A ridosso dei “Climate Social Camp” (prima parte)

Ultimata la colonizzazione geografica, i poteri forti del mondo globalizzato stanno ora lanciando una colonizzazione dello spazio organico che, grazie a bio.tecnotensioni e a “nichilismi standardizzati” – capaci di manipolare, dal mais alla persona, dal clima alla vita del pianeta, le strutture geopolitiche – sta portando a brevettare la vita. Questo nuovo ciclo di articoli, avvia una riflessione sulle politiche ecologiche movimentiste contro la fuffa dell’esperimento land-artistico (l’infrasottile estetico), proponendo forme di critica capaci di coniugare dialogo scientifico, contingenza dell’allarme climatico e coscienza sociale. Disponendosi negli interstizi, nelle zone liminali, l’ultrasottile (l’ultrasottile etico) del dibattito e della pratica libertaria, come quella del Climate Social Camp, esiste la possibilità di creare la pressione necessaria per aprire le fortezze della militanza, ottenendo pubblico accesso alle iniziative e alla formazione di politiche mediali, che riguardano tutti e possono arrivare a tutti. Nasce così una riflessione resistente, che consente di lavorare per la “comunanza” fra le forze della liberazione.

Dormo nella calura di un luglio infuocato, quando squilla lo smartphone e mi sveglio. Stento ad aprire la telefonata, l’afferro e sento una voce insolita che mi fa trasecolare: “Elias è partito per il Climate Social Camp? Sono un attivista del Gruppo di Torino”. “Un attimo, le passo qualcuno che prenda la telefonata con attenzione, e soprattutto è in grado di ascoltare!”, è solo quello che riesco a dire, mentre una sensazione di autocritica mi assale.

Mille pensieri mi passano per la mente e mi chiedo che cosa c’entrano le telefonate ai parenti dei militanti con il “camp” che stanno preparando, con quella «vibrazione movimentista» che ti coinvolge e ti sconvolge, indipendentemente dalla tua volontà. Ci sarà qualcuno che vuole impedirlo, che vuole sospettarlo, che vuole farti chiedere più del dovuto? Forse qualche mio collega universitario, il direttore di dipartimento, preoccupato che Elias possa offrire un’immagine della “nostra area di espressione politica”, o forse qualche Don Rodrigo di manzoniana memoria che ha ordinato: “al Climate Social Camp né domani, né dopodomani, fuori gli ecologisti/autonomi dall’area democratico-liberal-progressista”. Sono pochi istanti, ma l’animo si affolla di pensieri strani e sinistri: «Amianto killer? Nessuno è al sicuro: a 30 anni dalla messa al bando, siamo ancora invasi dal minerale tossico. Case, scuole, ospedali, fabbriche. Settemila morti l’anno e bonifiche ferme al palo. Il recovery fund? Non pervenuto. La mappa dei siti contaminati, solo in Italia è infinita: Porto Marghera, Balangero (To), Casale Monferrato(Al), Broni (Pv), Ex Ilva di Taranto, Milazzo (Me), Priolo (Sr), Porto di Trieste, Ex Fibronit di Bari, Litorale Domitio Flegreo (Ce/Na). Gli 850 abitanti di Larderello, minuscola frazione della Val di Cecina, possono vantare un record planetario: nel loro paesino si produce il 10 per cento dell’energia geotermica mondiale. Sulle colline della provincia pisana si contano più di trenta centrali Enel. Lo scorso 24 novembre il Tribunale di Pisa ha condannato Enel a pagare alla famiglia di Fedeli (ex dipendente della Valle del Diavolo) danni per oltre 800 mila euro. Il decesso di Fedeli è dovuto all’amianto respirato durante gli anni di servizio in quel comparto produttivo. La parola amianto deriva dal greco e significa “incorruttibile” (elevata resistenza al fuoco e alle alte temperature). In Italia i siti contaminati sono 108 mila, ma la mappatura viene ancora occultata. Le organizzazioni ambientaliste contano almeno 370 mila edifici contenenti amianto: 29 mila siti industriali, 50 mila edifici pubblici, 214 mila edifici privati, 250 ospedali e 2300 scuole, il che significa che ci sono 350 mila alunni e 50 mila fra insegnanti e personale tecnico-amministrativo esposti alle contaminazioni. Come ha sottolineato il rapporto Inail: l’Italia è uno dei paesi al mondo maggiormente colpiti dall’epidemia da amianto. Il mesotelioma: uccide entro un anno dalla diagnosi e solo in Italia provoca circa 2000 morti all’anno. Il picco di questa “strage silenziosa” è atteso tra il 2028 e il 2030. Riscaldamento globale: le tempeste si abbattono violente su stabilimenti balneari e centri abitati, chicchi di grandine come proiettili sparati a oltre 100 chilometri orari crivellano le cabine, sfondano le passatoie e le tettoie. 

