Luciano Fabro. Courtesy of Simon Lee Gallery

Il gesto “prima e dopo” Barthes (III parte) Gesti sincr.etici & a.critici

La missione di Barthes, come quella di Carla Lonzi, si basava sul sogno di ritornare a uno stato di salute soggettivo della scrittura, uno stato in cui tutto fosse in perfetto equilibrio, anteriore alle distorsioni introdotte dalle interferenze analitiche. Ma mentre Barthes sognava di ricondurre la mente della scrittura a quello stato di confronto critico, Lonzi sognava di decondizionare intere società e consorterie artistiche, di riportarle ad uno stato di puritanesimo acritico, ripulito da tutti gli agenti di distorsione della Storia e della scelta – disposizioni governative dell’art pour l’art, barriere mistiche e intrecci di interessi elitari. Il secondo protagonista dell’anti-form, il secondo Doctor no-critica, si chiama “montaggio acritico”, il teologo del mercato proto-maschilista e liberale. Secondo la grintosa Carla Lonzi, lo stato di shock da dissolvimento acritico che caratterizza la politica e l’ideologia dell’Autoritratto rappresenta l’opportunità, anzi il momento supremo di una nuova articolazione neoliberale. Perciò, il regime neo-ideologico dell’a.critica, così come la riscoperta dell’ “Inno a Roma” del neo-fascismo spettacolare di questi ultimi giorni, opera per shock; lo shock dell’assenza di critica ha il compito di deformare e svuotare l’anima. La rende inerme, tanto che essa si sottopone volontariamente a una radicale riprogrammazione.

1. Il gesto nell’album e l’a.critica nel tentativo di «Autoritratto»: Il montaggio, realtà operativa complessa, è anche una realtà linguistica complessa, che sottende una pluralità di funzioni espressive. Il montaggio giornalistico (da registratore) ricompone le interviste in tracce e sequenze tramite attacchi che «giuntano» i diversi discorsi, concetti di collegamento – della coda di un’affermazione – con la testa di una domanda successiva. Da questo punto di vista, si può definire il montaggio come interrelazione di autenticità orale, nesso associativo di contenuti, gesti accompagnati dalla voce tra le diverse dichiarazioni. Il montaggio collega con nastri o piste, registrazioni con registrazioni, unità e autodichiarazioni di un discorso che si apre al biografico; in questo senso lo si può definire principio e strumento di strutturazione narrativa, critica ideologica. Se la registrazione è originaria, essa analizza, riporta la realtà del dialogo, mentre il montaggio editoriale accorpa, raduna, ricompone, riordina i materiali verbali (che di per sé sono territorio e competenza della critica) nella sintesi del progetto prescelto dall’autore o dal curatore. Dalla continuità del discorso reale, si passa in sede di registrazione, alla discontinuità dei discorsi critici, che viene successivamente riorganizzata, con il lavoro di trascrizione, in un nuovo continuum spazio temporale che è la Galassia Gutenberg. Ci chiediamo ora: come avviene il passaggio dal discontinuo al continuo editoriale? quali le giunture e gli strumenti discorsivi, che danno consistenza e unità alla libertà del gesto e alle limitazioni dell’Autoritratto o della testimonianza diretta? Il principio generale di funzionamento linguistico del montaggio, tramite l’assemblaggio, «mette in discorso le sequenze verbali, è identificabile con una logica di implicazione, per cui la messa in consecuzione dei pezzi di montaggio, all’accostamento materiale, la continuità di un pezzo con un altro, provoca inevitabilmente e inequivocabilmente un’impressione di coerenza e di incoerenza, di Album (vedi Barthes di Roland Barthes) o di Autoritratto (vedi il contro-album, senza gesto, di Carla Lonzi). Infatti, una verifica eloquente – ed un poco paradossale – del fenomeno, è fornita da noti esperimenti di cura critica del gesto in album o in forma di assemblaggio acritico, con marchio mistico. 

