Orson Welles

A/traverso F for Fake II

Viviamo nell’epoca di F for Fake, in cui l’immaginario diventa una forza strategica del processo di valorizzazione della bugia, e l’arte sembra perdere quella funzione sovversiva, quella capacità di critica corrosiva del reale che la modernità le aveva assegnato. La guerra sta trasformando tutte le immagini in emanazioni di veridicità, e pare togliere al cinema il carattere di impronta del reale. Il potenziale di F for Fake rilancia in maniera originale gli interrogativi fondamentali sulle funzioni dell’arte della menzogna, sui suoi rapporti con i processi sociali, sul suo ruolo nel convulso mescolarsi di autenticità e fandonia che caratterizzano la storia del cinema.

Welles finge il linguaggio del cortometraggio, come Elmyr de Hory faceva finta di imitare i tratti della pittura dei grandi artisti del Novecento, ma il suo film attua il processo di falsificazione ad un doppio livello, quello narrativo si somma quindi a quello linguistico. L’arte della contraffazione viene esaltata e sublimata attraverso il cinema, ma anche decostruita e analizzata in ogni suo frammento. F for Fake, in questo suo intento, non può essere considerato un mock-documentario, in quanto viola la regola che richiede di mantenere costante il livello di credibilità della storia narrata, ma pur essendo un anticipatore del genere, lo supera per il livello di approfondimento raggiunto nel toccare gli argomenti legati al rapporto tra realtà e finzione. Proprio attraverso la scoperta di aver passato diciassette minuti a riferire fandonie, Welles conferma al pubblico quanto possa essere facile copiare una storia e, di conseguenza, precipitare nella trappola di questa falsificazione. Welles chiede al pubblico che cosa sia l’arte e risponde che essa è una forma di scienza occulta, di illusionismo, forse un espediente, certo un insieme di sincerità e bugia, di effettivo e di ipocrita. Inevitabilmente, il bugiardo è tradito dai suoi stessi interpreti o lettori e, più di ogni altro, quello la cui opera è un’opera di lettura. Ogni lettura è un’interpretazione, cioè un tradimento e un trattamento della verità. Più che la scienza dello spettatore importano i pezzi mobili della sua lettura. Gioco di specchi mobili: nel movimento della narrazione delle menzogne; lì dove, ogni lettore, ogni scrittore trasforma e modifica un pretesto che egli riscrive appropriandosene. Eppure chi è quel interprete che sparirebbe nella verità, interamente sotto il colore dell’onestà, quello il cui ideale sarebbe «la trasparenza del Male», quale attore traslucido e meschino reciterebbe questa parte per il bene dell’arte? In arte, anche se si gioca a scacchi, scomparire, dileguarsi, strumentalizzare l’assenza, d’altra parte, non è possibile mai del tutto. E noi non sappiamo cosa pensare di coloro che si dicono imparziali. Sarebbe vano il tentativo di chi, nell’insieme dei film di Orson Welles, si sforzasse di fissare un’unica modalità di rapporto con la Storia dell’Arte, l’unità logica di un metodo di visualizzazione del linguaggio, l’identità e l’analogia tra i fotogrammi esaminati, o ancora la rassomiglianza tra i differenti montaggi evocati, invocati o trattati. Fedele e infedele, la ripetizione, il ritornello è un dramma, la lettura di un linguaggio che si sforza di uscire da se stesso, perdendo la propria identità come la differenza specifica a cui tende. Qui l’arte, e soprattutto il cinema, si muovono fuori dal cerchio dell’illusione.

Heinz von Foerster, l’ispiratore del costruttivismo,nel suo libro “La verità è l’invenzione di un bugiardo. Colloqui per scettici” (Meltemi Milano 2020), intervista-colloquio con Bernard Pörksen, mette sotto processo, la legittimità e la dignità del più tradizionale pensiero usato da estetologi e filosofi dell’arte. Ha senso questa nostra volontà di verità così pervicace e ostinata? La sua condizione di esistenza (ci abbiamo mai pensato?) non è forse la menzogna?Senza bugie né abbagli tutto sarebbe ugualmente reale,con la deduzione che non si potrebbe più parlare di una obiettività. Già Aristotele, prima di Orson Welles, ci fa riflettere su questa incredibile circostanza: nel momento in cui tolleriamo che tutto è vero, dobbiamo ovviamente riconoscere l’autenticità anche del contrario, ossia che tutto è falso. L’assenza della falsità genera un’autenticità indefinita che, di fatto, non esiste, perché si risolve nel suo opposto. La verità senza il suo alter ego non sussiste, è essa stessa una menzogna, una delle tante che può raccontare un bugiardo ai limiti della bugia (come un regista); è così che  Orson Welles elabora una sua invenzione. La volontà di verità, tanto cara ai «cercatori di paradigmi della rivelazione», non è che la volontà di ingannare e ingannarsi, la sua ricerca – pari alla stessa ricerca artistica – un atto di profonda disonestà intellettuale. Soprattutto nel campo della semiotica dell’arte, non esiste la verità: liberiamoci da questo dogma e lasciamo che la nostra percezione del mondo, le nostre abitudini conoscitive e pratiche mutino di conseguenza. Solo così saremo davvero liberi.