La voce da Torino spiega: Olocausto climatico: la fine delle più grandi foreste del mondo è la diretta conseguenza del riscaldamento terrestre. Solo in Texas e in california 500 milioni di alberi sono morti dal 2010 ad oggi. In Europa, invece, la siccità si è intensificata a partire dal 2018, provando un esteso deperimento dei faggeti tuttora in corso. Nel 2005 nelle foreste umide tropicali del bacino dell’Amazzonia e nel 2011 con un deperimento senza precedenti nelle foreste di Jarah dell’Australia sud-occidentale. Si calcola che con un aumento della temperatura di 4°C la mortalità delle aree boschive aumenterà del 140%. Con un aumento della temperatura globale di 2oC, la mortalità delle foreste aumenterà del 22 per cento, fino al 140 per cento se l’aumento è di 4oC.».

Quindi, come spiegato dall’attivista di Torino al telefono: “Il nuovo film di Cronenberg pensa a ritrarre il paesaggio del Crime of the Future! Crime of the future cerca di rispondere alle domande posteci nel Friday for Future e intercetta così il terrore impellente di affrontare il presente mentre lo viviamo, di analizzare i nostri gesti reconditi mentre li compiamo. Cosa accadrà, quando tutte le atrocità in stile ballardiano (rif.James Ballard scrittore) ambientate in un futuro inquietante, in cui il corpo delle persone cambia facendo pensare ad una fase evolutiva post-umana? Il dolore è un ricordo del passato (è oggetto di nuove perversioni), il piacere, il disgusto, la paura è irriducibile a parole, ma è comprensibile, quantomeno in parte, per immagini. Gli artisti sono dediti a sviluppare nuovi organi e vengono coltivati e usati per le performance. Se meno di vent’anni fa erano evidenti lo smantellamento delle sicurezze, o la frammentazione del mondo, una vita sempre più frenetica e la trasformazione da cittadini a consumatori, quello davanti a cui ci troviamo è un passaggio ulteriore: il nuovo sex appeal dell’inorganico è irrespirabile (inquinato), un crocevia di strade possibili che rischiano di  degradarsi in massa e senza valutare tutte le implicazioni – soprattutto quelle attaccate alla morale – dato che dobbiamo scegliere in fretta. La tecnica ci permette di manipolare la nostra base biologica in modi impensabili, causando uno sconvolgimento dell’ecologia della mente, oltre che della materia energetica.”. 

Il giovane attivista continua dicendo: “C’è poco da illudersi. La catastrofe che ha  sconvolto il mondo ha sconvolto anche noi. Abbiamo vissuto sottoterra per generazioni. Poi siamo usciti, vorremmo uscire, vorremmo abbandonare la mitologia dell’underground. C’era un deserto di cenere che divideva il movimento del ‘77 da noi tutti. Il fatto che era sparito tutto, ma tutto ha urgenza di ricominciare! È questa la ragione per cui vorremmo unirci e vorremmo trovare una sorta di «nuova coerenza». Un movimento grande e diffuso come il nostro ha bisogno di riflettere sulle proprie strategie e su come migliorare: farlo di persona, conoscendosi al di fuori del mondo virtuale, è il modo migliore. Discutere di problemi e opportunità è un modo per rimanere uniti e rendere la nostra voce ancora più potente. Il Climate Social Camp sarà uno di questi momenti: una settimana di incontri, gruppi di lavoro e attività per discutere del futuro della mobilitazione, concentrandosi sulla sua decolonizzazione e sulle sfide climatiche che molti in tutto il mondo, in particolare i MAPA (Most Affected People and Areas / Persone e Aree Più Colpite), stanno già combattendo e vivendo. Il Climate Social Camp sarà un momento di confronto tra attivisti, ma non solo: sarà una settimana di condivisione, attività, musica, concerti e molto altro ancora, per vivere insieme lo spirito della condivisione ecologica. Per vivere insieme lo spirito di comunità e di prossimità che anima la nostra lotta.”.