2. Gesto comune e nonsense, paradosso visivo e razionalità grafica sono da sempre, e per conclamata definizione, concetti e forme mentali simmetricamente antitetiche. La ragione del paradosso e, di riflesso, la paradossalità visiva della ragione, ricorrono però di frequente negli artifizi e nelle fantasie pittoriche della letteratura visiva, in particolare di lingua in lingua e di critica in critica. Insomma, ricorrono in modo così sistematico da rappresentare, atto di trasgressione per eccellenza, la messa in crisi del reale davanti all’evasione fantastica e l’attonita sorpresa dinanzi all’atteggiamento informe (o antiform) delle cose visive e alla loro esuberante indipendenza dai nostri principi intellettuali e dalle nostre codifiche.

Il nonsense, «l’antiform formato», nasconde perciò, per continuare a citare uno dei massimi psicologi del profondo testuale, il concetto di “gestualità altra”, una sorta di anticipazione della fuga in una forma letteraria, in cui le cose non sono orribilmente ritraibili in una eterna appropriatezza formale, dove “le mele artistiche crescono sui peri delle carte musicali” e ogni strano tipo di autore che incontri non ha una carta d’identità, non ha un ritratto, rifiuta un riconoscimento. Il virgolettato è una mia traduzione e commento delle parole di Barthes, e il volume da cui sono tratti i concetti, Barthes di Roland Barthes, è il più vecchio antidoto di questa geniale e inesauribile attitudine all’antiforma dell’Autoritratto, che è l’elaborazione della tradizione “informel”, che si pone contro l’ideologia acritica di Carla Lonzi.

Sorgono spontanee due curiosità di carattere, per così dire editoriale: perché attendere tanti anni per la riflessione italiana dell’opera di un autore pure molto fortunato conosciuto nel nostro paese (si pensi alla Camera Chiara e alle riflessioni sul ritratto a partire dalla madre)? E ancora: come mai inserirla a cominciamento di una discussione sulla validità storiografica dell’autoritratto sospeso di Carla Lonzi, ossia uno spin-off sulla missione della critica d’arte o del non essere più tale, per non essere più accademia e per poi trasformarsi in un racconto-inchiesta su un’azione fintamente partigiana?

Tentare di rispondere a questo secondo interrogativo – il primo è palesemente retorico – consente probabilmente di comprendere il carattere autentico del paradosso e delle ragioni letterarie di Roland Barthes, alla fine di una scrittura e di una pittura anti.forma. Tratti che sono appunto i soggetti dell’itinerario post-strutturalista – già negli anni ’60 – molto distanti dalla svolta del 1969 della stessa Carla Lonzi. L’ipotesi più probabile è che tutte e tre le ragioni che si racchiudono nell’autoritratto lonziano, diversamente miscelato, in una forte dose di irragionevolezza a/critica (che è quella, per esempio, che unisce autori e conniventi dell’assolutismo fanatico dell’Autoritratto, o quelli che ispirano gli ideali del ritratto felice ma visuale) e un marcato senso di banalizzazione della figura del critico e dello studioso (che sovrintende le verbalizzazioni orali di Lonzi e le parole degli artisti rimontate e inserite). Come dire, per tornare a Roland Barthes, il gesto della critica e della scrittura corre perennemente il rischio di essere travisato, che è quanto occorre per giustificare un uso spregiudicato e malevolo della ragione e dello spirito di contraddizione, in una parola del nonsense dell’autoritratto e della pratica antiform. Basta soltanto numerare i temi delle argomentazioni difensive di Roland Barthes: difesa del gesto nonsense, dell’antiform avventata alla fine dell’età informale, degli scheletri identitari (e soprattutto dell’autoritratto), delle storie intime che non mettono per niente in discussione gli statuti del feticismo di parte. 

