Un sogno continuo accompagna
Alberto Savinio
la continua realtà della nostra vita,
e la corregge,
la modifica secondo i nostri desideri.
Ripetere, assieme al poeta spagnolo,
che la vida es sueño,
è dichiarare il costante ottimismo
della nostra vita.
Cumuli di materia non storificata
Alberto Savinio, Dico a te, Clio
ingombrano le vie del mondo.
Cosa resta all’artista, quando non asseconda altro che il sorrisetto menzognero della Gioconda? Tutto è scomparso: famiglia, città, progetti, lavoro, preoccupazioni, l’arte ha invertito il suo senso, il doppio-senso, il giornale del senso è vuoto, non c’è più avvenire, nulla da fare/tutto da ridere, nessuno da incontrare. Cosa rimane, quando si è perso tutto, salvo la risata? Delle parole che non riescono a concludere, degli oggetti che riescono soltanto ad essere l’immagine delle cose che sono, un lamento, uno sguardo.
Oggetti che sfiorano volontariamente l’incoerenza, prova ultima della dissociazione che è presente, perché qualcuno parla e non capisce che bisogna adottare la strategia del silenzio: è il silenzio che rende tutto più dubbio, tutto più difeso, tutto più liberale.
Oggetti … l’ultima divagazione, appena prima del silenzio Fluxus di John Cage, senza affanni, senza lacrime, con lo scatenato soliloquio dell’angoscia, con la comprensione quasi cinica delle parole di Adorno del 49: “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie. Lo spirito critico non sarà mai all’altezza di affrontare la reificazione assoluta, che presupponeva il progresso dello spirito come uno dei suoi elementi e che oggi si appresta ad assorbirlo interamente, finché resterà fermo in se stesso in una contemplazione soddisfatta di sé.” (Critica della cultura e società, in Prismi, (1949), Einaudi Torino, 1972, p.22).
Ma a cosa serve badare all’oggetto ritrovato, alla traccia espositiva della sua esponibilità? E’ forse ancora un artista che parla? Quell’artista che è al di là del rebus, al di là degli scacchi, al di fuori delle “mosse del senso”, quello che non sa più dove segnare il suo scacco matto, quello ridotto ad un finale di partita misterioso, ad una risata folle, tutto tremante, incapace di amare, di ammirare, di credere e anche di rendere chiaro il valore del coefficiente creativo.
Un artista? Quel rifiuto dell’Accademia, quel bruco nel fango dell’inamovibile alchemico, quel mucchio di oggetti da “rammendo”! No, non un artista: un oggetto ritrovato.
Ma questo oggetto parla?
Ciò che dice non ha senso: è un delirante miscuglio di con-senso, al limite della parola di Jules Laforgue, della stanchezza fauve, degli inciampi di Léger, Picabia, Apollinaire, Gabriel Buffet, Pierre Reverdy, del Witz pronunciato da Sigmund Freud nel 1905.
Effettivamente non parla, gioca a scacchi.
Quando si è perso tutto, rimane il witz.
Esso si presenta solo alla frontiera del Nulla, come ultima testimonianza della “Risata che ci seppellirà”, del cinismo dell’avanguardia che ci tradirà.
Ma ancora che significato hanno questi oggetti? Quale interesse per noi, artisti miseramente attivi ed in cerca di un’occupazione, iscritti ad una accademia privata dove c’è da seguire, con noia e rifiuto, le lezioni di una Body Art ormai sfigata? Quale rapporto tra questo delirio di moribondi e gli utili oggetti ritrovati di ogni giorno? Cosa pensa di più l’impensabile? Il gioco ricco, soddisfacente, o il gioco di scacchi totalmente spoglio. La vita degli artisti comuni, o quella che tocca la morte così da vicino? Dov’è l’al di là della risata? Dov’è la lucidità? Da che lato la profondità concettuale?
Con una sorprendente inversione, la divagazione di un oggetto trovato trattiene l’aura di una partita di scacchi: Nudo che scende le scale n. 2 (1912); Il Re e la Regina circondati da nudi veloci (1912), Il Passaggio dalla Vergine e la Sposa (1912); La Sposa (1912).