La questione era semplice e senza biglietto di accompagnamento: era stato necessario afferrarla per capire a chi fosse indirizzata; ora, il resto delle informazioni, gli attivisti le avrebbero mandate a casa per una delle riviste reduci dell’area della “sinistra dannata” o delle fanzine del “Bada Diy Fest”.

Non ho più voglia di dormire e sono eccitato per questa storia di cui desidero afferrare meglio il bandolo. Il compagno di Elias, a cui apriamo dopo poco la porta, ci consegna un piccolo plico di riviste, peraltro molto ben fatto e disegnato, così senza confezione e con un biglietto dedicato ai conviventi di Welcome.

Il giovane ci racconta la storia con una dovizia di particolari che ha dell’incredibile, parafrasando L. Althusser: “L’ecologia è unita alla politica come le labbra ai denti”.

Che dire! Mi sembra essere questa la frase che dà la chiave di volta al vigoroso pamphlet Most Affected People and Areas. Il lettore se la ritroverà davanti molto più in là, all’inizio della Nota critica. Ma proprio perché in questo scritto l’attivismo aggredisce con i denti della politica gli ecologisti idealisti di tutte le tendenze, voglio chiarire subito il mio punto di vista sulle finalità recondite della risposta, di qualsiasi risposta al movimento del Climate Social Camp. Questa aggressione trova il suo punto alto d’ispirazione nelle labbra del movimento, che, col suo fraseggio scolpito, al limite dell’ossessione iterativa, indirizza, e al tempo stesso smorza, la sua vis polemica sui Festival più celebrati dell’industria culturale. Jova Beach Party, a cui il pamphlet è formalmente indirizzato, è solo la figura retorica di un plot festivaliero, che l’attivismo meditava da tempo nei confronti di una cattedrale dell’inutile, a cui non avrebbe forse riservata tanta attenzione se, ai suoi occhi, questi celebrati raduni, queste macchiette dei Festival Pop degli anni 60-70, non avessero avuto il grave torto di voler accreditare finte scelte ambientaliste, in nome di un ecologismo fantasma e radical chic. Occorre storicizzare, occorre riprendere in mano del sano materialismo storico, al di là di quello che possono pensare o diffondere i popperiani di turno!

Siamo nell’estate torrida del 2022. A ridosso delle più grandi convulsioni sociali e politiche che il secolo XXI abbia conosciuto: la più prolungata “maggioranza silenziosa e disoperaia”, la classe più schiavizzata e sottomessa al Capitale Liberale, che la storia ricordi; le rivendicazioni diseguali del civilismo liberal di genere; i massicci spostamenti a destra, specie in Francia e in Italia; il summit di provocazioni dei paesi allineati ai due blocchi Est-Ovest; i primi scricchiolii all’interno delle arrugginite strutture dei movimenti di liberazione, le idee di leader che pensano di ristrutturare la sinistra con l’aiuto della destra. Quel mondo, quegli eventi, stimolavano grandi svolte e grandi regressioni, nuovi progetti irrisolti, endemici sommovimenti ideologici, inedite o ritornanti speculazioni ideologiche del “nuovo dominio liberale”.

La grande riflessione critica si divideva a quei tempi fra le maestose note della Setta Post-moderna e i vari afflati umanistici dello schieramento di facciata protomodernista. Sull’altra sponda dell’Atlantico, qualche leader del movimento di genere, come una navigata surfista, dominava sull’onda lunga della rivolta movimentista (anti-monumentale), colorando di nuove suggestioni il fascino della trasgressione. Di qua dell’Atlantico, il Bioma dell’attivismo, solitario guardiano di una doppia ecologia (mente/corpo), che stava già per essere dissacrato e saccheggiato, sfoderava la spada affilata della polemica autotrofa, per organizzare l’ultima resistenza. E lo fa, si illude di farlo, con le armi della logica, con il rigore dell’esercizio critico, che spesso si ritorcerà contro se stesso.