Quando alla Galleria Notizie di Torino allestisce la sua prima mostra, dedicata a Pinot Gallizio, siamo sicuri che la Lonzi avesse capito di fronte a che tipo di lavoro si trovasse? Durante il suo periodo di frequentazione assidua della scena artistica torinese, nei primi anni sessanta (del Novecento), Carla Lonzi accompagna con controversia difficoltà il lavoro degli artisti di quella generazione, attraverso un rapporto di continui scambi intuitivi e slanci poetici, passioni che nel 1963 culminano nella realizzazione di un documentario realizzato per la Rai, ed espressamente dedicato all’ex farmacista di Alba. Dell’opera del pittore piemontese Lonzi scrive: «La pittura di Gallizio ha radici in un vigore autentico, senza esasperazioni nervose, senza velleità: nel suo attacco diretto, nei suoi violenti richiami emotivi, nel suo invito costante a risvegliarsi dal sonnambulismo della noia e dell’infelicità, fa perno su doti di una saggezza lontana, popolare. Tutte l’esperienza dell’archeologo, del botanico, del chimico, dell’uomo di parte, del contadino (nel senso di un empirismo magico) riaffiora in immagini che sembrano modellate in una istintività irrefrenabile, simbolica della natura stessa. Come per spettatori drogati dal proprio conformismo, Gallizio con la sua pittura accende le grandi luci degli spettacoli popolari, dei luna park, elabora ogni sottigliezza ma all’interno di un mondo brutale, di rivelazione e non di meditazione intellettuale. (…) La grande perizia tecnica, la tensione estrema ma anche naturale del segno, che si muove nelle più eccitate acrobazie ben certo di poter sempre contare su un perfetto atterraggio, la qualità incandescente del colore, fanno della sua pittura un avvenimento nuovo nella cultura figurativa italiana, qualcosa che rompe con il provincialismo delle repliche approssimativamente corrette a quanto ci è venuto dall’America e da Parigi (…)» (dal catalogo della personale alla galleria Il Fiore, Firenze, 18-30 Aprile 1962, in Carla Lonzi, Scritti sull’arte, Et.al, Milano, 2011, pp. 288-289).

Ma l’arbitrio proclamato (in forma di sovrapposizione) dalle parole della Lonzi non si scontra soltanto con il peso della memoria intertestuale. Un’altra forza, più insidiosa nelle sue esigenze espressive, intralcia l’antiform di Gallizio con l’antiform psicologistico della scrittura critica, un’immaginazione tra l’altro estremamente connotata e veicolo – anche in lei – di un pesante nucleo di stereotipi retorici e affettivi. Nella pagina critica di Lonzi su Gallizio, la psicologia mette in moto, apologizzandola, la continua dissociazione tra giochi verbali e ossessioni fantasmatiche, fissazioni che fecondano l’incontro di due opere (operazioni linguistiche diverse). Se nel discorso di Lonzi, molto spesso, la forma linguistica viene sacrificata all’esigenza dell’intreccio, o alla ricerca di un effetto, altrettanto spesso lo è quando dice pochissime cose su Gallizio, usando paralogismi e restando entro stretti limiti.

