Extimité
Ziva Kraus, pastello su carta, Venezia, 1984

ISOLE Extimité/Sovraesposizione dell’Intimità

Una riflessione sul medium del disegno su carta è alla base della mostra tematica ISOLE. EXTIMITÉ/Sovraesposizione dell’Intimità, inauguratasi il 27 dicembre a Palazzo Tagliaferro, Comune di Andora. La mostra confronta artisti di generazioni e linguaggi differenti.
Il Museo Mineralogico Luciano Dabroi, in parallelo con il Contemporary Culture Center, espone opere provenienti da collezioni e prestiti di gallerie di profilo internazionale. Alla luce di esperienze diverse, ogni soggetto creativo collabora, interagendo, a configurare uno scenario in cui l’esperienza dell’altro e dell’altrove approda alla conoscenza di sé.

Il termine francese lacaniano Extimité – definito anche parola-valigia, in senso carrolliano – che intitola l’esposizione, è riferibile a ciò che dell’intimità di un soggetto (in particolare quello creativo) viene esposto all’esterno mediante uno stretto confronto con l’altro e con l’altrove, con la profondità abissale dell’io e l’esteriorità multidimensionale dell’ambiente, alla luce di un’elaborazione profonda di se stesso. Perfino la lingua impiegata per parlare di sé appartiene all’alterità, alla funzione del linguaggio. Aprendo spazi al gioco di tensioni tra l’interiorità e l’esteriorità, le opere degli artisti esprimono gli estremi del dato emotivo sia nella percezione del piacere che del dolore, del desiderio o dell’inibizione. In un’etica del limite, elaborata dal filosofo Remo Bodei nella sua Geometria delle passioni, vincoli di ordine politico, familiare, confessionale, sociale, antropologico, mentale, interferirebbero sui destini personali o di massa, sulle ansie di realizzazione del singolo come sulle attese della collettività. Si ripresenta il confronto tra la questione della presentazione anti-illusionistica e della rappresentazione mimetica, del formalismo wölffliniano e dell’iconografia panofskiana, della mediazione tra lo sguardo fotografico e quello emozionale, tra l’inconscio tecnologico – teorizzato da Franco Vaccari – e l’inconscio psichico, teorizzati da Freud e Lacan, a livello archetipico da Jung.

Luisella Carretta, poiane

L’artista Luisella Carretta – nasce a Genova nel 1938, scompare nella sua città natale nel 2021 –  esordisce nei primi anni Settanta interrogandosi sul rapporto uomo-natura. Nel 1973 dà inizio alla trascrizione grafica del volo dei rapaci, esperienza che la mette in diretto contatto con l’ambiente scientifico-ornitologico. Gli anni Settanta-Ottanta la vedono infatti impegnata nell’analisi di un equilibrio volto al recupero di una vivibilità dell’uomo sul pianeta Terra. Per questo suo impegno e interesse viene invitata da Giorgio Celli, etnologo, etologo, scrittore e accademico, alla XLII Biennale di Venezia del 1986, sulla tematica Arte e Scienza, nella sezione Arte e Biologia. Intensa la sua attività espositiva a livello internazionale sempre sul tema arte/natura/scienza. Nel 1987 fonda e dirige l’attività culturale dell’Associazione Le Arie del Tempo. Nel 1995 Villa Croce – Museo d’Arte Contemporanea di Genova promuove una sua mostra antologica. Dagli anni Ottanta compie viaggi in America, Africa, Asia e nord Europa, partecipando anche ad esperienze di isolamento in natura con altri artisti e realizzando diari, disegni, installazioni e performance. Nel 2009, un’epoca in cui ormai dilaga la corrispondenza telematica, Luisella Carretta cura, con Giuseppe Zuccarino e Marco Ercolani alla Biblioteca Civica Berio di Genova, la mostra “Lettere” «con l’intento di riportare l’attenzione sul genere ‘lettera’ come frammento intimo, foglio sparso, appunto necessario a scandagliare l’animo umano con emozioni e pensieri pertinenti al processo creativo dell’artista». Nei primi anni Novanta mette in opera il progetto di una creatività nomade, esterna al sistema competitivo occidentale. In uscita il volume a lei dedicato “Foglie Vento Sabbia l’incantata leggerezza del cosmo nell’opera di Luisella Carretta”, a cura di Simonetta Spinelli, Serel International, Stefano Termanini editore. Luisella Carretta è un’artista che considera i suoi itinerari in natura come esperienze interiori, osservazioni del mondo registrate tramite la pittura e la scrittura, “sovraesposizioni “, anche performative, della sua intimità.