Commette, allora, lo stesso errore di qualsiasi altro militante ortodosso nei confronti delle “istituzioni sistematrici”. Vuole rivendicare l’ortodossia del suo attivismo sapendo che le istituzioni e gli organi della stampa, anche quelli che nella “piccola sinistra” si ritiene o “è ritenuta” più libera, tiene stretto il contro-potere sia della governance che dell’alternativa.

L’attivismo, che, fra i tanti meriti acquisiti sul campo, ha anche quello di aver descritto con tanto acume gli apparati ideologici della cultura di destra (a destra della cultura di destra a sinistra e viceversa), commette l’errore (rapportato all’epoca) di sottovalutare il peso egemonico del riduzionismo ecologistico internazionale. Apparirà perciò ingenua la sua domanda, sul perché gli ambientalisti alla Jova o alla Greta siano tanti e i Friday for Future all’aut.Op siano pochi. Il potere si situa, si radica, si ramifica, tanto più capillarmente, quanto più può appellarsi alla tradizione dell’ambientalismo conservatore, per farne, esso sì, un sinonimo di ortodossia. Ma a parte ciò, è la difesa dell’ortodossia conservatrice-ambientalista che, a mio avviso, suona falsa sulla bocca della Soggettività Attivista Biomatica. Il suo, diciamolo subito, è un ecologismo politico, e nel senso più radicale del termine: il fatto stesso di andare a caccia delle più piccole sviste, debolezze, aporie all’interno dell’imponente eco-marxismo o eco-feuerbachismo la dice lunga. E la sua è una qualità che i biomi-digitali dovrebbero apprezzare, se vogliono coniugare la loro vocazione NO-TAV con i parametri della scienza. Una qualità che si riscontra in tutta la “pratica teorica” di Bioma: una persona plurale – soggetto, agente, qui non ha molta importanza – determinato quanto si vuole (come ognuno di noi) dalle circostanze materiali, ma sempre pronto a correggere i propri errori, a raddrizzare le inevitabili curvature che il suo pensiero ha dovuto assumere, sotto la sfera degli eventi. Nel mio Per un’ecosferosofia avevo dedicato al Bioma molto spazio: in parte per manifestargli la mia gratitudine per avermi aiutato a sciogliere (grazie al suo concetto di surdeterminazione ecologica) uno dei nodi più controversi del concetto di “sovrastruttura ambientalista”; più spesso per avanzare i miei dubbi sui criteri troppo gerarchici, con cui in Nel tempo dell’Adesso avevo risolto il rapporto teoria-prassi.

A distanza di pochi mesi (20 febbraio 2022), mi sono sentito assai gratificato nel ricevere da Bioma una lunga lettera. Dopo gli apprezzamenti di rito per il mio lavoro in Per un’ecosferosofia e la mia cura degli scritti di Felix Guattari e la mostra sulle Nuove Alleanze, candidamente mi confessa la sua sorpresa per avere io prestato tanta attenzione ai suoi provocatori interventi. Poi, con discrezione, a differenza del tono di Elias, mi spiega che il suo concetto di pratica teorica non era destinato a risolvere il problema più generale del rapporto teoria-prassi ecologista, ma ad ottenere, “in tempi così difficili”, l’autonomia relativa della teoria e conferirle quel carattere “pratico, attivo, materialistico, di rottura con la sua rappresentazione tradizionalmente idealistica” che si trova anche in quel saggio di Franco Piperno, Pilotare il clima planetario: un disegno autoritario (sinistrainrete.info). È la riproposizione, con parole meno solenni, del concetto forte di politica come lotta di classe nella pratica militante, che il lettore troverà nelle pagine successive. Ma, intanto, desidero sottolineare il dato caratteriale dell’interlocutore: una persona in permanente tensione fra la necessità di affermare con forza le sue intime convinzioni e il dovere di prestare l’orecchio a qualsiasi critica proveniente sia dalle confutazioni altrui, sia dalla storia dei fatti e dal cambiamento ambientale e politico in atto.

