Look At Me Vol. III | L’intervista a Sara Van Bussel e Manuela Nobile

Visto, vissuto, percepito, il corpo è il protagonista assoluto della trilogia “Look at Me”, la mostra temporanea nei luoghi della notte milanese che, per il suo atto conclusivo di venerdì 16 febbraio, sceglie la sauna gay di via Plezzo, 16 (Royal Hammam Sauna).
Dalle 00.30 alle 5.00, gli artisti coinvolti saranno Dann Couzijn, Beatrice Favaretto, Salomé Chatriot e Tommaso Ottomano.

La saga è a cura di Sara Van Bussel con la direzione artistica di Manuela Nobile, giovanissime tessitrici di un organismo vivente che si attiva in ambienti volutamente lontani dal mondo dell’arte contemporanea per mescolare le energie, uscire dalla propria zona di comfort e aprire nuovi varchi di un’esperienza condivisa della notte.
Ne abbiamo parlato insieme a loro per un’intervista tra arte e vita dal punto di vista delle nuove generazioni sulla città di Milano e sui temi più urgenti della contemporaneità.

Sara Van Bussel e Manuela Nobile, foto di Michele Stroppa.

Come nasce la vostra collaborazione con Look At Me?

Sara Van Bussel. La prima edizione di Look at Me è stata ideata e promossa insieme al collettivo curatoriale di cui faccio parte OTTN Projects composta da sole donne dislocate in vari luoghi d’Italia. Essendo l’unica su Milano me ne sarei dovuta occupare da sola, trattandosi però di un lavoro complesso, è stata la fondatrice del collettivo, Giorgia Ori, a presentarmi Manuela, con la quale abbiamo quindi sviluppato il progetto. Ci siamo conosciute ed è stato “amore a prima vista”, ci siamo trovate subito, abbiamo lavorato benissimo e, da lì in poi, il progetto è diventato nostro a tutti gli effetti.

Il mondo della notte è un tratto distintivo del progetto Look At Me. Cosa vi ha portato a scegliere la fascia oraria notturna e soprattutto coinvolgere ciò che ruota intorno al mondo della notte? 

Sara Van Bussel. Da un lato, è la città di Milano ad alimentare la scelta di lavorare nella notte, essendo costellata da eventi e realtà che appaiono solo in questi momenti; dall’altro, è la nostra stessa vita a determinare questa scelta, lavorando entrambe full time durante il giorno. Si tratta un po’ di esigenza e un po’ di contesto.
Nella notte c’è una specie di democratizzazione in atto che non c’è durante la giornata. Mentre il giorno magari è un contesto lavorativo e istituzionale, dove ogni cosa ha il suo posto, nella notte tutto tende a mischiarsi. In contesti notturni non è rilevante che tu sia un panettiere o il CEO di un’azienda, cosa che a noi affascina molto. Se si va ad investigare inoltre la dimensione del corpo all’interno della dimensione notturna ci si addentra in questioni di maggiore complessità.
A supporto di ciò, ci sono tantissimi articoli molto interessanti che parlano di movimenti notturni come una presa di coscienza, come uno stare insieme che enfatizza una certa collettività, un senso di comunità, uguaglianza e accessibilità. Ci sono dei movimenti interi anche politici che si basano su una destrutturazione della società che ha luogo nella notte: persone che non si sentono accettate nella società di tutti i giorni che nell’ambiente notturno trovano sicurezza e identità.
Penso all’esperienza che ho vissuto sulla mia pelle. Vengo da Amsterdam, una città in cui la vita notturna è estremamente importante, nella quale esiste anche un sindaco della notte che gestisce tutte le faccende che si dispiegano in quella fascia oraria, come clubbing, festival e iniziative notturne in toto. Ho visto intere comunità di persone che scappavano da una certa situazione politica, discriminati per orientamento sessuale o classe sociale, che nella vita notturna acquisivano visibilità e soprattutto diritto di esistere in quanto loro stessi.