Andrea Chiesi, Eschatos 2019 pennarello su carta cm.50×70

Andrea Chiesi, ideatore, in disegno e pittura, di architetture meta-reali, investe la sua intensa carica pulsionale nel ricostruire, visionariamente, strutture abbandonate, riconsegnando loro una vita subliminale. Affiorano, nella sua opera, radici alimentate, in anni giovanili, da una controcultura Punk e post Punk, quando disegnava fumetti e fanzine per liberare, creativamente, le sue ossessioni.

Davanti all‘irrefrenabile vena produttiva di questo artista, pur se, nel tempo, sempre più riflessivamente cadenzata, vien fatto di chiedersi se la fase iniziale della sua opera scaturisca più da una sua urgenza estetica o da una “colonna sonora” generazionale,  a partire anche dalle sue intense frequentazioni di centri sociali, figure poetico-letterarie outsider, locali musicali underground di connotazione punk, new wave, dark. Pensabilmente, le due urgenze di Chiesi artista convergono in una scelta che si trasforma nel segno gestuale, formalmente organizzato, di fermi-immagine in sequenze virtualmente filmiche. Accanto all’interazione mimetica tra fotografia e rappresentazione pittorica del reale, trova un suo spazio anche il dispositivo narrativo, non del tutto estinto, della fase fumettistica. 

A giudicare dall’imponenza della letteratura critica, di segno impegnato, sulla sua opera, e dal ricorrente riferimento di certi suoi topoi – architetture industriali abbandonate – ai gasometri, torri di raffreddamento, altiforni, ciminiere, fabbriche, silos, abitazioni, cavalcavia, della coppia di artisti Bern e Hilla Becher, si potrebbe pensare che i coniugi  tedeschi e Andrea Chiesi lavorino in una stessa direzione. Ragionando in termini di differenza/ripetizione, mentre i Becher restituiscono, in un rigoroso bianco e nero, un paesaggio di presenze anonime con un linguaggio catalogatorio “inespressionista”, per usare un termine celantiano, freddamente concettuale, deprivato di pathos in quanto ritagliato dal contesto, Chiesi restituisce protagonismo – nelle sue varianti del blu, del grigio Payne, nella scala dei verdi tra cui il permanente scuro, nella dominante luttuosa del nero – anche alle erbacce, alla pavimentazione dissestata, ai tralci vegetali invasivi, all’ossidazione dei metalli, al vissuto della rovina, in quanto micro o macrocosmo vitale. L’opera dei Becher nasce dalla registrazione di un soggetto da parte di un occhio fotografico, quella di Chiesi nasce dall’empatica percezione interiore di quelle tracce che un passato industriale ha lasciato sul campo come presenze-assenti, defunzionalizzate, relitti di un tempo storico irreversibile. È uno stato del lavoro sociale e antropologico quello che anima i deserti metropolitani ricostruiti negli inchiostri, nei disegni, nei dipinti, permeati di memorie, dell’artista di Modena.