Nel 1955, quando A. Jorn incontra Gallizio, non mi sembra che racconti di un artista naif, ma di un intellettuale borghese, studioso di cultura popolare (più che di stretta estrazione popolare), teorico del nomadismo, di botanica officinale (oltre che chimico-farmacista), archeologo, partigiano e consigliere comunale indipendente di sinistra. Carla Lonzi mostrando ancora interesse longhiano alla frequentazione di Pinot Gallizio dimostra di non avere una particolare attitudine alla pratica critica d’avanguardia. Se è vero che aveva imparato dal proprio maestro il vaglio storicista dell’Opera, non solo col proprio riguardo ma anche con la propria diffidenza, risentiva però più di quello che lei stessa facesse credere della mitologia longhiana, che finirà per arenare la tensione di Autoritratto. La Lonzi pretende di non limitarsi ai fatti figurativi o speculativi degli artisti, ma vuole spostarsi sull’intimo, sul millimetrico della tessitura emotiva, confondendo biografismo e azzeramento simbolico dell’opera. In questo senso, la Lonzi cerca di dare l’impressione, ormai usurata, di superare la vulgata informale, ma poi non esce per niente fuori da questo binario. Il mestiere imparato da Roberto Longhi si trasforma nella legittimazione di uno scontro, tutto personale, tra il mondo del laboratorio sperimentale di Alba e quello accademico e conservatore del Correggio (ci riferiamo a quello scritto di Longhi: La camera di San Paolo, Parma-Genova, Siglaeffe, 1956). Longhi negli anni sessanta pubblicava su Piero della Francesca, editando le ricerche realizzate tra il 1925 e il 1928; egli non era affascinato dall’iconografia e della ricerca di archivio o dalle analisi schematiche di Heinrich Wolfflin, ma cercava l’intuizione profonda che riassume la personalità dell’artista, investendo sul suo personaggio e il suo divenire, quindi su una sorta di mitobiografia (filologia visiva di impostazione positivista?). Longhi, infatti, al contrario di Benedetto Croce e della sua mitologia poetica, sostiene la specificità dell’arte figurativa intesa come svolgimento degli stili. L’analisi letteraria longhiana dei fatti artistici ha un andamento narrativo quasi da romanziere e il corpo della pittura italiana viene trattato come un’immensa officina e come un fantasma mai fermo da inseguire e da afferrare. Autoritratto (1969) condensa, dunque, le pagine della Lonzi che non corrispondono alla parola degli artisti coinvolti; si tratta di un deposito di fraintendimenti e di rinunce e la pretesa di mettere in autoanalisi ciò che l’età dell’antiform ha smascherato: l’arte che non è più rivolta a se stessa. Le carte d’artista e l’analisi di Jürgen Claus ci mostrano, molto prima del 1969, quali sono le Teorie della Pittura Contemporanea e quanto la rinuncia auto-ritraente della Lonzi sia un percorso strumentale, rispetto al formalismo diaristico dell’antiform e dell’assetto astratto gestuale: «la pittura informale corrisponde ad una realtà informale? Cioè, la pittura informale è stata capace di cogliere una realtà o piuttosto sono i pittori più giovani che si rifanno a un’esperienza informale? (…) … Nello spirito di quanto afferma Paul Valery: la forma è una decisione fondata (…) La pittura informale – come lo stesso termine dice – sostituisce la forma con la non-forma; dove, ben inteso, la forma, come vocabolo tradizionale, è stata infranta e la non-forma, come presupposto tecnico, è stata portata in un ordine nuovo. Determinante è una specie di involuzione nella produzione del quadro: il procedimento creativo della pittura come azione è un punto essenziale di tale arte» (pref. a Teorie …, Il Saggiatore, Milano, 1967, pp.22-23). 

