L’Autoritratto, di nessuno

Dal 19 luglio, alla Casa della memoria di Milano, Francesca Romano presenta la mostra “L’autoritratto, di nessuno” a cura di Marta Michelacci. Artista e curatrice si confrontano in un dialogo su Segnonline

Il riferimento alla struttura della narrazione, dièghesis, ci permette di entrare nel vivo di quanto suggerito da Francesca Romano nell’Autoritratto, di nessuno. Le sculture ad altezza naturale e quelle dei bambini ricreano una condizione esistenziale che coinvolge direttamente l’osservatore. L’invito è quello di entrare nella pelle di chi, per fuggire da guerre e calamità, o anche solo alla ricerca di un futuro dignitoso, è disposto ad abbandonare la propria terra, a strappare quelle radici che lo legavano a tradizioni, linguaggi, stili di vita spesso irrecuperabili. L’artista è mossa da una sorta di  necessità interiore, un bisogno compulsivo di dare voce a chi non è riconosciuto nella sua piena identità. 

Il linguaggio è diretto, non mediato o concettuale. Le sculture sono realizzate con materiale povero, ferro e rete metallica, modellate ad una ad una e avvolte in coperte termiche. Si tratta di un lavoro meticoloso e accurato, che non tradisce lo sforzo richiesto: niente di artificiale e tantomeno guidato da metodologie digitali. La fatica fisica non traspare da queste sagome, apparentemente leggere, svuotate dentro, esattamente per definire una condizione esistenziale che toglie umanità ai migranti di ogni dove.

Entrare nella pelle di chi, per fuggire da guerre e calamità, o anche solo alla ricerca di un futuro dignitoso che cosa vuol dire per te?

Io parlo di quello che mi emoziona e che mi porta ad avere sentimenti forti. Il fatto di vedere e di sentire queste persone che emigrano perché fuggono da guerre, da violenze o da situazioni che non li rendono felici mi coinvolge profondamente. Non posso fare altro che parlarne a modo mio perché se fossi una giornalista probabilmente andrei nelle sedi di guerra o visiterei i posti dove c’è fame e miseria. Se fossi uno scrittore magari scriverei un libro, ma sono un’artista e mi esprimo col mio linguaggio che è la scultura o, in questo caso specifico, non è soltanto scultura ma è anche una interazione, è un modo molto più fluido di comunicare in cui ci si serve di strumenti diversi tra loro. Utilizzo il mezzo in funzione di ciò che mi aiuta a raccontare quello che voglio dire. 

Si avverte l’urgenza nel tuo lavoro di dire cosa senti nei confronti di chi non è riconosciuto nella propria identità.

Ho iniziato nel 2008 senza sapere esattamente dove sarei arrivata. In quel momento sentivo l’urgenza di raccontare la violenza sulle donne. Ho una lunga esperienza come scenografa e le mie primissime sculture raccontano quello che sentivo dentro. I bozzetti e i disegni di quel periodo evocavano profondamente questo tema; ho sentito che dentro di me c’era qualcosa e sentivo di voler dar voce a questo mio sentire in difesa dei diritti di chi ha subito, o continua a subire, violenza non solo fisica ma anche morale o psicologica. Quindi mi accorgevo che prendevano forma queste sculture violentissime nell’uso dei materiali, da un certo punto di vista eleganti nel portamento ma che raccontavano sicuramente un qualcosa di molto forte. La mia necessità narrativa si focalizzava sugli aspetti della femminilità in un momento storico in cui l’aspetto della violenza sulle donne non era ancora alla ribalda. 

La realizzazione di oltre cinquanta sculture è stato un lavoro imponente, faticoso. Il risultato definitivo appare invece leggero, trasparente, dettagliato ma potente nel messaggio. Che ne dici?

Il primo prototipo è del 2018. Era esattamente così, cioè questa levità, questa trasparenza delle figure, dovuta anche all’uso di un materiale povero, la rete da pollaio a maglia stretta, facile da modellare ma ancorata ad una struttura di ferro saldata mi ha permesso questi risultati. Inizialmente avevo pensato di fare una cinquantina di sculture ma non immaginavo che la modellazione ad una ad una mi avrebbe chiesto così tante energie. Si trattava di modellarne i volti e di dargli un’anima garantendo questa sorta di aspetto diafano ma robusto al contempo. Il risultato è indubbiamente quello che volevo: cioè corpi che ci sono e non ci sono, c’è un corpo perché c’è una persona: le persone ci sono su quei barconi, ci sono le persone che emigrano. Ma di colpo il problema è che a queste persone non viene riconosciuta un’identità, non si sa dove metterli, sono “nessuno”.

Esplori con l’installazione “L’autoritratto, di nessuno” la condizione umana.

Il primo titolo era “di nessuno” ed avevo pensato a 50/100 sculture galleggianti su una zattera, realizzate con rete e ferro saldato. Poi il progetto ha avuto un’evoluzione e si è arrivati a “L’autoritratto, di nessuno”. È nata dal mio riflettere sulla condizione umana, su chi si trova a doversi sradicare dalla sua terra d’origine. Anch’io potrei un giorno essere costretta a prendermi due cose in valigia e migrare. Quindi tutti possiamo diventare migranti. Una parte dell’installazione è il mio autoritratto perché potrebbe capitare anche a me di diventare “nessuno”. 

L’ultima domanda riguarda il contesto della casa della memoria. Si tratta di un luogo fortemente significativo, come lo percepisci in relazione alle tue sculture?

È un luogo perfetto! la memoria dovrebbe ricordare che tanti di noi sono stati, o potremmo diventare, migranti. La storia ce lo insegna. Io stessa sono un’emigrata. La mia famiglia dalla Calabria si è spostata a Milano e tantissimi calabresi, anche miei parenti, sono emigrati in Sud America. Nel mio paese si diceva che erano andati ad Annova Yorke.  Quindi la condizione di migrante l’ho vissuta sulla mia pelle venendo dalla Calabria a Milano, all’età di otto anni. Noi eravamo chiamati “terroni”, non ci affittavano gli appartamenti. Mi ricordo perfettamente: facevo la terza elementare quando sono arrivata a Milano, non parlavo l’italiano o parlavo un italiano terribile. La condizione dei bambini nelle scuole elementari era di disagio pazzesco, ho un ricordo bruttissimo (mi vergognavo ad alzare la mano per chiedere di andare in bagno), un ricordo terribile di quei momenti. Ricordo mia madre che piangeva mentre leggeva la lettera del nonno lasciato in Calabria. Forse anche per questo mio vissuto il tema della memoria e delle migrazioni è qualcosa che sento profondamente mio. E noi eravamo italiani in Italia! Quando vedo queste mamme marocchine o egiziani o africane qui a Milano che portano magari due o tre bambini in un’unica carrozzina, non posso non sentirmi nella loro pelle.