Un “artista complementare”: Gino Di Maggio

L’anno scorso la Francia lo ha festeggiato con una grande mostra, in cui opere di “suoi” artisti venivano per la prima volta presentate in modo sistematico. In Italia, tuttavia, è poco noto. Classe 1940, siciliano d’origine e milanese d’adozione, Gino Di Maggio occupa un ruolo di primo piano sulla scena artistica internazionale. Il nostro colloquio reca una dimostrazione sintetica dei percorsi in cui Gino si è addentrato. Con uno spirito, indomito, di “artista complementare”.

Come è nata la tua collezione?
Definire “collezione” quello che ho raccolto durante questi anni mi sembra inappropriato.

Lo so, ma è divertente sentirtelo ripetere con la consueta ostinazione.
Collezionare non è mai stata mia intenzione. Ovviamente posseggo opere di artisti, ma non sono andato a cercarmele. Sono loro che sono venute a me in circostanze casuali. La verità è che mi sono incamminato lungo i sentieri dell’arte per conoscere gli artisti e il loro lavoro, ciò che facevano, come lo facevano e perché. Sono diventato loro amico, e avendo uno stipendio fisso, era frequente che, trovandosi in situazioni di necessità, si rivolgessero a me. Li aiutavo per quanto potevo e loro, per sdebitarsi, mi invitavano in studio spronandomi a scegliere qualcosa. Eravamo una specie di comune: io condividevo il denaro, gli artisti la creatività. 

Diciamo che non rispondi al classico profilo del collezionista.
Non ho mai partecipato a un’asta rincorrendo questo o quel lavoro. Tutte le opere hanno per me un valore enorme: sono parte della mia vita, testimonianza di momenti irripetibili che ho avuto la fortuna di trascorrere con persone straordinarie.

Usando le tue stesse parole, posso allora definire le tue opere “raccolta”?
Ora ci siamo.

In fondo artista non è solo chi fa, ma anche chi interpreta, chi stimola, chi mette nelle condizioni di fare.
Sarei dunque una specie di artista complementare.

Esattamente. Se infatti le opere sono giunte “a caso”, non sono certo che lo stesso possa dirsi degli artisti. Di sicuro ti sei mosso secondo linee di tendenza nette e facilmente individuabili. Come quando hai iniziato a occuparti di Marinetti, del Futurismo, per non abbandonarli mai.
Negli anni Cinquanta il Futurismo era stato totalmente rimosso dal panorama italiano per le sue implicazioni col fascismo. Successe allora un fatto singolare. Feci un viaggio, allora abbastanza inconsueto, in Unione Sovietica, e all’Università di Leningrado, in un incontro con gli studenti, tutti presero a parlare di Marinetti, che aveva tenuto conferenze lì, lasciando un segno profondo nella ricerca degli artisti locali. Iniziai quindi a chiedermi chi fosse Marinetti. Tornato in Italia, come un cane segugio, mi sono messo sulle sue tracce.

Questa storia dell’estero che ti conquista e rapisce si è ripetuta di recente. Lo scorso anno, dagli Abattoirs di Tolosa, ti è stata dedicata una monumentale esposizione: Viva Gino! Una vita nell’arte, con opere di cinquanta artisti tuoi, da Yoko Ono a César, da John Cage a Kazuo Shiraga, da Lee Ufan a Robert Filliou, da Daniel Spoerri a Ben Vautier.
“Miei” perché li ho amati. C’era ad esempio una stanza dedicata al Futurismo, approntata con tecnologie modernissime dal video artista Vincenzo Capalbo, che non sarebbe stato possibile allestire senza l’aiuto di Francesca Barbi, la figlia di Luce Marinetti. In Francia il fatto che io giurassi e spergiurassi di non essere un collezionista ha destato una certa curiosità. Per spiegarlo, alla conferenza stampa dell’inaugurazione, mi sono soffermato su una delle opere presenti, un’istallazione di Takako Saito: “che ve ne pare?”, ho chiesto ai presenti. “Magnifique!”, hanno risposto in coro, “une pièce de musée”. “Bene”, ho proseguito, “stasera alle venti non ci sarà più; l’artista eseguirà un concerto con questa installazione, che a esecuzione terminata verrà smantellata”. Come si fa a collezionare un pezzo che c’è e non c’è?