Dopo gli anni di Emilia Paranoica… da Modena a Carpi…da Carpi al Tuwat  dei CCCP,  dei centri sociali in cui si poteva incontrare Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Umberto Negri, Andrea Chiesi entra in una dimensione orientale in cui  opera in pittura come un monaco Zen, intento nel delineare il suo “mandala”, accompagnato dal “mantra” della sua liturgia pittorica. Ogni suo segno sulla carta coincide con il tempo del suo accadere. Chiesi entra ed esce da quella grotta archetipica, originaria, come dall’archeologia di un vissuto. Quei portali tetri, quelle vuote carcasse strutturali, quelle sinistre decorazioni a fasci littori, impolverate dalle ceneri di un dopoguerra erede di un potere punitivo, costellano il mondo vissuto e rivissuto da una figura sospesa tra un monastero Zen e un’iniziazione sciamanica, volta a viaggi interiori e nell’altrove…

Pagine di un racconto visuale, empaticamente condiviso, registrato in esterno e riconvertito in un diario intimo, inducono l’osservatore a percepire quelle vibranti carcasse dismesse dell’industria in “guardiani dormienti” pronti, tuttavia, a responsabilizzare l’uomo del cumulo di macerie che non cessa di lasciare alle spalle. Dopo l’Angelus Novus di Klee e il monito di Walter Benjamin, proprietario di quell’opera, risuona quello degli esponenti internazionali di Dromologie – Cahiers Paul Virilio  che, alla luce del fatto che «il progresso non è sempre progressista», progettano, con Sophie Virilio, la figlia, e Hala Wardé, l’architetta deputata a delinearne le fondamenta, un Musée de l’Accident. Altri lavori di Andrea Chiesi, sempre nei tre colori di una tavolozza che sottraendo aggiunge intensità al lavoro, tendono all’astrazione strutturale geometrica, altri ancora, più orientati verso interni silenziosi come archivi e biblioteche, scuole e abitazioni, riconducono lo spettatore a luoghi e tempi dell’esistenza, dell’impermanenza, a quel mondo interiore che, assumendo una coloritura lacaniana, intitola la mostra Isole. Extimité/Sovraesposizioni dell’intimità.

Lorenzo Gatti, Stropicciate 14 aprile 2020 Corona Diary Sketches matita su carta A4

Lorenzo Gatti, artista e teorico italo-belga – nasce nel 1955 a Baringa, Repubblica Democratica del Congo. Dopo una parentesi anni Ottanta/Novanta a Genova, risiede a Milano e lavora a Milano e Bruxelles – si è formato all’Accademia di Belle Arti di Venezia, allievo di Emilio Vedova, e all’ École nationale supérieure des arts visuels de La Cambre, fondata, a Bruxelles, da Henry van de Velde. 

Il suo processo operativo, nel contesto dell’arte contemporanea, prende avvio a partire dalla scelta di un suo campo semantico, in cui l’arte si confronta epistemologicamente, concettualmente, con filosofia, strutturalismo, sistematica morfologica, analisi storico-etico- coscienziale, modalità linguistica analogica e virtuale.

La sospensione, nel suo lavoro, delle categorie sottese alla pittura-scultura-architettura-grafica, innesta una condizione di slittamento da una dimensione utopica a una atopica. La reiterazione di un modello come clichéattiva un cortocircuito tendente al degré zero/grado zero della rappresentazione. I suoi ricorrenti edifici-bunker – nel cui tessuto viene inglobato, accerchiato, avvolto, un ospite, tramite quell’azione che l’artista denomina fagocitosi – funzionano come il paradigma visuale di una struttura linguistica fondata, intenzionalmente, su regole collassate, dalla cui defunzionalizzazione scaturirebbe un nuovo paradigma immaginale. «Il soggetto dei miei lavori – dichiara lo stesso artista – non cambia, cambiano le modalità di formalizzazione e le condizioni in cui il soggetto si pone». 