Manuela Nobile. Prima di dedicarmi a Look At Me con Sara, ho avuto per 3 anni uno progetto espositivo, anche se abbastanza atipico in quanto collocato all’interno di uno spazio ibrido, mi rendevo conto di quanto fosse difficile avvicinare un pubblico diverso da quello dell’arte. Limitandomi inizialmente a certe scelte curatoriali legate ad un’idea di mostra d’arte ancora elitaria e seriosa, ero circondata da mura bianche, un po’ lontane dal mio personale bisogno di esplorazione. Lavorare con spazi non convenzionali e immersi nella notte ci ha dato finalmente la possibilità di legare ai mondi che abitiamo quotidianamente, come quello dell’arte, della moda e del design, un nuovo flusso di interesse, agevolando la contaminazione e il dialogo tra personalità differenti. Oltre a cercare di avvicinare le persone al mondo dell’arte, il nostro lavoro è una scusa per entrare in contesti insoliti, curiosando e gettando le basi per una nuova esperienza di fruizione, anche per un pubblico non esperto.

Oltre alla notte, come portate l’arte contemporanea ad un più vasto pubblico?

L’obiettivo è portare l’arte contemporanea nella vita, di ragionare in termini di accessibilità scongiurando il pericolo di un evento per pochi. Per questo ci teniamo a mantenere gratuite le mostre, cerchiamo sponsor per coprire i costi della location e pagare gli artisti.
Siamo contente che fin dall’inizio del format lavoriamo con realtà come la Fondazione Marcelo Burlon che ha tra le finalità quello di veicolare messaggi legati alla comunità LGBTQAI+ e in generale è molto attenta a tematiche sociali. Insieme a loro lavoriamo anche con l’Istituto italiano di Fotografia, che ci segue dall’inizio, e con organizzazioni che credono nella nostra visione dell’arte e ci supportano in questo. L’accessibilità viene prima di tutto, in secondo luogo cerchiamo di facilitare la fruizione delle opere d’arte anche nella modalità di installazione, per esempio.

Come si è sviluppata la trilogia intorno al corpo e agli artisti selezionati?

Ci sono delle volte in cui il processo viene ispirato dalla location, altre volte conosciamo l’opera e l’artista e pensiamo che ci piacerebbe esporre proprio quel lavoro. Tendenzialmente sono tutti artisti che conosciamo personalmente o di cui conosciamo il lavoro e la ricerca.
Il focus della trilogia è molto chiaro, il corpo, la libertà dell’espressione artistica e il mondo della notte attraverso l’esplorazione e l’inserimento di arte contemporanea in luoghi non convenzionali. Nella prima edizione il corpo era declinato nella sua accezione più erotica; nella seconda più incentrata sulla spossatezza, il movimento, l’imprescindibilità del corpo fisico anche attraverso la danza. Quest’ultima edizione è un mix delle due sfumature: ci sono lavori sul corpo che riflettono su una tensione più erotica e altre più sul corpo come entità fisica a sé stante.

Immagino che la scelta di luoghi non convenzionali determini anche situazioni difficili da gestire.

La cosa bella ma anche difficile di questo progetto che accomuna tutte le location scelte, a differenza di una galleria, è sicuramente il forte carattere degli spazi, dei quali non ti appropri. Questi posti non sono neutri, hanno complessità pratiche (per esempio mancanza di mura sulle quali appendere, banalmente, o prese per elettricità), lavorano durante il giorno, spesso anche la notte, quindi ci dobbiamo adattare a tante cose. I sopralluoghi si fanno tra una pausa e l’altra del locale o quando sono chiusi al pubblico, certe scelte ci sono precluse e dobbiamo tener conto di aspetti che non ci saremmo mai immaginate a seconda degli spazi. Altro esempio pratico della sauna che ospiterà l’evento conclusivo è che nello spazio non c’è il guardaroba: prevedendo molte persone con cappotti e giacche ad un evento di Febbraio abbiamo dovuto pensare anche all’aspetto logistico, procurandoci relle apposite.

Qual è la risposta dei luoghi che vi ospitano?

