Giuseppe Leone
Giuseppe Leone. Foto Emanuela Alfano

Giuseppe Leone, prima e dopo

Ho davanti agli occhi una foto con due uomini seduti: il primo, Sciascia, distinto e rilassato. Il secondo, Bufalino, allampanato e sottile come una molla pronta a balzare al primo tocco. Entrambi siciliani, entrambi scrittori del secolo appena passato. Accanto a loro, un posto vuoto, come in attesa di qualcuno. Manca Consolo? No, manca Peppino Leone, il fotografo. Manca perché da pochi giorni se ne è andato. O forse no. È rimasto dall’altra parte, con l’occhio incollato all’obiettivo, a scrutare i nostri moti più sottili. Non manca, ci manca. E non sarà dimenticato.

Il laboratorio di Giuseppe Leone è una classica dimora dell’Ottocento ragusano: non povera, non ricca, elevata in altezza sino al terzo piano, quasi a sfidare la pendenza ascendente della timpa e che alla timpa si attacca come un rampicante. Case “a campanaru”, le chiamavano, letteralmente “case campanile”, secondo una versione un po’ attardata delle torri medioevali. Le somiglianze, però, non vanno oltre.

Se le torri del Mangia o degli Asinelli erano sogni fatti pietra, troppo alte e orgogliose rispetto alla statura dei loro padroni, i grattacieli nostrani hanno origine dalle ristrettezze materiali. I proprietari iniziavano infatti a costruire uno o due piani sul piccolo appezzamento di terreno che potevano permettersi e, man mano che la famiglia si allargava, proseguivano i lavori aggiungendo livelli successivi.

Una consuetudine non proprio salutare, vuoi per l’insorgere di liti e battibecchi, vuoi per la conclamata sismicità del sito, ma che dice tanto del grado di coesione della comunità.

In una casa come questa, nel quartiere San Giovanni, Giuseppe Leone è nato qualche decina d’anni fa. E l’appartenenza alla matrice, poi chiesa cattedrale – ancora un campanile a proiettare la sua ombra – ci fornisce un argomento antropologico da tenere in conto. Leone è uomo del popolo e, come i suoi antenati, i fondatori di Ragusa superiore, sa quello che vuole. Perciò i tre piani del suo studio non significano aristocratico distacco, quasi un voler guardare dall’alto in basso frapponendo tra sé e il mondo una distanza; sono, piuttosto, metafora dell’accumulo paziente di esperienze che il fotografo “come da viaggiatore incantato” (Salvatore Silvano Nigro) ha registrato in tutta la Sicilia.

Un’isola che, a giudicare dal suo immenso archivio, sembra quasi un continente – il “sesto continente del pianeta / piccolo e clandestino”, ha scritto Lucio Zinna – per la molteplicità di paesaggi e di caratteri che Leone è riuscito a rintracciarvi. Di queste persone e di questi luoghi, il tipo arabo e il normanno, le fattorie fortificate e le strade di pietra, pochissimo è rimasto. O meglio, pochissimo è rimasto nelle stesse condizioni di quando, su di essi, si è posata l’attenzione di Leone. Sicché, alla vasta raccolta di libri fotografici dedicati dall’artista alla sua terra, verrebbe da aggiungerne uno nuovo, Sicilia prima e dopo, dove il “prima” dovrebbe riferirsi alla Sicilia com’era prima che su di essa si abbattessero da un lato la mannaia della speculazione edilizia, dall’altro la livella della globalizzazione. Sul “dopo”, e sul senso di denuncia sottinteso, non serve spendere parole.

Nulla, ovviamente, impedisce di usare le foto di Leone in un’ottica testimoniale, magari seguendo l’esempio dei cittadini di Varsavia che, tra le macerie della seconda guerra mondiale, si ispirarono alle vedute settecentesche di Bellotto per ricostruire la città. Documentare non è però l’intento prioritario del fotografo. Lo è stato, forse, per il suo primo libro, La civiltà del legno in Sicilia, dove le foto illustravano un testo etnografico di Antonino Uccello. Ma anche allora si trattava di scatti che, pur non essendo animati, possedevano il dono di animare. “E questo è appunto”, afferma Roland Barthes, “ciò che fa ogni avventura”.

Movimento, gesto, istinto discorsivo: sono gli stigmi di un linguaggio che rifugge da accenti populistici o inclini al pietismo, cercando di cogliere l’umano nella sua lieta, dura, ironica o grottesca realtà. In fondo, come dimostra uno degli ultimi libri di Leone, dove ritratti di uomini e donne sono associati ai mascheroni barocchi di certi palazzi, le smorfie su cui egli si sofferma si trovavano già incise nella pietra.

Al fotografo è toccato “soltanto” rivelarle nel chiaroscuro pittorico delle immagini, a metà tra lirismo e narrazione. E lo stesso può dirsi per certi suoi paesaggi “dove il dato oggettivo è straniato, trasfigurato, reso evanescente e che ci restituiscono, piuttosto, come solo gli artisti sanno fare, un’isola magica e visionaria, più vera e autentica, forse, dell’isola reale” (Nunzio Zago).

Come asseriva Gesualdo Bufalino, con Leonardo Sciascia il suo critico maggiore, “è uno, Leone, che alla Sicilia s’accosta come a un impervio corpo di donna… ora sfiorandola appena, ora facendole teneramente violenza; ora guardandola con finta pigrizia, come dal balcone d’una stella remota”. E che, aggiungiamo noi, si accosta al corpo di donna degli ultimi, straordinari scatti erotici con lo steso animo ora dolce ora inquieto con cui si accosta alla Sicilia.

Ora che Giuseppe – Peppino, come lo chiamavano gli amici – non è più di questo mondo, le sue foto acquistano una forza anche maggiore. Raccontano di un tempo che non possiamo più credere presente ma che, come il fotografo interprete, è consegnato alla storia.