I suoi oggetti parlano – a noi ex-punk ed ex-new wave, a noi che gridavamo the future is over – dell’esistenza mancata (marcata), “cioè …” che si è nella “tribù delle talpe” per morire di nuovo. Ecco la tragedia messa a nudo dai suoi celibatori! Dai suoi celibi scacchisti anti-hegeliani, che non sputarono su Hegel, sull’ironia di Hegel, ma su quella delle guerre che provengono dal conflitto con i post-hegeliani!
Bisogna avere perso tutto ciò che è essenziale, per avere perso l’essenziale dell’arte. In realtà, per volere di divinazione, essa è enigma, angoscia e limitatezza del limite: ecco il tema di Marcel Duchamp.
Se per esempio un Adorno è andato altrettanto lontano nella descrizione di questa ambiguità, tuttavia nessuno ha osato sospettare, dubitare, scetticizzare l’esistenza dell’oggetto, quella di tutti gli oggetti della vita quotidiana e come non si era mai sentito. Un oggetto informe, anti-forma, l’insignificanza elevata a potenza limbica, prima del tragico, prima del coefficiente di comprensione. Si capisce che Marcel Duchamp esasperi gli spiriti pragmatici che contano sugli strumenti dell’enigma, per costruire l’artista felice, l’artista giocatore senza ansia. Si capisce il disprezzo che possono avere di lui i gramsciani che si affidano alla storia, che proclamano la fede nella persona delle classi popolari e odiano chiunque pretenda di “risolvere con un sorriso da sfinge” la propria alienazione ontologica. Si capisce che il suo enfatismo sconcerti i religiosi, per i quali la creatura artistica è ad immagine della trasfigurazione e, quindi, non può riconoscersi nelle alchimie dell’oggetto ritrovato, nei giocatori silenziosi ed enigmatici, nei ready-made prima di qualsivoglia crudeltà.
Tuttavia, quest’opera che rifiuta lo studio, rifiuta l’Accademia e rifiuta anche la classificazione, quest’opera che nel delirio originario della lista rifiuta l’archivio delle Copie, quest’opera atroce possiede una risonanza profondamente liberale e capitalistica. Basta osservare la violenta reazione che suscita, quando mortifica se stessa, quando per provocazione pura, vuole incontrare “tutto questo inutile eco”. Il pubblico dell’élite si è mostrato sensibile ai suoi difetti, alle sue figure ed ai suoi temi che collaborano a tenere buone Fiere e Biennali, quasi che queste fossero oscuramente attese!
E ciò in un’epoca in cui l’umanità è alla canna del gas, si affretta a crearsi il comfort dell’indecisione, del passaggio, ad organizzare razionalmente l’eterna incertezza del transeunte, ed a conquistare lo spazio siderale delle “impassibilità” (le precessioni) piuttosto che il cosmo di qualche naturale opera d’arte.
Ecco Marcel Duchamp, al di là delle speranze che creano illusioni, ecco l’artista che tende ad evidenziare il suo rifiuto dell’arte come mestiere, comprando tre riproduzioni di paesaggio invernale, firmate da uno sconosciuto “della peggior specie” (a detta di Marcel), per aggiungere due piccoli personaggi, uno rosso ed uno verde, intitolando la riproduzione Farmacia e donando il primo ready-made, vero e proprio: lo Scolabottiglie (1914), appunto.
Un artista che ha avuto il coraggio di andare fino in fondo all’abisso del non-sense, fino in fondo all’imbecillità semiotica, fino in fondo all’ottuso semiologico, fino in fondo al suo controverso senza verso.

Sono rari gli artisti che osano andare fino al fondale della risata, fino in fondo alla scemenza; si teme l’insignificanza degli eccessi, la fatica del cinismo, si fa dello stile una mancanza di stile, si evade da se stessi per auto-fondarsi altrove, magari come millenaristica, ci si “rammenda” per smemorizzare l’arte contemporanea. Lo sguardo ironico e glaciale di Marcel Duchamp non si lascia distrarre dal suo gioco: regge l’apparenza della realtà e la scoperta della paralogia. Quello sguardo ci mostra il “tempo perso” dopo “il tempo perso”, l’inutile dopo l’utile; quando si ha finito di … (finito di imparare a dipingere, finito di premiarsi con un diploma, finito di credere di sperare), quando sulla scacchiera i finali di partita si sono ormai esauriti. Si manifesta allora un misto di provocazione e conservazione: l’istinto del giocatore spinge alla proposta della prossima partita, all’indignazione di colui che muta la rivolta in “giocata” (o in Giocasta): si lascia il tavolo per andare a fumare l’ennesimo sigaro. Ma nello stesso tempo come non confessare a se stessi ciò di cui si era già segretamente convinti? Cioè della vacuità di cui si è fatta l’opera della fine della storia, di cui son fatte tutte le cose che confondono il ready-made con le bombe a Kharkiv?
