L’inarchiviabile. L’archivio contro la storia, intervista a Marco Scotini

Da organo di potere, espressione di un’esigenza di ordinamento delle tracce della storia e di controllo della memoria, a strumento di riscrittura della stessa e dispositivo di resistenza socio-politica. Del processo di “disarchiviazione dell’archivio” parla Marco Scotini nel suo ultimo libro L’inarchiviabile. L’archivio contro la storia, pubblicato di recente da Meltemi. Uno studio che riprende e arricchisce la sua riflessione critica sul tema, portata avanti pionieristicamente da oltre vent’anni: evidenziando la problematicità di ogni discorso sull’archivio e il ribaltamento dell’illusione di classificazione e di controllo da cui nasce ad opera di molte pratiche artistiche internazionali. Esperienze che sconfinano con l’attivismo politico e che da più parti portano avanti “una moltiplicazione di assemblaggi combinatori, concatenamenti plurali e imprevisti di passato”. In una “sfida alla storia” come “traiettoria predefinita” e costrutto lineare, che implica anche “una revisione radicale dell’idea del tempo” e apre alla rivendicazione di altre temporalità possibili…

Il nuovo libro riprende il titolo di una tua mostra a FM Centro Arte Contemporanea del 2016 sugli “archivi ribelli” degli anni ‘70 in Italia. Allude dunque ai residui della storia ufficiale, a ciò che eccede e che diventa strumento di rivendicazione “(dai ruoli sociali, dalle identità di genere, dal passato cristallizzato, dalle forme di subordinazione)”. Ma implica anche un pensiero più complesso, che mette in discussione l’idea stessa che il sapere sia archiviabile. Contraddice cioè quell’afflato enciclopedico su cui si fonda l’archivio come istituzione, e rilancia un concetto da te già espresso: l’idea dell’“archivio senza archè”. Ce ne puoi parlare?

Quando oggi si parla (e se ne parla molto) di archivio dobbiamo capirci su cosa intendiamo. Quello di cui mi occupo io da oltre vent’anni, assieme ad altre figure di profilo internazionale, non è l’istituzione che tutti conosciamo. Intanto: non è il deposito di documenti amministrativo che ha finito per naturalizzare la storia. Non è la raccolta di dati a carattere retroattivo e stabile con cui siamo familiari, né la collezione di saperi di natura enciclopedica. L’idea di archivio espressa nel mio ultimo libro è di tipo costruttivista rispetto alla memoria del comune, erode i precedenti confini, la funzione e il significato dell’archivio scientifico tradizionale. Ha l’ambizione di creare un contro-modello di archivio che possa contrastare la storia ufficiale (ma anche l’idea di storia in generale) a partire da un altro paradigma del tempo. Se scorriamo i paragrafi del primo capitolo, dal titolo ‘Cronodissidenze’, vediamo che solo certi archivi degli anni Settanta sono stati sottoposti al vaglio e ad una rilettura. E sono gli archivi di quegli artisti, filmmaker, architetti o artiste femministe che sono stati rimossi dalla storia egemonica e neoliberista. La mostra sugli anni Settanta in Italia dal titolo “L’Inarchiviabile” e quella successiva su arte e femminismo in Italia, intitolata “Il Soggetto Imprevisto”, hanno costituito due capitoli importanti in questo itinerario. Ma la vera riflessione sul tema, nel mio caso, comincia nel 2004 con l’apertura di “Disobedience Archive” a Berlino e con tutte le altre presentazioni del progetto in giro per il mondo. L’ultima tappa è stata all’interno della diciassettesima Istanbul Biennale lo scorso anno ed ha riscosso ancora molto successo. Ecco perché quando parlo di un archivio senza “archè” faccio riferimento ad una idea di tempo non lineare (senza origine) e al rifiuto di una dimensione autoritaria (senza comando) della storia. Oggi abbiamo bisogno di genealogie plurali.

Nel saggio introduttivo definisci l’archivio un “oggetto sfuggente e indefinito”, che si basa appunto sul paradosso semantico dell’archè e sul contrasto tra l’essere dispositivo di costruzione delle identità, espressione burocratica del potere e mezzo potenzialmente eversivo. Ci fai qualche esempio delle strategie messe in campo per sabotare le narrazioni ufficiali?

Senza uscire dal progetto “Disobedience”, è chiaro che l’oggetto qui è la riscoperta e la collezione di tutti quei video e film sperimentali che hanno accompagnato la storia dell’attivismo, a partire dai fatidici anni Settanta. Perché da questa data? Perché prima si è trattato non solo del bipolarismo della Guerra Fredda ma anche di una idea di popolo e di partito ben precisa in cui non c’era bisogno dell’attivismo con le sue modalità creative e antirappresentative. “Disobedience” nasce innanzitutto come risposta ai fatti di Genova del 2001 e riesce a stare dietro ad emersioni come le Primavere Arabe, i movimenti Occupy, differenti proteste e insurrezioni nel mondo. Riguardo a certi artisti, invece, oppure a certi fenomeni, si è trattato di riportare alla luce le componenti eversive, incatturabili e inarchiviabili del loro percorso. Diciamo che tutti gli artisti analizzati nel libro sono archivisti di per sé, hanno fornito immagini diverse e molteplici di un’idea di archivio generativo o tale da contrastare la storia. La riapertura degli archivi ribelli del passato non vuole colmare i vuoti che si troverebbero all’interno delle nostre storie e a cui sarebbero integrati. Si riapre il passato per sovvertirne l’immagine che ne è stata fornita. 

