Prigioniere nella loro stessa casa, inascoltate, le sorelle Lisbon del Giardino delle vergini suicide erano “donne travestite che capivano l’amore e la morte” al punto di scegliere quest’ultima come alternativa al nulla. Di morte, Rosa Mundi non vuol sentir parlare affatto. Il suicidio non è contemplato. L’incomunicabilità, l’oppressione, la resistenza alle invasioni dell’esterno che nel film si manifestava nella scelta delle giovani di proteggere col proprio stesso corpo l’albero malato del giardino di casa, destinato ad essere abbattuto perché ferito – come loro – da una malattia mortale, si traduce in una cura per il giardino che non conosce riposo.
Non mi riferisco solo, si capisce, alla sensibilità per la natura dell’autrice, che teme l’inquinamento al punto di rappresentare la terra come un’acquasantiera incrostata di petrolio e adopera quasi esclusivamente materiali riciclati, ma al suo tentativo, disperato e perciò eroico, di sfidare il mondo eccedendolo, di risolverlo “superandolo, inglobandolo, esorcizzandolo, deterrendone il simbolico”. A quella che Baudrillard, in un memorabile saggio, chiamava “la giungla degli oggetti-feticcio”, metafora mai troppo ricordata di tanta arte contemporanea, ella oppone oggetti sacri, dall’uso rituale: icone che, come le tavolette religiose dipinte dai monaci ai tempi di Bisanzio, annullano la distanza dal divino facendosi tramite tra il contingente e l’assoluto. L’icona non è una riflessione su uno specchio: è un incontro che conduce alla visione.
Come ha scritto Anca Vasiliu, “se per Narciso l’attrazione blocca il movimento verso l’altro e rinchiude il bel giovane nel cerchio del mondo fisico e della tautologia, l’icona, che in un primo momento si definisce con un riferimento quasi obbligato a quest’illustrazione del mortale meccanismo dello sguardo e dell’arte, propone, invece, di rompere il cerchio eludendo con un richiamo alla diversità la reciprocità attiva/passiva del vedere/essere visto e, d’altro canto, inserendo il ‘salto’ del desiderio nel suo stesso spazio e non verso l’esterno. Essa ribalta lo slancio dell’anima all’interno stesso dell’alterità ricercata, in altre parole, rimanda a una sorta di identità o di non differenza che assume il divario del mondo e del tempo rendendolo coestensivo al percorso stesso, o alla vita, all’esistenza stessa dell’essere”. Perciò guardando Giuda in un’Ultima Cena – al posto di Giuda c’è una lastra riflettente – non ci imbattiamo, semplicemente, nel nostro sembiante un po’ offuscato. Troviamo quello dei senegalesi di un’altra installazione fotografica. Ascoltiamo la storia africana di un re che dovrà prendere moglie e morire il giorno dopo. Giochiamo a ingannare il tempo – a dimenticare la colpa – correndo a cavallo. Scorgiamo persino, o ci pare di vedere, ipnotizzati dalla musica di Mario Bajardi, quattro delle cinque donne invisibili del Giardino delle Vergini: una stringe in mano delle tenaglie e un piccolo piatto coi suoi seni tagliati; gli attributi della seconda sono una palma e due frecce; la terza sorregge una coppa da cui emanano fiamme; la quarta tende un ramo di ulivo. No, non si tratta di immagini effigiate da Rosa Mundi, né delle donne della Coppola; si tratta delle antiche protettrici di Palermo, Agata, Cristina, Ninfa e Oliva che, per un istante, sono discese dai loro piedistalli presso il Teatro del Sole, dove corrispondono ai quattro angoli del giardino, o se si preferisce ai quattro elementi, per fare posto al quinto, Rosalia, la rosa dei venti, l’Elemento impalpabile che, in una sintesi degna delle Affinità elettive, riassume e completa i precedenti.
(segue)