La verità – sostiene Orson Welles – genera rivalità, dubbio, scetticismo, confini semiologici tra accertamento e imprevedibilità. Porta con sé sempre violenza, anzi, ne è la più intensa responsabile. È un’immagine statica: chi pretende di rappresentarla relega nella menzogna tutti coloro che la pensano diversamente, rendendo vana ogni possibilità di dialogo, ma non solo. L’artista cercherà di imporre la sua verità agli altri, di convertirla ricorrendo a qualsiasi mezzo. Le guerre, le rivendicazioni nazionalistiche, le ragioni del conflitto dell’America e quelle di Putin, le diverse strategie della pace e l’affermazione della sopraffazione accompagnata dall’obiettività politica liberale – ci invitano a riflettere – non nascono forse da questo principio? E che ne consegue? Che la verità alla fine non è che il punto di vista del più forte. Il parere dominante è quello che, con la forza, ha saputo imporsi e che vige non in virtù di un supremo fondamento metafisico, ma solo perché appartiene al vincitore. In fondo è solo un’opinione e non ha affatto valore in sé. Non ha ragione di esistere: Orson Welles ne parla come del “camaleonte della storia dell’arte” che cambia colore secondo chi lo dipinge o lo costruisce. Com’è possibile credere che esista la verità dell’arte quando non ci sono due artisti o due studiosi di estetica che siano d’accordo tra loro nella sua definizione? Un neo-realista, un surrealista, un dadaista: ognuno ci indicherà una direzione diversa per la sua ricerca. La visione più tradizionale vuole che la verità consista nella rispondenza tra la mente che conosce e l’oggetto conosciuto. Ma, secondo Orson Welles, non possiamo accettare neppure questa soluzione. Qui Orson Welles mette in crisi le certezze del comune cinema-verità. Non è l’intelletto, contrariamente a quanto sostiene ingenuamente il realismo, ad adeguarsi alla realtà esterna, è piuttosto quest’ultima a essere costruita dal soggetto. La regia e il montaggio – avverte Orson Welles – non è la passiva ricezione di qualcosa che esiste al di fuori e indipendentemente da noi, è invece un processo attivo: l’uomo fa, inventa, crea ciò che conosce. Orson Welles introduce una radicale frattura tra verità e menzogna, cioè tra il conoscere e l’essere: i sensi dell’arte non forniscono alcun ritratto fedele della realtà, noi possiamo comprendere solo ciò che appare, senza alcun necessario legame tra mondo reale e mondo percepito, poiché per noi esiste solo quest’ultimo di cui siamo i soli artefici. La fisiologia e la semiotica della percezione sono in grado ormai di dimostrarlo su base sperimentale: sentiamo suoni, odori, sapori e vediamo colori, ma non si tratta che di relazioni prodotte affettatamente in noi da un complesso macchinario di connessioni tra neuroni. Vediamo un manufatto rosso: è solo una nostra impressione, siamo noi a fare rosso quell’oggetto, non possiamo affermare che sia tale in sé, perché la comprensione cromatica del rosso può essere prodotta in molti modi stimolando opportunamente il nervo ottico. E così per tutte le nostre sensazioni. La domanda della bio-semiotica “com’è realmente il mondo esterno?” perde significato e valore. Ritorna dunque prepotentemente il dubbio di Cartesio: quale certezza ha l’uomo dell’affidabilità delle sue sensazioni? E se il mondo che cade sotto i nostri sensi e la nostra stessa vita fossero solo un sogno o un possibile linguaggio? L’arte cinematografica trova la garanzia che cerca nel Nume, Essere assoluto e genitore amorevole che non può ingannare i suoi figli, solo per questa via è possibile, secondo il cinema, essere sicuri che ciò che i sensi attestano sia reale e che non siamo prigionieri di un’illusione. E’ come se I dieci Comandamenti li avessimo ricevuti dal Cinema ((The Ten Commandments) è un film del 1956 diretto da Cecil B. De Mille, remake dell’omonimo film del 1923 dello stesso regista. È un adattamento cinematografico del secondo libro del Pentateuco: il Libro dell’Esodo). Ma Orson Welles si muove in una direzione diversa: perché cercare una giustificazione prodigiosa? C’è un mondo al di fuori, questo è certo, ma la conoscenza che ne abbiamo è il frutto della connessione fra molteplici sensazioni, che avviene nel sistema nervoso centrale, il quale funziona come un elaboratore elettronico, una sorta di grande cervello elettronico che si trova dentro di noi. Orson Welles apprende e mette a frutto la lezione del criticismo: la conoscenza audiovisiva non può prescindere dal nostro “apparato” conoscitivo, dalle “strutture” che ci sono date fin dalla nascita. Il mondo è la rappresentazione che l’artista se ne dà. Già Kant intuisce il carattere creativo della conoscenza, ma ciò che non vede è l’estrema conseguenza di questa posizione, ossia l’assenza di qualsiasi sostanza. Affinché tale rappresentazione non si riduca a mero fantasma, secondo Kant è necessario postulare l’esistenza di un sostrato che è solo verosimile, ma inconoscibile e che egli denomina noumeno, il mondo vero. La soluzione prospettata da Orson Welles è ben più radicale: non c’è bisogno di alcun sostrato che sostanzi le nostre impressioni, perché la realtà è solo quella che il soggetto “inventa” a partire dalle sue percezioni cinematografiche. Non c’è alcun “mondo vero” dietro. La verità – afferma Orson Welles – è una bugia e non possiamo rinunciare a tale paradosso, con tutte le conseguenze che implica, anche le più irriverenti: in primis che nessuna legge, sia essa giuridica o scientifica, ha il potere di vincolarci. 