Pietro Consagra

3. Esiste un’affinità fondamentale tra l’Autoritratto e l’atto politico che viene dopo la scelta acritica lonziana. Tale affinità tuttavia può venire intesa in due modi addirittura opposti: si può pensare che l’Autoritratto e l’acritica presiedano alla costruzione di un tutto ben organizzato (la bella rappresentazione organica, il buon ordinamento del disordine), oppure che essi siano affini in quanto affermazioni di molteplicità non organiche – definite dal fatto che le relazioni costitutive tra i loro elementi non sono legami. Si possono pensare l’Autoritratto e l’atto impolitico dell’acritica come eventi fondativi e unificanti, come rappresentativi di una comunità presupposta o postulata, oppure li si può intendere come accadimenti immediatamente universali (o addirittura cosmici) che, prescindendo le partizioni dominanti, liberano la potenza affermativa dell’informale. Alla declinazione di questa potenza, sulla scorta di Teresa di Lisieux, di Elemire Zolla e Cristina Campo – nel ’69, quando gli artisti di Autoritratto sono tutti sulla cresta dell’onda e tutti si stendono sulla passerella delle grandi vedette – Carla Lonzi dedica questo curioso scivolamento semiologico all’art pour l’art, tra i cui meriti spicca anzitutto la fermezza concettuale ed espositiva dell’acritica, a riprova del rigore intrinseco che la scrittrice ascrive allo stesso argomento trattato: l’antiform come azzeramento dell’analisi. Sin dalle pagine progettuali, fra gli intenti precipui dell’allieva prediletta di Longhi, vi è infatti quello di delineare non solo le fondamentali differenze tra forma e informale della critica, bensì anche quelle esistenti tra il campo dell’informale estetico e il fondo indifferenziato dell’informe, che si nasconde nella cifra in gestazione o in maturazione (degli artisti). A partire da Longhi, l’autrice chiarisce immediatamente che solamente nell’ambito di un interesse del pensiero formale può darsi l’indistinzione tra piano dell’informale e fondo oscuro e indifferenziato dell’informe. Ma l’informale critico, non scritto (oralizzato dalle fantomatiche registrazioni dal ’62 al ’68), dialogato, montazionale e registrativo, di cui la forma non è che una sovradeterminazione selettiva, è al tempo stesso un “di più” rispetto alla forma stessa e un “di meno” rispetto all’informe, poiché l’informale non è energia indifferenziata ma la potenza determinata della vita e dell’essere, un campo di forze in equilibrio metastabile. È il piano d’immanenza, che non è contenibile in una comunità indifferenziata di autoritratti, nella superficie liscia, su cui tutto si gioca e si disloca continuamente, il piano trasversale che si riconosce nell’improvvisazione jazz o nella critica di Emilio Villa o in quella di Jurgen Claus, dov’è? Il libro delle Teorie di Claus, oltre ad offrire un incontestabile utilità documentaria, porta un notevole contributo di chiarimento problematico nell’ambito della letteratura internazionale sull’Album informale alla Roland Barthes (Album: Inédits, correspondances et varia, 2015,di R. B., a cura di E. Marty e C. Coste, Seuil, Paris, 2015), inserendosi in essa con una fisionomia assai precisa e caratterizzata. Ne risulta una delineazione dell’informale che ne precisa le motivazioni da un osservatorio interno, ponendosi – prima della verbalizzazione longhiana-lonziana – all’origine stessa dei suoi processi figurativi e che permette di spiegare la spontaneità sorgiva delle costanti di fondo, che emergono con singolari affinità e corrispondenze parallele in tutti i testi degli artisti presi in considerazione: dalla componente automatista, alla prevalenza e puntualizzazione dei fattori esistenziali; dall’organicismo all’attivismo pragmatico; dalla materia al rischio, al presente, all’ambiguità. Va inoltre tenuto presente che Claus, oltre che critico, è anche pittore (un modo di vivere l’esperienza artistica diffusa in Europa e praticata, per esempio, anche da Hans Platschek, fondatore della rivista Clima, o da Roland Barthes): ciò spiega il suo particolare interesse per le testimonianze degli artisti, quali puntuali individuazioni dei caratteri e dei valori critici delle opere in particolare e della poetica in generale. Il contenuto sensato in quanto tale, cioè indipendentemente dalle sue forme logiche e poetiche, può essere oggetto della percezione estetica e quindi essere origine del piacere estetico-politico? Se capiamo completamente la contrapposizione della forma al contenuto, allora la risposta in favore delle sole forme risulta categorica ed indubitabile. In realtà a partire dall’opera aperta, tale risposta essendo “open” è contemporaneamente fittizia. 

Autoritratto ruota attorno al concetto-chiave di metamorfosi del potere interpretativo in potere apologetico dell’arte. Metamorfosi vuol dire trasformazione del successo dell’opera e dell’oggettività di essa in successo della soggettività meta-curatoriale, in scrittura d’arte che non è costretta a passare attraverso i premi e le legittimazione dell’industria culturale: “I pittori imparano a vivere con gli speculatori e i finanzieri, e con loro si allarmano degli avvenimenti politici – elezioni, minacce di colpo di stato, voci di guerra – che potrebbero far fluttuare l’andamento della borsa. Quando questo è negativo, il mercato dei quadri ne subisce immediatamente il contraccolpo […] Pissarro segue sempre più attentamente le crisi del capitalismo americano, dato che gli Stati Uniti sono divenuti, grazie all’attività di Durand-Ruel, il principale mercato degli impressionisti e di tutta l’arte moderna” (Jean Gimpel, La religione dell’arte si integra nell’economia capitalistica, in Contro l’arte e gli artisti. Nascita di una religione (1968), Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p.165).