Scelta un’icona referenziale, tendenzialmente architettonica, decido di ripeterne la tipologia in un’accezione, di volta in volta, romantica, futurista, astratta, metafisica, novecentista. Non è però il senso della citazione che intendo dare all’elenco dei miei edifici, ma il segno del linguaggio che utilizzo. […] Quel Leitmotiv del Bunker, figura di fortificazione difensiva cara al filosofo-urbanista Paul Virilio, da me praticata in funzione di significante/significato, contenitore/contenuto, dà immagine a un certo numero di fermate metaforiche nelle stazioni cardine della storia dell’arte. […] Non è un caso che io lavori sull’immagine del Palazzo di Giustizia, del Museo o della Palestra, di quegli edifici cioè che vengono progettati per esporvi, all’interno, la verità del giusto e del bello. È dalla pretesa della loro funzione che prende senso, via via, la mia messa in questione di stabilità, equilibrio, peso, etica ed estetica, essenza e apparenza, materia e sfondo. Il mio stesso giudizio su questo monumento al valore eterno si esprime da diversi punti di vista a partire dai quali il centro continua a darsi come perdita, l’unità come frammentazione, l’equilibrio come destabilizzazione». 

«Per i miei Corona diary sketches – interviene l’artista – non poteva esserci titolo più paradigmatico di Isole. Quando, nella fase più acuta del virus pandemico ha preso evidenza inconfutabile la vulnerabilità umana, ogni cittadino, artisti compresi, ha dovuto venire a patti con l’esigenza concreta di ricevere le cure, in caso di contagio, procurarsi il cibo, ma anche quel materiale e quegli attrezzi senza i quali un soggetto creativo risulta paralizzato.Alla dichiarazione di stato di emergenza e di entrata in vigore del lockdown, nell’impossibilità di raggiungere il mio studio, fatto un rapido inventario delle risorse immediatamente disponibili in ambito domestico, mi sono ritrovato con una matita, ma senza carta da disegno. Non mi restava dunque altro che disegnare sul retro di fogli già stampati che, successivamente, avrei fissato al muro con nastro biadesivo. Per i Corona diary sketches in mostra – realizzati, dal 13 al 29 aprile 2020, a grafite e matita su carta formato A4, intitolati alla data del giorno – ho adottato una cornice bianca cm. 29 x40. Per visualizzare il mio utilizzo di pagine già scritte, ho reso visibili i bordi del foglio stropicciandoli e rivoltandoli manualmente verso l’interno della superficie da me disegnata, a formare una sorta di improvvisata cornice “barocca”. 

La piega, figura che, nell’opera di Lorenzo Gatti, rinvia alle curve, alle spirali, alle torsioni ellittiche, tipiche dell’anticlassico stile barocco, riconduce a pensatori come Leibniz, Deleuze, Spinoza, Perniola, nonché ai pliages del pittore ungherese, naturalizzato francese, Simon Hantaï. In vista dell’incontro sulle planimetrie spinoziane di Gatti, con il filosofo torinese Maurizio Ferraris, parte dei Corona diary sketches sono stati esposti, recentemente, da Giuliana Carbi Jesurun, allo Studio Tommaseo dell’Associazione Trieste Contemporanea. Non stupisce l’interesse di un filosofo nei confronti di un linguaggio estetico che, come quello di Lorenzo Gatti, non cessa di delineare planimetrie del pensiero, architetture del concetto e del percetto, catene ripetitive di ascendenza deleuziana.

«L’azione di stropicciamento della carta – commenta l’artista – comporta, eccezionalmente, il piacere tattile di interagire con il supporto dell’opera, ricorrendo a quei rari gesti, preclusi all’arte digitale, del piegare, strappare, cancellare, graffiare, sporcare». Gatti sembra ricorrere a un gesto ancora deleuziano di sottrazione artistica, aperto, nel suo continuum emancipatorio, alle potenzialità dell’imprevisto. Quanto viene sospeso risulta essere il compimento di un’opera che non cessa d’iscrivere la decostruzione nell’atto stesso del costruirsi. Il corpus, così concepito, di undici Corona diary sketches diventa immediatamente espressione di quell’Extimité, di segno lacaniano, che vede un diario intimo, scritto tra le pareti domestiche, “sovraesporsi” nello spazio esterno di una Galleria Civica d’Arte. 