Un aspetto su cui ti soffermi particolarmente in relazione a queste nuove pratiche d’archivio è l’emersione di un nuovo ordine temporale. Ad un certo punto dichiari che “il futuro è obsoleto, la vera posta in palio è la trasformazione radicale dell’idea di tempo”. In che senso? Come muta l’idea di futuro?

Per anni mi sono chiesto perché mi sembrasse più enigmatico e misterioso il passato rispetto al presente e al futuro. Poi ho capito che si tratta di un costrutto artificiale fortificato dallo storicismo modernista. Il fatto che non riusciamo più a far emergere avanguardie non è un male come tale. Durante tutto il Novecento c’è stata la corsa alla loro riproduzione (da avanguardie a neoavanguardie, ecc.) solo perché si era immersi in una storia lineare come in una catena di montaggio. Ad un tempo tripartito in un passato ormai chiuso, un presente incerto e un futuro aperto, si è sostituito un tempo sdoppiato. Un’idea di tempo che lo vede sdoppiato simultaneamente in potenza e atto, in reale e possibile. Non in un prima e un dopo. In questo senso oggi l’archivio rappresenta un potenziale in grado di lasciare aperto un numero indefinito di aggregazioni di passato. L’archivio di cui parto è tanto digitale che materiale e, soprattutto, ci spostiamo da un’idea di dispositivo retroattivo e conservativo a quella di un archivio dinamico e generativo.

Di fronte alla perdita dell’evidenza probatoria del documento nell’era digitale e alla sempre maggiore indistinzione tra realtà e fiction, citando Guattari rilevi il “passaggio dal paradigma scientifico a quello estetico”. Cosa comporta questo cambio?

La modernità occidentale ha incoraggiato una epistemologia oggettivista per cui conoscere per noi corrisponde all’azione di desoggettivare, in nome di una verità presunta oggettiva e universale. Questo più o meno è il paradigma scientifico di cui solo recentemente abbiamo appreso l’insufficienza e la natura ideologica. Deleuze e Guattari ci hanno poi parlato della possibilità di una scienza nomade come alternativa alla scienza di stato. Pensiamo che l’idea di archivio amministrativo, quale garante della veridicità documentale, è quella che ha fondato lo stato nazionale territoriale del XIX secolo. Il paradigma estetico dovrebbe presupporre un’assunzione di responsabilità diretta e senza delega. Non va confuso e frainteso con l’individualismo, visto che la sfera pubblica del comune è il suo terreno. L’archivio contemporaneo nasce quale causa ed effetto del paradigma estetico.

Inarchiviabile è anche un’antologia di tuoi scritti, che conferma il lungo impegno nel “cercare di rendere nuovamente possibili memorie collettive sepolte, corpi disobbedienti, ruoli repressi, libri interdetti, cartografie marginali, esposizioni rimosse”. La prima sezione, “Crono-dissidenze”, parte non a caso dagli anni Settanta (tra gli artisti Marcella Campagnano, Ugo La Pietra, Laura Grisi, Gianni Pettena…). La seconda, “Geo-archivi”, insieme ad un focus su autori dell’Est Europa riprende esempi (come il tuo fortunato “Disobedience archive”) di un diverso tipo di archivio dinamico e generativo, “che può venire continuamente de-archiviato o re-archiviato. E’ un metodo che in piccolo mi sembra hai applicato a questo libro, in cui riorganizzi i testi conferendo loro nuova significazione. Si può considerare anch’esso un’“opera aperta” e in progress? Con quali “sviluppi”?

Direi che è il mio libro più benjaminiano e che possiamo piuttosto considerarlo come un’opera in corso. In attesa di essere ampliata, decostruita e ricostruita. Dunque non un libro chiuso definitivamente.  Di fatto, c’è chi ha parlato di “archival thinking”, come Ernst van Alphen, e credo di essere ormai, dopo tanti anni, dentro questa modalità di pensiero archivistico. Non solo questo libro ma, più in generale, anche la mia attività di curatore è informata da questo modo di operare. Nella mostra che ho curato a Villa Arson di Nizza lo scorso anno ho voluto aprire l’itinerario espositivo con due opere sovrapposte con cui avevo aperto due mostre precedenti, fatte a distanza di anni. Da un lato una ‘Mappa Atopica’ di Vitone con cui avevo aperto “Empowerment” a Villa Croce a Genova nel 2004 e dall’altro ‘Sit-In’, una foto in bianco e nero di Uliano Lucas del 1971, che apriva “L’Inarchiviabile” a FM nel 2016. Direi che la soglia della mostra “Le Futur derrière nous” era una terza cosa, una cosa nuova. Sono un po’ ossessionato dalla ripetizione differente e considero tutto quello che ho fatto come qualcosa ancora da fare. Il passato non si chiude mai, è sempre un potenziale che accompagna il mio presente. È qualcosa che non cessa di attualizzarsi qui e ora. Tutto quello che ho già vissuto mi è contemporaneo e a portata di mano. E, per questo, non devo andare a cercarlo in un cassetto. Come potrei vivere altrimenti?

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