Maurizio Vicerè

Maurizio Vicerè intervistato da Lorenzo Kamerlengo per The Hermit Purple, Luoghi remoti e arte contemporanea su Segnonline.

Parlami di un tuo maestro, o di una persona che è stata importante per la tua crescita.

Molti e nessuno. Direi di essere più attratto da uomini del pensiero piuttosto che da artisti visivi. Non sono poi tanto incline a ricercare maestri. Preferisco mantenere una certa distanza, una certa libertà comportamentale e stabilire da solo quelle che sono le regole del momento. Potrei parlarti di tante influenze, da Rothko a Barthes, Turner, Baudrillard, Trent Renzor…

Quali sono secondo te il tuo lavoro/mostra migliore ed il tuo lavoro/mostra peggiore? E perché?

Ho fatto cose interessanti finora così come ho commesso errori di stile, soluzioni tecniche che non stavano in piedi e nonostante questo continuo nel mio lavoro. Il punto è che l’arte è sempre fallimentare. Ogni opera, tutto ciò che mostri è sempre un fallimento che diventa poi il pretesto per procedere. Vista in quest’ottica sicuramente la mia opera peggiore è stata la prima mentre la migliore sarà probabilmente l’ultima che realizzerò.

Se ti ritrovassi su un’isola deserta, proseguiresti la tua ricerca artistica? Se sì, in che modo?

Probabilmente no, e per ovvie ragioni. Primo perché non amo particolarmente la natura, specialmente se esotica. Preferisco stare in mezzo alla gente, alle cose che accadono. Mi piace mantenere un profilo basso. Ecco perché forse i miei lavori sono così silenziosi e distanti. E poi non credo abbia molto senso portare avanti una ricerca che non preveda uno scambio. Avere qualcuno di fronte ad un lavoro è sempre necessario.

In che modo sta influendo l’isolamento di questo periodo su di te?

Cos’è questa quarantena in fin dei conti? Cosa ci sta davvero togliendo? Io credo che al momento questa condizione ci tolga due aspetti dell’esistenza importanti: l’esperienza con la tangibilità delle cose ed i rapporti interpersonali su larga scala. Allo stesso tempo però siamo la generazione che possiede gli strumenti per continuare, ad esempio, la nostra esperienza di acquisto – senza contatto con le cose – e continuare a mantenere costanti i rapporti con gli altri – purché mediati da una socialità multimediale. In altre parole, stiamo facendo i conti con quel gioco di filtri che per anni ha inciso, senza che ce ne accorgessimo più di tanto, sulla nostra esperienza del reale. Abbiamo sacrificato la nostra realtà in favore di una società internazionale, idealmente connessa in cui tutto ci sembra più facile da cogliere. Il nostro percorso esistenziale è in costante upload. Ecco perché tutta la nostra esperienza ha sempre un momento iniziale mediato. Tutto risulta classificato da qualche parte on-line, pronto all’uso per essere consultato. Niente è più davvero esotico, niente è davvero più autentico. Mi domando allora, è ancora possibile immaginare? E che ruolo hanno oggi l’immaginazione, il silenzio? Ecco in questo periodo mi sto ponendo soprattutto domande come queste.