Lo dimostra la citazione, nella lettera che ho ricordato, della metafora feuerbachiana del bastone da raddrizzare ogni volta che si incurva troppo da un lato. Ma lo dimostrano soprattutto i continui aggiustamenti di tiro, riscontrabili anche in questo avvicinamento, con note, osservazioni e continui aggiornamenti giornalistici. Un attivista raro, dicevo prima. Unico, vorrei precisare, adesso che sono costretto ad assistere ai camaleontici travestimenti dei maîtres de l’activisme écologique, o alla chiacchiera a ruota libera dei monopolisti del sapere mediatico, dei curatori apologeti delle strategie engagé di Documenta Kassel, Biennale di Venezia e Quadriennale di Roma.

Ma torniamo alla pratica di Bioma, e il lettore non me ne voglia se mi lascerò andare in qualche riferimento di troppo o di autoreferenzialità concomitante. La frase con cui ho titolato il mio racconto esprime già la stretta connessione che Bioma vede fra politica ed ecologia. Una connessione però che, si badi bene, non implica una posizione ancillare della politica verso l’ecologia o viceversa. A dispetto della sua sprezzante ironia verso gli ambientalisti della cattedra, Bioma è pur sempre un insegnante e un ordinario di ecologia politica radicale. Ora, chi conosce l’imprinting illuminato sa benissimo che l’ultima libertà che un ricercatore universitario può concedersi è quella di subordinare l’autonomia della propria ricerca al primato di un’altra forma (specifica) di conoscenza, fosse pure quella ecologista più giusta. E del resto, il Nostro soggetto Parlante in Per un’ecosferosofia, nell’introduzione a quell’appuntamento editoriale del ’94, dirà proprio che, all’interno del materialismo ecologista, c’è il rifiuto ragionato della morte della politica o dell’ecologia. Una ragione, però, che lo porta ad assegnare all’attivismo una doppia possibilità: “agire sulla tecnologia, sia in senso progressivo che in senso regressivo. La pratica politica ecologista, le tesi del binomio Benjamin-Guattari, non solo non contraddicono la scienza della storia di Feuerbach, ma l’arricchiscono di nuovi concetti. La ragione porterà più avanti Bioma a ripetere l’autocritica  già operata nella prefazione all’edizione italiana di quel documento del CSC, tenendo distinte la rivoluzione ecologica dalla rottura epistemologica. Solo la seconda ha a che fare con la tecnologia e in Feuerbach la prima farà da buttafuori della seconda.

Detto così, nel «lettore» potrebbe nascere il sospetto di trovarsi di fronte ad una sorta di tautologia. In realtà nel testo dell’Attivista i passaggi sono parecchi, anche se a volte così insistenti da provocare qualche moto di insofferenza. Va, in ogni caso, dato atto a Bioma di aver ribadito, anche in questa risposta (lo aveva anticipato nel documento precedente del Climate Social Camp), che il “particolarismo politico-climatico” non è un programma politico, non ha un oggetto isolato, non ha una storia separata (nel senso scientifico e materialistico delle parole), ma è «arte del governo» nella teoria e nella pratica ecologica:

“È quel genere di anello ricorsivo, che collega l’evoluzione del sistema a quella del mondo vitale e che fa evolvere l’uno mediante l’altra, su cui Rainer Land ha continuato a lavorare, elaborando tra l’altro, il modello di una politica di ristrutturazione ecologica. Questo collegamento a doppio senso (ricorsivo) conduce e obbliga gli insiemi microsociali a pensare riflessivamente i loro propri fini come espressioni locali di fini universali, e il loro “bene comune locale” come la forma locale particolare del “bene comune generale”. La mediazione politica non è, in ultima analisi, nient’altro che questo lavoro mai ultimato, che cerca di produrre l’universale e di tradurre i bisogni in termini di diritto, mettendo i bisogni di ciascuno in consonanza con quelli di tutti; e inversamente” (A. Gorz, Uscire dalla società salariale IV, in Miseria del presente, ricchezza del possibile (1997), Manifestolibri, Roma, 1998-2009, p.138).