Duchamp focalizza l’attenzione sul Nulla, su ciò che bisogna pur chiamare terribile o niente e che si pone al centro dell’altra faccia dell’opera. Gli interrogativi che ci pone, che “costringe” a porci, non sono interrogativi di un forzuto dirimpettaio di Picasso ma, insieme a Man Ray e Marc Allégret, di un Anemic Cinema (1925):
– Dal 1939-40 fino alla fine della guerra lavorerà quasi esclusivamente ad un progetto iniziato nel ‘35 Da o Di Marcel Duchamp o Rrose Sélavy: Museo portatile delle sue opere più significative. Nel 1946 comincia a lavorare a Dati: 1 – La Caduta dell’acqua; 2 – Il Gas dell’Illuminazione; nel 1959 esce con Marchand du sel: “non esistono più problemi, non ne conosco più, la rivincita dell’epoché è sullo sdoganamento del crinale ambiguo. Esso esce da me e da te, mi riempie di interrogativi, grida contro le mie mura, non è mia, non posso fermarla, non posso impedirle di stare fermo ad ogni minaccia di cambiamento, di assediarmi e di assediare, di contaminare la politica del gioco e di giocare sul gioco della politica. Non ho più oggetti e devo esprimere, è tutto quanto so”.
Questa questione riduce un artista ad una incoscienza. Ma la maggior parte di noi cerca di non accorgersi che esiste: pensarvi non sarebbe forse già cadere nella nevrosi dell’oggetto ritrovato, nella necrosi dell’installazione positivista e del disegno negativo? Paradossalmente i fantasmi di Marcel Duchamp esistono più della massa degli artisti senza ansietà. Perché?
Semplicemente perché ci chiudono il processo di interrogazione, perché sono dis-interrogativi, e non sono altro che questo.
Ora il problema non è forse quello cui cercano di dare una risposta le estetiche e le artisticità rigide? E Duchamp non risetaccia, dunque, in un modo particolarmente provocante, il tema metafisico o mitologico ben noto?
Diciamo subito che quest’artista non è artista e neppure moralista. È impossibile trarre dalle sue opere un sistema o una regola, o un orizzonte d’attesa; è un pittore mancato, un performer, un creatore di processi creativi senza creazione. Ma appunto perché un creatore, può ancora accanirsi in un modo nuovo e personale su di una soglia che tutti gli artisti e tutti i creduloni hanno cercato di superare. Può farlo senza credere nella banalità e andando forse più lontano degli altri. La sua metafisica non ha più età, perché non esiste, vi è peraltro in lui il partito preso di aprirsi a ciò che chiama il processo creativo di lasciarlo penetrare in sé, così come nella propria coscienza, di dargli, per quanto possibile, un peso concettuale disorientato. Si accontenta di raggiungere l’emozione; trasmette negli oggetti, nei gesti mancati, i lamenti di una emozione bruta che in seguito i suoi esegeti avranno buon gioco ad interpretare a modo loro, a calibrare col metro delle proprie categorie. Il discorso di Duchamp non è un’estetica colta al livello infimo, ai suoi primi movimenti; è l’esperienza fondamentale dell’incomprensione: quella di una coscienza bloccata tra l’impossibilità di non sapere nulla sull’esistenza e l’impossibilità di non esistere. Questo micro-oggetto delle origini ha un effetto fulmineo: distrugge istantaneamente la cornice culturale e, per un istante, lascia penetrare la luce nell’abisso.
La dissociazione di Duchamp non è altro che la malattia della lucidità, i cui sintomi sono già presenti nelle coscienze più sane che si accaniscono al gioco degli scacchi; condannarla come morbida o regressiva, sarebbe condannare gli artisti a non essere più ciò che sono, impedire loro quella ricerca di se stessi che, una volta iniziata, può portare così lontano.
Il peggiore errore sarebbe, tuttavia, quello di trarre da Duchamp una specie di arringa a favore dell’assoluto. Egli ne proclama piuttosto l’assenza, con tutte le necessarie conseguenze: un universo disarticolato, un mondo crudele, in cui si stanno trascinando degli artisti, o sedicenti tali; artisti che in mancanza dell’essenziale del processo creativo sono diventati fantasmi.