Figura artisticamente e culturalmente carismatica, appartenente alla neo-avanguardia multimediale del Novecento e all’arte contemporanea, Živa Kraus è una pittrice, gallerista, curatrice storica, nata a Zagabria, capitale croata in cui si è formata all’Accademia di Belle Arti. Naturalizzatasi italiana, dal 1971 è attiva e residente a Venezia, città dove completa i suoi studi di Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti e in cui diventa assistente dello Studio Vedova. Realizza, nel 1972, la sua prima mostra personale allo Studio Galerije Forum di Zagabria, nel 1975 espone alla Galleria Il Canale di Venezia. Nel 1973 diventa assistente della collezionista e mecenate statunitense Peggy Guggenheim e dal 1974 al 1976 della Galleria Il Cavallino di Carlo Cardazzo, collaborando anche con il di lui figlio, Paolo, nell’ambito della videoarte di cui è esponente. È nota, internazionalmente, per aver fondato, nel 1979, l’ormai storica Ikona Photo Gallery e nel 1989 Ikona VeneziaInternational School of Photography, Pittrice e disegnatrice sensibile e innovativa, viene, nel 1979, recensita, dallo scrittore, critico e drammaturgo Alberto Moravia, suo estimatore e sodale, che la definisce «Realista dell’invisibile, proprio come Courbet e Guttuso sono realisti del visibile».

Ziva Kraus, pastello su carta, Venezia, 1984

Živa Kraus presenta in mostra un corpus di dodici opere su carta, di pittura e disegno astratti, ad andamento segnico, gestuale, scritturale. I suoi pastelli sono – come lei stessa li definisce – pagine di polvere e luce, di quella particolare luce lagunare in cui è ravvisabile la sua città d’adozione, quella Venezia a cui non cessa di consegnare il lascito culturale della sua vita nell’arte. Reduce dall’ampia mostra multimediale personale Unica –Živa Kraus, promossa, a Venezia-Mestre, dalla Marina Bastianello Gallery, approda, con questa sua nuova “Isola” espositiva, nell’International Culture Center di Palazzo Tagliaferro, Andora, che ha visto, per lunghi anni di frequentazione, la presenza dell’artista britannica, recentemente scomparsa, Jane McAdam Freud. Al quarto decennale della sua attività pittorico-galleristico-curatoriale, la Fondazione Ugo e Olga Levi celebra, nel 2019, tale significativo anniversario, con la rassegna e il libro “Memory for the Future – 40 anni di Ikona Gallery a Venezia”, accompagnato da rilevanti, internazionali, interventi critici. Nel 2021 il Museo d’Arte Contemporanea di Zagabria le dedica l’ampia mostra personale Živa Kraus – U svijetu umjetnosti/ Živa Kraus – Nel Mondo dell’Arte.

Živa Kraus, dopo l’invito di Christine Enrile,  apre la sua attività espositiva del 2023 partecipando alla mostraSEGRETE Tracce di Memoria a cura di Art Commission diretta da Virginia Monteverde, oggi alla quindicesima edizione. La rassegna europea d’Arte contemporanea, introdotta criticamente da Gabriele Romeo, riunisce artisti internazionali nell’impegno di tenere vivo il ricordo della Shoah nella sede delle antiche celle della Torre Grimaldina di Palazzo Ducale a Genova, in collaborazione con ILSREC, Goethe Institut Genua, ANPI, Biblioteca Universitaria di Genova, Festival internazionale della Poesia di Genova, Casa Luzzati, Memoriale della Shoah di Milano, Casa della Memoria di Milano.

L’opera pittorica e il disegno di Živa Kraus scaturiscono da un colore che si dà e si nega, come la luce e l’ombra di un corpo che accade nello spazio. Il segno creativo, sotteso a una pulsione desiderante, esce dall’oscurità della “caverna” per farsi visibile nel paradosso lacaniano di un’extimité, di un’intimità esposta. Un’opera la sua che si confronta con il non-finito dell’infinito, con un colore che mette a distanza il simbolo per farsi carica espressiva di se stesso, segno vettoriale, macchia densa, o rarefatta, iscritta in uno spazio fluido.