Anche i processi si possono raccogliere.
Certo. Li possiedi intellettualmente. Li immagazzini nella tua memoria. 

La Fondazione Mudima, che hai costituito a Milano, potrebbe anche essere un museo di Fluxus, di artisti processuali.
Devo la loro conoscenza ad Arturo Schwarz che, nella sua libreria milanese, trasformata nel 1961 in galleria e rimasta attiva fino a metà degli anni ‘70, ha presentato, insieme agli esponenti più significativi delle avanguardie storiche, in particolare dadaisti e surrealisti, mostre di George Brecht, Allan Kaprow, Wolf Vostell; un altro che mi ha fatto da guida è stato Gian Emilio Simonetti.

Le sue “partiture visuali” ti avranno fatto pensare ai Futuristi.
“Siete i nipoti di Marinetti”. È stata questa una delle prime cose che ho detto agli artisti di Fluxus che incontravo. 

Non a caso Mudima è diventata nel tempo anche un punto di riferimento negli studi sul Futurismo.
Siamo una piccola struttura, ma su questo movimento, trai più rilevanti nella storia culturale non solo italiana del secolo scorso, abbiamo prodotto una gran quantità di materiale. Abbiamo pubblicato la Nuova Enciclopedia del Futurismo musicale (2010), nonché cinque o sei libri importanti.

Come la monografia su Marinetti (Ritratto di Marinetti, 2009, Euro 45,00).
O come le musiche riesumate dal compianto Daniele Lombardi. 

A Roma è stata da poco riaperta la Casa di Balla.
Ne sono felice. Non so con quanta riconoscenza debba dirlo, ma sono stato molto vicino a Elica e Luce Balla. Quando mia figlia Irene si iscrisse alla prima elementare, ricevemmo uno splendido regalo: una cartella di cartone che Balla aveva disegnato e realizzato nel 1916, mosso dall’idea attualissima di coinvolgere i bambini nel processo creativo.

La mostra di Tolosa documenta questi e altri incontri che hanno caratterizzato il tuo percorso. È stato realizzato un catalogo?
Covid permettendo, ci stiamo lavorando. Tra Futurismo, Fluxus, Nuovo Realismo, Mono-ha, Gutai e Arte Cinetica italiana, gli artisti da registrare sono parecchi.

Tanto più che, anziché concentrarti solo sui grandi, pur presenti, da Lucio Fontana a Piero Manzoni ad Alighiero Boetti, non hai mai smesso di indagare il lato oscuro della luna.
Per restare all’Italia, sono accolti autori per me fondamentali, sebbene mai entrati, sino ad ora, nel canone, come Gianni Bertini, Sergio Lombardo, Renato Mambor, Livio Marzot.

Non mancano le donne.
La centralità delle donne nell’arte italiana, da Grazia Varisco a Marinella Pirelli a Nanda Vigo ad Angela Occhipinti a Patrizia Guerresi a Fausta Squatriti, si incomincia a intravedere solo adesso. Frequentarle era per me doppiamente stimolante. Oltre ad essere bravissime, come e più dei colleghi, erano anche davvero molto belle.

In attesa del catalogo, chi volesse informarsi su queste ricerche può consultare le varie annate di Alfabeta, “l’ultima rivista del Novecento italiano”, come ebbe a definirla Romano Luperini.
Fu, non posso negarlo, una palestra più unica che rara.

Unica sino a un certo punto. Sbaglio o ne hai da poco fondato un’altra, di rivista, La scuola delle cose?
Ne ho cinque numeri pronti. Siamo in attesa di autorizzazione del Tribunale. Collaborerai anche tu.

Certamente. L’aggancio alle cose è davvero intrigante.
Nel mese di ottobre organizzeremo insieme all’Università di Messina un convegno sul concetto di proprietà e sulla destinazione universale dei beni.

Altri eventi in cantiere?
Presso il borgo di Oliveri, nel messinese, aprirà tra poco uno spazio espositivo. La prima mostra, Europea, proporrà una selezione di multipli d’artista. La strada è in salita, ma lamentarsi non ha senso. Un passo dopo l’altro giungeremo alla meta.

Un’ultima domanda: l’arte di domani sarà triste o felice?
Alla mia “giovane” età sono del tutto ottimista: faccio programmi per i quarant’anni a venire. Sarà felice di sicuro.