È ancora visibile un progetto abbandonato? A questo interrogativo Duchamp non dà risposta, magari interviene con una risata. Non si avventura oltre la risata, il sogghigno e l’ilarità; ci si può chiedere però se in questa direzione egli non sia andato più lontano di chiunque abbia osato o saputo farlo prima di lui.

Il Centro Pompidou ospita il Premio dell’EFFETTO DUCHAMP. L’ultima edizione si è svolta lo scorso 6 ottobre 2021 (fino al 3 gennaio 2022). Il Premio Marcel Duchamp è stato istituito nel 2000 per mettere in risalto la scena del “crimine perfetto”, una sorta di istituzione generalizzata dell’arte del post-ready-made. In particolare, questo evento, dà credito a quegli artisti che rappresentano al meglio la generazione dell’oggetto diffuso e che riescono a veicolare “l’epoché sperimentale/nazionalista”, fuori dai confini. Emerge in questo appuntamento la nozione di oblio, che Duchamp giudica indispensabile per suicidare l’arte contemporanea, al limite del ready-made. Essa si incarna in un’opera costantemente sospesa tra thesaurus e tabula rasa, secondo una prospettiva estremamente illusionistica, che sostituisce al Museo della Memoria-Duchamp, la forza vivificante della dimenticanza. Si assiste, in questo modo, a ciò che aveva previsto Goethe, Ludwig, Kassner, Keller, Mann e Wagner, ovvero l’inizio di una libertà nuova, che fa del classicismo infranto, dello sperimentalismo “oscenico” delle regole e dell’imitazione, una forma di dilettantismo, modificando l’ordine canonico attraverso una selezione ispirata ad una fiction dei principi innovatori. In altri termini, il Premio Marcel Duchamp invita ad usare “l’intelligenza sciovinista” come strumento di negazione dell’arte, le nuove forme artistiche come l’ultima forma dell’arte mondiale, esaltando all’occorrenza il volontarismo di distruggere e incendiare, secondo un’idea che sembra preannunciare le velleità iconoclaste delle avanguardie. Oltre al fantomatico canone classicistico dell’arte francese, l’ADIAF (Associazione Internazionale dell’Arte Francese) e il Centre Pompidou, confermano gli azzardati riconoscimenti di una lingua visiva moderna, che non ha e non può avere nazione (semmai (in)con/tinenti!). Essi intendono colpire anche l’insegnamento didattico del resto delle Avanguardie e più precisamente l’autorità indiscussa di educatori, che si dedicano ad un’impresa di critica morale piuttosto che di critica artistica, mostrandoci nelle scelte dei premiati i quattro finalisti della 21° edizione: Julian Charrière, Isabelle Cornaro, Julien Creuzet e Lili Reynaud Dewar; oppure quelli premiati dal 2000, come Thomas Hirschhorn, Dominique Gonzalez-Foerster, Mathieu Mercier, Tatiana Trouvè, Laurent Gross, Daniel Dewar e Gregory Gicquel, Latifa Echakhch, Kader Attia, Clemente Cogitore … D’altra parte, le potenzialità straordinarie di quest’arte che recita la spregiudicatezza, la smontatura e il divorziamento ideista non sfuggono allo sguardo sensazionalistico del fondatore, Presidente del Prix Marcel Duchamp: Gilles Fuchs; il quale annota che, il segreto della continuità duchampiana sta proprio in quella sua delicata virtuosità incomprensiva, quell’esercizio di separare le coppie di qualsiasi comprensione e le prospettive fra idee credute eterogenee e lontane, di frugare nelle spazzature dei pregiudizi per ritrovare le spazzature della verità, di svestire alchemicamente le più solenni attendibilità per mettere sotto gli occhi spaventati del pubblico gli atti misconosciuti dell’incomprensione. Questo spirito infrasottile di ascendenza illusionistica controlla l’apparenza sofisticata della mentalità più libera dei nostri tempi; annuncia, dunque, l’inizio di un’epoca nuova per l’arte e la critica, all’insegna della libertà dalle presunte verità del dogma, ma con il senso inquieto del nuovo dogma, l’ultima conflittualità dell’Odierno nel Museo Moderno.