di una seconda e di una terza installazione, nella medesima sala, si equilibrino a vicenda, come gli estremi di una clessidra.
(segue)