Nella trasfigurazione dell’Autoritratto, le immagini e i pensieri degli artisti, seppur famosi, sprofondano, per così dire, l’uno nell’altro. L’uno appare dentro l’altro fino a sostituire i discorsi, come una sovraimpressione che, a poco a poco, si dissolve nell’ombra mitologica pianificata dall’ultima parola dell’Autoritratto: Carla Lonzi ipse dixit! Le apparizioni del fallimento della critica, per la storica dell’arte avevano spesso questo carattere e sembrano generarsi da apparizioni e santificazioni precedenti; all’universo, si presentano anche angosciosamente avviluppate l’una dentro l’altra senza che sia possibile districare le forme sovrapposte. Ma non sono solo le immagini degli artisti famosi ad avere questo carattere, tutto il divino convivio anti-critico è concepito così. Nella relazionalità con la critica, la connivenza con l’establishment sistemico, la pena del contrappasso rimanda continuamente, come un prisma ottico, alla mitobiografia capovolta. La discesa nel cuore dell’Autoritratto porta automaticamente ad un capovolgimento politico e spirituale, che ci catapulta nell’estremo opposto dell’emisfero apologetico: l’art pour l’art all’ennesima potenza. Nell’autoreferenzialità, l’ascesa sul monte del primato proietta noi umili lettori attraverso l’espiazione dell’arte non-decorativa, dove l’esperienza del transumanar (in curriculum di successo) tocca il suo vertice, per poi rispedirci di scatto “sulla mostra del rimorso”, la navicella spaziale che non è stata presa di corsa dagli agenti del sistema. Ogni criticità cambia nel suo contrario con una rapidità impressionante. Ogni cosa rinasce contro la critica, con un parto drammatico: la preparazione della scena dell’abbandono. Ogni racconto sull’opera si rinnova in una strategia di giunture, questo processo è così immediato, così fulmineo, così naturale che non ci chiediamo se avvenga davvero la trasformazione e l’emulazione di fondo che Susan Sontag annunciava, nel 1964, ad ogni verso di Against Interpretation. In realtà, il travaglio che porta Carla Lonzi, spigoloso, si protrae per tutta la sua vita, con continui aggiustamenti anti-critici e continue applicazioni del “vai pure” che non rimettono in discussione l’immagine di culto raggiunta. La scrittrice senza critica cerca di essere una figura mitica, ma non ci riesce. Nuovo … (senza critica) un aggettivo carico di autoreferenze, risonanze psicologiche misteriose che hanno fatto fuori la forma artistica e il linguaggio come la santificazione della no-critica. Questo peso apologetico ci accompagna martellante dalla prima poesia all’ultimo scritto monografico della Lonzi su George Seurat (1966) e Mario Nigro (con Paolo Fossati, 1968), dalla vita storico-artistica nel territorio magico dell’arte alla vista nova del qualunquismo e dell’azzeramento critico. Non indica certo una novità interiore, il nouveau assimilato dagli artisti famosi impegnati in catalogo (si fa per dire la compilation di Autoritratto), piuttosto la Lonzi sta lì a guardare au fond de l’inconnu e decidere a chi sputare. Sottolinea l’idea bigotta di redenzione, attraverso la conversione interiore dall’arte informale all’arte concettuale e minimale e il rinnovamento cosmico contro la Storia e la Critica d’Arte che, sull’esempio della blasfemia, per la seconda volta farà nuove tutte le cose che convengono alla macchina del successo e della mondanità. Un ideale connaturale all’industria culturale cui la Lonzi, subliminalmente, pensa di aspirare o di farne parte sulla soglia. Una strategia che sembra così logica, così spontaneamente ostentata, da meritare le parole di Pasolini rivolte ai giovani e ai vecchi della neo-vanguardia e a un’intervista di Roland Barthes: “ … il senso è una tale fatalità per l’uomo, che l’arte, in quanto libertà, sembra adoperarsi, soprattutto oggi, non a fare del senso ma, al contrario, a sospenderlo; non a costruire dei sensi ma a non riempirli esattamente” (PPP, La fine della neo-avanguardia, in Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1995, p. 139, 1966).

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