Non esiste la verità. E dunque: chi ha il diritto di dirci cosa dobbiamo/non dobbiamo fare con l’arte? chi ha l’autorità per imporci la sua descrizione dei processi in natura e della loro imitazione per costruire una bellezza da fruire? Il principio di causalità del film, ad esempio, perno del nostro ragionamento e dei nostri comportamenti, che valore ha? Ognuno ha facoltà di costruire e inventare il mondo sulla base della propria esperienza, non c’è ragione perché tutti dobbiamo pensare in termini di rigide connessioni artistiche di causa ed effetto, fra input e output. Qualsiasi norma, legge o principio che vada al di là della sua applicazione tecnica, per raggiungere un dato progetto di verità o di menzogna, ci banalizza, perché converte tutti gli artisti «a una dimensione», a impersonali marionette. Eliminare la verità significa restituire all’artista l’intera gamma delle sue possibilità e delle sue scelte. Significa ripensare – e questa è la più radicale delle conseguenze – la medialità, la psicoterapia, la comunicazione. Tutti abbiamo uguale diritto a inventare il mondo: com’è possibile distinguere tra maestro e allievo, tra sano e malato, tra sapiente e ignorante, tra Antonin Artaud e Stanley Kubrick, Sol Lewitt e Jean Dubuffet? Non c’è una realtà oggettiva che funga da parametro, non si può categorizzare gli artisti in modo settario. Il veggente deve collaborare con l’allievo derealizzato nella costruzione della realtà, non imporre la sua. Nel processo semiotico, non c’è scambio unidirezionale tra mittente e ricevente, poiché è quest’ultimo a creare il significato di ciò che ascolta. Certo, non è facile: rinunciare alla verità è un salto nel buio. Ma è un’urgenza non ulteriormente dilazionabile. Dobbiamo tornare a essere padroni di noi stessi, azzerare le esperienze storiche che abbiamo consumato e sviluppare nuovi orizzonti, per essere prosciolti dall’essere “liberi artisti o artisti liberi”. Tutto ciò che voglio è esortare a riflettere sulla molteplicità delle possibilità: noi siamo liberi di scegliere, siamo liberi di decidere, scrive Paul Valery, anche se non agiamo. È ciò che ci dice il critico letterario Leone Piccioni de L’invenzione della verità di Marta Morazzoni: “È un doppio racconto, sistemato con sapiente montaggio in un doppio binario, che si segnala per le sue alte doti di scrittura, di sentimento poetico, di interiore adesione a un nucleo talmente impalpabile e affettivo da risultare completamente guidato da un sentimento di spiritualità”. Marta Morazzoni nella sua narrativa si ferma spesso sulle impressioni che suscitano gli spazi storici e reali. I suoi personaggi raffigurano appunto dei soggetti capaci di cogliere le evocazioni e le allusioni provocate dagli spazi che valicano, così come dagli oggetti e dalle immagini con cui si confrontano. L’autrice parla di questo fenomeno in termini di «lettura dei segni» (una sorta di semiologia empirica del racconto), fenomeno che si nota già nelle sue prime opere: nella raccolta La ragazza col turbante (1986) e soprattutto nel breve romanzo L’invenzione della verità (1988), opera in cui più che in altre il panorama naturale e cittadino e le stesse opere architettoniche si leggono in termini di prodotti capaci di trasmettere dei segni che, una volta colti, forniscono una base per rinviare al rapporto tra la sincerità e l’invenzione. Una riflessione su quel rapporto viene molto ben espressa anche per bocca di John Ruskin, luminare storico che entra appunto in quel romanzo dell’88: «Si possono immaginare cose false, e comporre cose false; ma solo la verità può essere inventata.» (Morazzoni, L’invenzione della verità, Teadue, Milano,1999, p.136). Nessuna verità,nessun imperativo assoluto, nessun dogma; solo l’artista fattosi persona (vedi il mio saggio +Divenire – altri … atti della forma fluens …, in Segnonline, rubrica Heuresis, 9 luglio 2021) e la persona fattasi artista, le sue percezioni, le sue invenzioni. E le infinite molteplici vie che si aprono dinanzi a lui, tutte da provare.