Questo è un aspetto davvero interessante e spesso trascurato. Probabilmente è l’aspetto più arricchente a livello di esperienza, perché sono mondi che anche noi non conosciamo, in particolare non conosciamo il funzionamento effettivo di uno strip club o una sauna gay. Sono mondi a sé che hanno le loro regole, i loro clienti e le persone che gravitano attorno sono molto diverse dalla nostra realtà. Lavorare in questi luoghi è estremamente speciale; impariamo tanto e si cresce insieme. Devi abituarti ad ambientarti in questo contesto e poi impari anche a relazionartici. Impari cosa puoi fare e cosa non puoi fare, come ti devi approcciare a queste persone, e nulla può essere dato per scontato. All’inizio per loro è tutto un po’ strano, a volte pensano che l’arte sia solo appendere un quadro. Invece imparano pian piano a guardare alle cose in modo diverso, instaurando anche dialoghi con noi, con gli artisti che coinvolgiamo, e scoprono che esiste un ibrido di arte e vita che si concretizza durante l’evento stesso. È bello vedere le loro reazioni, spesso reagiscono come bambini che scoprono per la prima volta qualcosa.

L’ultimo capitolo di Look at Me si chiude in un luogo davvero non convenzionale per l’arte: una sauna gay. Come nasce la scelta di quest’ultima location e qual è il rapporto con l’arte queer e la moda?

Nelle intenzioni iniziale non c’era l’idea di cercare opere queer, così come una location che richiamasse l’arte queer. Noi volevamo uno spazio incentrato sul corpo, pensando a una palestra o un centro benessere. Abbiamo fatto quindi tanta ricerca su Milano per cercare lo spazio adatto. Il problema è che tutti i posti che trovavamo erano inaccessibili economicamente, non accoglievano certi progetti, a livello di spazio erano molto piccoli oppure organizzati in modo tale per cui era molto difficile accogliere un flusso di persone elevato. La scelta è stata dettata, in primis, dal concept sul corpo, in secundis, da esigenze pratiche e funzionali. Il lavoro in sé e per sé è da dove parte tutto. Non ci soffermiamo sull’orientamento sessuale degli artisti scegliendo tatticamente il loro intervento, guardiamo al lavoro: che poi quest’ultimo sia frutto di una ricerca personale è un altro discorso. In merito a questa domanda possiamo citarti due esempi lampanti: per Look At me 1 abbiamo deciso di coinvolgere Michele Rizzo, artista completamente estraneo al mondo di strip club eterosessuali, perché ci interessava la sua ricerca sul corpo in movimento e sullo sguardo (erotico e non). Allo stesso tempo per questo ultimo capitolo andiamo ad inserire in una sauna gay un’artista come Beatrice Favaretto, anche qui completamente fuori target con il pubblico usuale dello spazio, perché il suo lavoro (i video Miss Italia e Liquid Sounds) ricontestualizza il corpo come campo di investigazione identitaria, a prescindere dal genere.
Il nostro lavoro consiste nell’andare al di là di certe distinzioni o etichette, proprio partendo dal lavoro artistico, che non ha confini.

Tommaso Ottomano, Body.

Qual è lo stato di salute dell’arte contemporanea su Milano, almeno secondo la vostra esperienza con Look at Me?

Al momento sentiamo che i visitatori abbiano un grande bisogno di partecipazione e coinvolgimento durante le mostre. Per la prima Look at Me, ad esempio, erano vietate le fotografie per salvaguardare il lavoro delle stripper e questo ha innescato nella mente di chi ne faceva parte un grande senso di comunità, unicità e rispetto. Il nostro pubblico è partecipe di un evento in cui il contesto, la musica del dj set, alternata alle performance e la visione delle opere d’arte, gli permette di vivere un momento speciale e di sentirsi a suo agio. Un altro modo in cui cerchiamo di contrastare questo clima di apparente insoddisfazione che notiamo nella città è invitando artisti internazionali. Due tra quelli invitati per Look at Me vol III vengono dalla Francia e dall’Olanda. Lelo, uno dei brand che ci sponsorizza, è anch’esso internazionale, con sede in Svezia. Speriamo che Milano torni ad essere sede di tanti spazi indipendenti fondati da giovani e che torni la frenesia nel fare arte, ma con una nuova visione, anche attenta all’aspetto economico, perché troppo spesso sentiamo parlare di artisti che non vengono pagati o progetti che non vengono portati a termine per via del poco budget a disposizione. Bisogna che si inizi a guardare al fare arte – sia come pratica artistica che come progetto curatoriale – come un lavoro a tutti gli effetti.