Marco Scotini

Marco Scotini Artecrazia

Intervista a Marco Scotini in occasione dell’uscita della seconda edizione di Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici per la collana «humanities» di DeriveApprodi, antologia che raccoglie 27 contributi scritti da Scotini negli ultimi vent’anni.

Arnold Braho: In un’intervista dell’anno scorso, presente nella prefazione della seconda edizione di Artecrazia, rispondevi lucidamente riguardo alla situazione attuale che: «non abbiamo a che fare con un’inversione di tendenza, con l’arresto imprevisto e drammatico di un sistema ma, al contrario, con il suo dispiegamento totalitario». Mi sembra che dal 2016 (data dell’uscita della prima edizione) fare i conti con l’artecrazia, oggi come allora, significhi interfacciarsi con un sistema dell’arte capace di risucchiare all’interno dei processi di valorizzazione ogni pretesa di autonomia, atrofizzando ogni attrito e ogni ipotetico scontro sotto il nome della pacificazione culturale; per utilizzare un termine che usi all’interno di un tuo saggio: un’exhibition copy della realtà, dove la seconda non è altro che una falsificazione, legittimata dall’autenticazione del mercato, dalle nomine istituzionali, ecc. Ti trovi d’accordo?

Cover della seconda edizione ampliata di Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici, di Marco Scotini, settembre 2021. Igor Grubic, 366 Liberation Rituals (Bicycle and Flag), 2008. Courtesy Laveronica Arte Contemporanea, Modica.

Marco Scotini: La nostra realtà ha davvero dell’incredibile – nel senso che i processi di falsificazione sono arrivati a un punto tale che nessuno riesce a dubitare della menzogna più evidente. Non è in gioco solo l’alterazione della realtà o la sua contraffazione. C’è all’opera tutto un teatro di visibilità e invisibilità, di oscurità ed evidenza, che controlla e governa le nostre esistenze: con grande complicità delle tecnologie dell’informazione. Tanto più mostre e biennali esibiscono come vessilli dell’emancipazione il genere, l’ecologia, la decolonizzazione e l’antimperialismo, sempre meno l’arte (intendo il suo sistema) lascia spazio ad iniziative che si sottraggono alle logiche neoliberiste. A me pare una contraddizione in termini e alla fine non c’è altro che la riaffermazione dell’arte come sistema autocratico del capitale, funzionale alla riproduzione delle gerarchie di classe e al mantenimento dell’ordine. Questo processo di cattura, che è diventato sempre più insidioso negli ultimi dieci anni, l’ho chiamato “artecrazia”. Un regime che promette libertà d’espressione e rivendicazione d’autonomia quando non è altro che captazione di valore, sovra-determinazione di ruoli e restaurazione disciplinare. Non mancano forme di protesta al sistema dell’arte ufficiale come Strike MoMA con cui un recente movimento di artisti e attivisti denuncia quello che definiscono ‘filantropismo tossico’ e che occupa da anni i board di musei internazionali. Non mancano neppure alcune istituzioni che si alleano tra loro per far fronte ad un sistema di poteri che cerca di schiacciare realtà minoritarie. Ma il problema del libro Artecrazia è come sviluppare una critica costante e persistente, un monitoraggio che non tiene solo conto dei casi isolati ma dell’andamento di un intero sistema in modo tale da poterlo fronteggiare, contrastare, depotenziare – indipendentemente dalle tecniche che si adottato per farlo.

A.B.: Il sistema dell’arte risulta spesso un banco di prova per le politiche neoliberali, tanto nel governo dei pubblici — come annuncia il sottotitolo — quanto nel proporre una politica dell’intrattenimento, piuttosto che del contenuto. Non mi sorprende come ad esempio i musei e le istituzioni artistiche siano stati tra i primi a riversare online dal 2020 ad oggi tutto quell’apparato composto da conferenze dislocate, at-home-museum, online viewing room e quant’altro, sopprimendo di fatto con queste modalità il dibattito, piuttosto che comporre un’autoanalisi. In questo senso mi sembra che Artecrazia svolga invece, parafrasando Christian Marazzi (che ha scritto la prefazione al libro), la funzione di un dispositivo di disvelamento della realtà, una tecnologia della verità che permette di analizzare ciò che è avvenuto e le contraddizioni della macchina espositiva. Credi che il libro possa essere concepito in questo modo?