L’atteggiamento visuale dei primi registi è lo stesso che connota gli scienziati; il tipo di sguardo rivolto al mondo è identico: meraviglia, ripresa, filmare, simulare, per venire a conoscenza della visione. Quello che va notato e messo in rilievo è che, fin dall’inizio, l’impresa della «macchina della visione», secondo Orson Welles, nasce ponendo il problema della verità. Dovrebbe essere chiaro che, quella della ripresa della verità, si presenta come un’esigenza dell’artista, del soggetto che vede e intende. Ma, con un’operazione che ancora una volta si può far risalire ai Greci, si è avviata sin dall’inizio una strategia che avrebbe condotto a far coincidere i termini verità e oggettività. La strategia in questione potremmo definirla grazie alla simulazione della magia di Orson Welles “postulato di oggettivazione”: «…senza rendersene conto il regista si limita a rappresentare la parte di un osservatore esterno. Con ciò il suo compito è straordinariamente facilitato. Questo gran passo – tagliar fuori se stesso, retrocedere come uno spettatore che non ha nulla a che fare con l’esecuzione dello spettacolo – ha ricevuto altri riconoscimenti, che lo fanno sembrare innocuo, naturale, inevitabile. Lo si può chiamare semplicemente oggettivazione, considerazione del mondo come un oggetto-immagine» (riduzione impropria del pensiero di Welles, tramite la trascrizione di Peter Bogdanovich: Il cinema secondo Orson Welles, Il Saggiatore, Milano, 2016 (trad. it. di This Is Orson Welles, Harper Collins, New York, 1992)). 

La cultura cinematografica moderna ha fatto suo il principio di oggettivazione, si è collocata espressamente su questa linea. Se, infatti, è evidente come il postulato di oggettività abbia un autorevole riscontro filmico; se il modello di visualizzazione accolto, più o meno tacitamente, è quello del rispecchiamento delle cose nell’intelletto, della adaequatio rei et intellectus; se tutto ciò è evidente, allora la vera scommessa delle tecnologie visuali moderne (o della modalità di fare visione dei new media) è che i prodotti di tale conoscenza sono oggettivamente veri. Sulla base di questa opzione di riduzione si è costruita (inventata) una (presunta) verità visuale oggettiva, che ha pure – almeno all’inizio – l’avallo della tecnologia della visione. Siamo molto lontani dalla verità oggettiva della scienza di Galilei e Newton. Orson Welles non era stato considerato soltanto il più bravo, ma anche il più fortunato dei tecnologi dell’audiovisione, perché la legge della realtà la si può scoprire solo una volta e al regista americano sarebbe toccato in sorte di scoprirla. A noi tocca di ri-scoprirla per individuare, nell’epoca del digitale,l’anello mancante.