Rimane, però, la questione del posto che la teoria politica occupa nella scala delle pratiche ecologiste. Ma, a differenza di quanto si poteva leggere in Per un’ecosferosofia – dove veniva collocata al vertice di tutte le pratiche e scritta con la P maiuscola, prendendo addirittura il posto dell’ecologia materialistica – qui la teoria politica, anche se nell’accezione più alta di semiotica della critica ideologica (alla Ferruccio Rossi-Landi) non è mai pura. In essa permane la tendenza dominante generata dalle sue interne contraddizioni ricorsive, come dice André Gorz. Non si sono mai anticipate le infermità scoprendo gli individui che ne sono affetti, ma agendo, a livello della collettività, sull’ambiente, i fattori sociali e psicosociali che accrescono la vulnerabilità alla patologia e indeboliscono la resistenza degli individui alle aggressioni esterne. La sanità è essenzialmente un equilibrio tra gli agenti [patogeni] ed i loro ospiti. Essa dipende dalla capienza che ha l’individuo di mantenere un rapporto moderatamente stabile con il suo ambiente … Il problema è sapere come siffatta capacità possa essere aiutata (ne parla André Gorz, in Ecologia e Politica [1975], commentando J. Cassel, tr.it. presso Cappelli, Bologna, 1978, in particolare p.156; oppure ce l’ho riconferma in Archivo della Revue Critique d’Ecologie Politique: http://ecorev.org/spip.php?article641).

A mio avviso, si tratta di una rettifica molto importante, che fa cadere un’altra forzatura critica che anche ai nostri giorni si sente ripetere: quella della mancanza in Bioma del senso del post-dialettico. Qui mi limiterò ad accennare ai problemi dello scetticismo e delle contraddizioni che accompagnano il suo lavoro sull’attivismo ricorsivo. Chi come me ha avuto la fortuna di scambiare con lui direttamente, sa che Bioma è l’incarnazione stessa del dubbio e ne è profondamente consapevole. Voglio dire che nessuno più di lui viveva il dubbio come compagno inseparabile della sua pratica attivista. E lo scetticismo lo spingeva a fare spazio, talvolta eccessivo, alla ricerca delle contraddizioni all’interno della sue stesse tesi. Questa ansia metteva in moto il suo irrefrenabile stimolo di continua elaborazione delle pratiche di lotta e di azione. Ma, a parte le personali sensazioni, sta di fatto che in questo Documento sull’Attivismo la duplice natura delle qualità politiche dell’ecologismo viene continuamente ribadita, pur affermando il primato dell’azione politica reale su manifestazioni veicolate dal sistema dell’arte, come forme di land art o di earth art. Ma torniamo per un momento sulla pretesa che, in questa Documentazione, Bioma rivendica che il suo pensiero politico rappresenti l’ortodossia attivistica organica. 

L’attuale ritorno all’azione politica prende la parola in un senso evidentemente sfumato, ma certamente più vicino ai nuovi movimenti di base che alle astrazioni dell’industria culturale. In verità, l’etica attiva designa oggi un principio, che pone la partecipazione politica in rapporto con quel che succede; sarebbe a dire una vaga regolamentazione delle proposte e delle azioni movimentiste nelle situazioni di cronaca sociale e nelle situazioni mediatiche (etica della comunicazione e della trasformazione). Invece di legare l’etica dell’azione alle categorie artistiche astratte della cosiddetta arte relazionale, la si rapporterà a delle situazioni di aggregazione politica reale. Invece di farne una dimensione di progettazione mitologica e rappresentativa, sperimentata in maniera noiosa e confusionaria da diverse Documenta Kassel, se ne farà la massima durevole di processi singolari. Invece di tirare in ballo la conforme coscienza conservatrice e sistematrice dell’ambientalismo modaiolo, si tratterà intervenire sul destino delle verità di classe. Questo ritorno alla vecchia dottrina dei diritti naturali della persona è evidentemente legato al crollo dei progetti di trasformazione e di liberazione di tutte le figure dell’impegno demo-radicale. Privati di tutti i riferimenti collettivi, spodestati dell’idea di un senso della storia ecologica, non potendo più sperare in una rivoluzione sociale che accompagni a sé anche una lotta di classe, numerose «intelligenze collettive» (e non mi riferisco a quella di Pierre Levy), e con loro vasti settori della sfera pubblica e mediale, hanno aderito all’economia di tipo capitalista e alla strategia lib-dem del potere. Nella pratica politica militante attuale, essi hanno riscoperto le «apparenze dell’ideologia relazionale postmoderna»: l’individualismo umanitario e la difesa liberale dei diritti dei pochi, contro i bisogni e le necessità dei tanti. Piuttosto che cercare i termini di una nuova politica di emancipazione collettiva, essi hanno, insomma, adottato le massime dell’ordine occidentale costituito. Così facendo, essi hanno disegnato un violento movimento reazionario e distopico, che senza dichiararlo si muove per azzerare tutto ciò che negli anni ‘60 e ‘70 era stato pensato e proposto, tendendo a stabilizzare la forma definitiva del capitale tossico.