M.S.: Il sistema arte mi interessa non solo perché sono un operatore al suo interno. Piuttosto credo che l’arte contemporanea sia divenuta, più ampiamente, un paradigma della società neoliberista. Intendo dire che, per alcuni sociologi con cui mi trovo d’accordo, lo spazio dell’arte appare sempre più un luogo privilegiato d’osservazione per i rapporti di produzione e di scambio sociale, se non altro per la sua legittimazione e stabilizzazione delle condotte inaugurate dalla globalizzazione. Certo non è in gioco un sistema che sarebbe nato bene e, per una qualche deviazione di rotta, sarebbe finito male. Fin dall’inizio erano troppi gli assunti che non tornavano: la iper-mobilità curatoriale, l’abbandono dei pubblici locali, l’occidentalizzazione indiscussa di una cultura mondiale. Ma, al di là delle logiche che hanno presieduto, pianificandolo, il sistema e che ho cercato di decostruire nel libro pezzo per pezzo, c’è ora tutta una nuova adesione improvvisata e falsamente libertaria al “politico in mostra” che mistifica posizioni, ruoli e funzioni, contribuendo alla neutralizzazione e sussunzione delle istanze antagoniste. Al contrario credo che uno smascheramento costitutivo del fenomeno e l’assunzione di un posizionamento partigiano servirebbero a indicare la spaccatura che da anni c’è dentro il sistema, supportando quella trasformazione genetica che è in atto – in forma latente ma potente –  all’interno dello stesso. Senza una criticabilità costante, la friabilità dei suoli si trasforma in una istituzione compatta, autoritaria e violenta come è l’attuale. Per questo motivo il libro è diviso in due parti, dove si formulano anche proposte di vie d’uscita.

A.B.: Infatti l’ultima e nuova sezione del libro si intitola Storie, dopo i tre capitoli EsposizioniPubblici e Schermi. Che cosa apporta questa quarta sezione all’economia del volume?

M.S.: Storie assieme a Schermi costituiscono un contraltare alla prima parte del volume focalizzata sulla critica istituzionale. La “situazione” di Debord si impone, per esempio, nel luogo stesso che si vuole rovesciare, e cioè nel cinema: non si definisce in un fuori utopistico ai rapporti capitalistici di produzione ma nello spazio perfettamente topico di tali rapporti. Così come il cinema/archivio di Alberto Grifi, per fare un altro esempio. Ecco questo esseredentro e contro mi è sempre sembrata una condizione fondamentale da cui partire, non soltanto teoricamente ma anche operativamente. I tre saggi che definiscono Storie sono, altresì, un tentativo di trovare una lingua minore dentro biennali, ecologia, genere, post-socialismo, ecc. Come parlare una lingua straniera dentro la propria lingua? Questo è un po’ il filo rosso che collega i tre ultimi saggi e che cerca di moltiplicare le storie attraverso l’apertura di archivi rimossi, ruoli sociali repressi, corpi ribelli, libri interdetti. Ma, implicitamente, è l’espressione di un metodo, di un tentativo di insorgere lì dove le narrative ufficiali sembrano vietare ogni altro discorso. Credo che queste riscritture di storie siano un momento fondamentale per capire i limiti del nostro pensiero, un’altra modalità per far fronte all’artecrazia.

Diagramma di Cem Dinlenmiş per Disobedience Archive (The Park), a cura di Marco Scotini, SALT Beyoğlu, Istanbul, 2014

A.B.: In molti dei saggi e interviste compresi all’interno di Artecrazia c’è una particolare attenzione nel mettere in luce protagonisti e protagoniste del sistema dell’arte che hanno rifiutato un sistema prescritto, proponendone uno alternativo attraverso le proprie pratiche collettive, linguistiche, artistiche, attiviste. In questo senso, Disobedience Archive che porti avanti in parallelo da quasi vent’anni, un archivio della disobbedienza internazionale che è costretto a riformularsi ogni volta che viene presentato, può essere considerato una risposta alle istanze del libro? Credi che anche Artecrazia debba continuamente riformulare sé stesso?

M.S.: Hai doppiamente ragione. Da un lato non possiamo abbandonare il nostro monitoraggio del controllo, visto che quest’ultimo si arricchisce continuamente di nuovi dispositivi e non smette di insinuarsi nelle pratiche anche più radicali. Dall’altro lato dobbiamo riformulare continuamente il nostro tentativo d’azione, se non altro per non essere catturati dal sistema. In fondo l’artecrazia richiede obbedienza indiscriminata, adesione consensuale e egemonica: un monolinguaggio, una monotecnica, una monocultura. La disobbendienza risponde senza la pretesa di indicare “cosa fare” ma con la capacità di mostrare quello che c’è oggi di intollerabile: da cui ogni sottrazione diventa non soltanto necessaria e desiderabile, quanto inevitabile.