Mad Meg Patriarche – Le Fiancé 2019 inchiostro di china su carta cm.175 x cm.140

Mad Meg, donna brillante, eccentrica, anche nelle acconciature dei capelli e dei copricapo, dotata di una rilevante presenza scenica e di una accattivante e al tempo stesso tagliente capacità affabulatoria, riesce a presentare la sua stessa opera tramite un’asciutta, sferzante, recitazione metacritica. L’artista – nasce nel 1976  a Villeurbanne, Francia; si forma artisticamente frequentando, per un certo periodo, l’Académie des Beaux-Arts di Parigi, città in cui vive e lavora – di non comune talento nel disegno figurativo, particolarmente a inchiostro di china, rappresenta un universo in cui maschilismo, patriarcato, discriminazione di genere, status sociale, confessione, etnia, consumismo, vengono messi alla berlina come personificazione umana di un’entomologia dai risvolti satirico-allegorici, ironico-simbolici, tragico-grotteschi. L’artista francese crea un effetto-specchio tra la cultura nord-europea rinascimentale e quella mediterranea contemporanea, di cui è espressione.

Mad Meg è lo pseudonimo adottato da Margot, nome proprio dell’artista, derivato dal titolo dell’opera di Pieter Bruegel Il Vecchio Greta la pazza/Dulle Griet, del 1562, conservata al Museo Mayer van den Bergh di Anversa. L’artista francese, infatti, mette in atto un’analogia simmetrica con la figura androgina, delirante, della protagonista dell’opera del maestro fiammingo, riconoscendosi anche nel titolo significativo della mostra realizzata nel 2019, in quello stesso museo, Mad Meg. Rebellion-Provocation-Despair-Feminism. Privilegiando un mondo sulfureo di sogni e incubi, mostri e angeli, tempeste e incendi notturni, Mad Meg muove, a latere della sua produzione personale, da capolavori pittorici, dal Medioevo al Rinascimento fino ad oggi, per creare variazioni, tra il demonico e il blasfemo, con la maestria che le è propria, di opere di Hieronymus Bosch, Pieter Bruegel, Leonardo da Vinci, Jan van Eick, Quentin Metsys, Caravaggio, Zurbaràn, tra gli altri. L’artista non risparmia neppure le architetture dell’immaginario dantesco tra selve oscure, abissi infernali, altezze celestiali.

Mad Meg mette in scena le pulsioni interiori del prototipo di una quotidianità sia domestica che pubblica, nelle forme dell’immagine, della parola, dello stemma identificativo, dello scherno caricaturale. Formalmente il suo linguaggio ricorre anche al processo araldico della mise en abîme, gerarchicamente a quello della scala dimensionale. Alla luce di questioni socio-politiche, come Capitalismo, Femminismo, Maschilismo, Colonialismo, Ambientalismo, figure protagoniste della sua “commedia” sono insetti travestiti da soggetti umani. Altamente dotata di spirito critico, caustico, umoristico, Margot la Pazza, da cui deriva Mad Meg, sarebbe definibile una Michelangelo della satira, come è stato detto di Honoré Daumier. I suoi disegni a penna con inchiostro di china, su carte iperdimensionate, richiedono tempi lunghi di esecuzione e concentrazione. Il supporto cartaceo le è familiare anche per aver fatto, agli esordi, esperienza nella rilegatura di libri. Il suo lavoro si estende alla ricerca storiografica sui costumi, le decorazioni, le attitudini delle figure professionali che rappresenta. 

In passato, anche nella ritrattistica, gli uomini portano l’abito professionale da lavoro, mentre le consorti portano abiti da cui affiora lo status sociale della famiglia. Rilevante anatomista – avendo disegnato nudi dal vivo di modelli in posa negli atelier di tutta  Parigi – Mad Meg è anche un’attenta ricercatrice di posture professionali, sociali, di genere. Non manca, infatti, di riprodurre anche le trasformazioni degli abiti avvenute in ambito religioso – ad esempio presso i domenicani – nell’ambito del lavoro di soggetti maschili e femminili nel passaggio da società prima feudali, poi agricole, successivamente industriali, quindi capitalistiche. Ricorda come lo scrittore americano Jack London diventi un acuto narratore della classe operaia. Le si addice la locuzione latina Castigat ridendo mores/Corregge i costumi con l’ironia, del letterato francese del Seicento Jean de Santeuil. La scritta è leggibile sulla facciata di numerosi teatri. 