L’ecologia, come a tutti è molto noto, è un capitolo della biologia e non potrà mai essere un capitolo definitivo della storia dell’arte. Chi vuole ipotizzare una gestione di questo ambiente, che lo difenda dagli inquinamenti, dalla degradazione e dalla fine dell’organico-naturale, deve pensare di più ad interventi come il Climate Social Camp, anziché alle installazioni di Dennis Oppenheim. Infine, c’è l’apprendimento amatoriale del linguaggio e della letteratura dell’area specialistica di cui ci si occupa. Abbiamo imparato che gli esperti sono abbastanza pazienti e felici di svolgere un lavoro in chiave relazionale, ma si aspettano qualche sforzo da chi è più socialmente attivo. Per fare “ricerca politica”, c’è bisogno di una preparazione adeguata, che talvolta sarà ricompensata, ma soprattutto non si deve limitare a gestire l’epigonismo dell’arte sociale degli anni sessanta-settanta. Creare queste connessioni e organizzarsi non è difficile, per chi è interessato alla «biopolitica contestativa». Bisogna stringere le cose nelle proprie mani e di ceto e non seguire la strada del sistema dell’arte, sia quello di destra che quello di sinistra. La storia dei sostegni tra arte e scienza-ingegneria è piena di esempi in questo senso: la Walt Disney e Claes Oldenburg sono un caso ideale di collaborazione sancita istituzionalmente e fallita. Sono meno frequenti i casi di artisti come il piccolo gruppo dei WokenKlausur, che esordì nel ‘93 con una mostra-progetto che interveniva sul «problema dei senzatetto viennesi»(1993: Intervento della Secessione di Vienna per fornire assistenza sanitaria ai senzatetto. Il progetto ha creato una clinica mobile che fornisce assistenza sanitaria gratuita a oltre 700 pazienti al mese;vedi il mio: art.comm, Castelvecchi, Roma, 2002). La saggezza politica suggerirebbe: “Lavora con i gruppi per fare azione politica e non fare dell’azione politica un ready-made altrimenti finisci in un Museo”. I nuovi agenti della bioresistenza si situano in uno spazio laterale come quello di Torino, in cui l’happening politico prevale su quello artistico. Ci si deve appropriare del capitale artistico fino a una certa misura, sia a livello della conoscenza che a livello materiale e umano: un’impresa parassitaria come il ready-made è dovuta alla mancanza di un sistema di liberazione pubblica (vedi: Effetto Duchamp (prima parte) – segnonline; Effetto Duchamp II (seconda parte) – segnonline; Effetto Duchamp (III) – segnonline; https://segnonline.it/effetto-duchamp-iv/). L’esempio di Documenta non è una strada ripercorribile, né lo è nella maggior parte dei casi, lavorare con le istituzioni. Eppure, una appropriazione non sancita è possibile. Disponendosi negli interstizi, nelle zone liminali tra arte e politica, nell’ultrasottile del realismo sociale, esiste la possibilità di creare la pressione necessaria per aprire le fortezze del potere, ottenendo pubblico accesso alle critiche e alla formazione di politiche che riguardano tutti.