Mad Meg canta gli orrori dell’uomo, “bestia feroce”, con una fantasia immaginifica, una capacità iconografica descrittiva di sottigliezza mimetica estrema, ricostruendo una sua Weltanschauung, una visione del mondo di segno iperreale e allucinatorio, slittante tra Medioevo, Rinascimento, Archeologia contemporanea, Virtualità cibernetica. Evidenziando il versante grottesco di vizi e difetti dell’umanità, l’artista francese presenta in mostra carte di grandi dimensioni del ciclo dei Patriarchi, precisando che non sono uomini travestiti da insetti, ma insetti che si atteggiano a uomini. Tra i suoi prototipi in mostra, Le fiancé, del ciclo Patriarca, del 2019, che offre alla sua promessa sposa un anello posato su una microtrappola per topi, mentre nell’opera, dello stesso ciclo, Le Grand Frère/Il fratello maggiore, del 2016, si leggono le iscrizioni latine Pater Familias – Gloria et Honora Alpha Masculum, che, altamente decorato, si presenta nel contesto familiare come Ego ad imaginem Dei sum – Inseminator Accumulator Praedator Dominator Dictator… No comment.

Tramite le sue opere, costellate da inesorabili occhi scrutatori perfino della nostra intimità, Mad Meg ci ricorda che “Il santo motore di ricerca”, mettendo in atto un coscienzioso sistema di sorveglianza, con un semplice algoritmo riesce a trovare, identificare, rappresentare chiunque nel luogo dove si trova e in quello dove si reca. La mordace critica di Mad Meg non manca di applicarsi anche alle modalità violente di certe feste religiose, folkloriche, laiche. Lavorando a un capitolo sul cannibalismo, con riferimenti fisici alla digestione e alla sacralità del formaggio per i francesi, non risparmia critiche a un cattolicesimo che si ciba del corpo e del sangue di Cristo… Cita un autore di studi sulla metafisica cannibalica per annotare che ci si è chiesti, storicamente, se gli Aztechi avessero un’anima come gli uomini.

Delineando un netto Asse del Maschio/Axe du Mâle, come donna “arrabbiata”, anticonvenzionale, trasgressiva, tendente al ribaltamento del sarcasmo in caricatura, Mad Meg non cessa di denunciare la corruzione generalizzata dei sistemi di potere d’Oriente e d’Occidente, gli abusi del sistema sanitario e di un mercato farmaceutico che compromette il diritto alla salute perfino in un’epoca di pandemia virale a livello globale. Tra paesaggi, mappe, schieramenti di forze dell’ordine dissimulate, armate, pronte all’intervento, subentrano maschere, stemmi, medaglie, decorazioni militari e civili, fasci littori, aquile bicipiti, gioielli postbabilonesi, iscrizioni di segno poetico, mitico, letterario, bellico, giuridico, liturgico, biblico, geroglifico, elettronico, in lingue attuali, in lingue morte. L’immaginario demonico, serpentino e irrefrenabile di Mad Meg mette in opera, con affilati strumenti caricaturali, con provocatorie citazioni scritturali, un’epica della disperazione. Quella che su un versante è una denuncia, sull’altro versante diventa un canto alla fragilità e vulnerabilità dell’esistenza.

Lorenzo Gatti mostra Isole Extimité Corona diary sketches del 20 aprile 2020 matita su carta stropicciata

Contemporary Culture Center Palazzo Tagliaferro, Andora
ISOLE. Extimité/Sovraesposizione dell’Intimità
Luisella Carretta, Andrea Chiesi, Lorenzo Gatti, Živa Kraus, Mad Meg
a cura di Christine Enrile
dal 27 dicembre 2022