Bettina Buck
Bettina Buck
, Fallen
, 2008
Polistirolo, capelli artificiali, 45 x 50 x 62 cm

Bettina Buck,
il corpo assente della scultura 

Per “Banca di Bologna Contemporary” in Palazzo De’ Toschi fino al 19 febbraio, una mostra commemorativa del lavoro ventennale di Bettina Buck, a cura di Davide Ferri e in collaborazione con Bureau Bettina Buck. L’incontro con le opere dell’artista tedesca, scomparsa nel 2018, genera un’esperienza percettiva imprevista che fa rivivere le sue performance, azioni e i materiali impiegati, anche attraverso i testi d’accompagnamento firmati da nomi illustri dell’arte.

In occasione di Art City 2023, la Banca di Bologna ha inaugurato una mostra commemorativa di Bettina Buck (Colonia, 1974 – Berlino 2018), in corso fino al 19 febbraio, che si inserisce nel ciclo curato da Davide Ferri ogni anno in Palazzo De’ Toschi. 

Fiore all’occhiello del fuori-Arte Fiera di quest’anno, Finding Form è stata realizzata con la collaborazione del Bureau Bettina Buck, composto da Martin Eberle e John Reardon, che custodisce e amministra il patrimonio artistico dell’artista tedesca da poco scomparsa.

Artista sui generis, di cui in tutto il percorso si sente la presenza e, in un certo senso, la mancanza, vista la performatività del suo lavoro e la dimensione relazionale della sua ricerca. La mostra ne presenta in due sale oltre dieci opere scultoree e installative, e due video centrali che aprono all’incontro con lei. Opere che, come scrive Cecilia Canziani nel testo in catalogo firmato con Ferri, sono “tutte impegnate in un’azione: insegnarci che il tempo imprime nel corpo della scultura – come nel nostro – una forma che anche se diversa da quella originaria può rivelarsi più profonda, ampia e imprevista”. 

Ed è così che si presentano, in cerca di una nuova forma possibile, i materiali impiegati da Buck nel tempo, materiali del nostro tempo, non il gesso o il marmo classico delle sculture monumentali, ma gommapiuma, schiuma di lattice, polistirolo, plastica ma anche cartone e altri prodotti industriali, prelevati dall’uso che se ne fa comunemente nell’arredo, come piastrelle e tappeti, che vanno quasi a confondersi con gli interni in cui sono installati, secondo pregresse indicazioni di Buck, in un fragile temporaneo equilibrio. 

Bettina Buck, Upright, (2nd Cycle), 2012
Tela, piastrelle, latex, dimensioni variabili 

Come per 3 Upright (2012), la scultura che accoglie il visitatore, composta da tre elementi autoportanti in ceramica e lattice destinati a crollare lungo la durata della mostra, o Platzhalter (2010), una mappa di sculturine in bronzo che derivano da calchi in schiuma poliuretanica di angoli di stanze, ricollocate e disseminate negli angoli, appunto, dello spazio espositivo. “Opere”, afferma Ferri, “in cui si sente l’inclinazione dell’artista a far risuonare i margini, ad orientare il proprio sguardo verso le zone laterali degli ambienti, che parlano del suo modo di farsi ispirare dalle cose impensate, impensate perché ordinarie e perché relegate sempre ai margini del nostro campo visivo”. Queste ultime, attengono infatti al passaggio di Bettina, ai suoi ricordi nelle stanze in cui è stata e alla memoria che si imprime nella materia, portando anche il titolo maggiormente esplicativo “Protocollo di un viaggio e di quattordici appuntamenti con 14 artisti e artiste, 14 bronzi”. Insieme a tutte le altre attengono alla esistenza fisica, al suo corpo ma anche a quello impresso in scultura, messa in crisi “cercando un proprio vocabolario”, continua Canziani, “che non è costruito sul grande gesto o sull’oggetto unico, ma sulla relazione”. 

La forma non è data esclusivamente dall’artista che plasma la materia ma si forma agendola, tra manipolazione e performance.

Bettina Buck, Another Interlude, 2015
Video HD, suono, 25:27, dimensioni variabili

Come nel caso in cui è impiegato un molle parallelepipedo di gommapiuma che raccoglie la memoria dei luoghi che ha attraversato, trascinato da Buck in una passeggiata nella campagna inglese, a Beachy Head, (Interlude, video sonoro del 2012) e con lo stesso spirito lungo la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma (Another Interlude, video sonoro del 2014). Blocco di gommapiuma anche inteso propriamente come rivestimento, utilizzato per proteggere e quindi nascondere qualcosa al suo interno, in Medusa Block (2011) che si presenta come un pilastro portante della seconda sala di Palazzo De’ Toschi, e che, come ci indica la didascalia, protegge al suo interno una forma in potenza, una altrettanta scultura però in ceramica che non si vede ma che sappiamo esserci.

Involucro e contenuto, forma e sostanza, ci suggerisce anche l’accatastamento di cartoni vuoti Plinth Drawings (2012), scatole da imballaggio per il trasporto delle opere d’arte assurte a opere d’arte. O un aggrovigliamento di un telo protettivo di politene, appeso come fosse un bozzolo in natura, che (richiamando all’esperienza artistica di Pino Pascali) prende il titolo di 72 mq m. 

Nella visita occorre uno scarto, e che lo spettatore si impegni come l’artista a passare “dalla funzione” di ciò che abbiamo davanti “alla visione” di una ulteriorità, per cui l’oggetto prende sembianze diverse, che alterano la percezione del quotidiano.

Una proposta, quella di Finding Form, che merita una visita lenta e quindi forse non del tutto adatta alle tempistiche frettolose del grande pubblico dei giorni della fiera (oltre settemila le presenze a Palazzo nel weekend inaugurale); anche in quanto richiede un’attenzione contemplativa, accompagnata da testi evocativi e descrittivi di ogni opera a firma di autori e artisti quali, tra gli altri internazionali, Italo Zuffi, Chiara Camoni, Paolo Icaro… una guida necessaria, in questa occasione bolognese, per cogliere il lavoro di Bettina, complesso e muto altrimenti (quanto geniale una volta scoperte le intenzioni), per il quale le chiavi di lettura sono l’ironia e il paradosso. 

Bettina Buck, Object (Proving), 2012
Acciaio, creta, 80 x 83 x 19 cm e 75 x 78 x 17 cm 

Uno su tutti, appare poetico il progetto di Object (Proving), che si presenta come un informe contenitore, trasportato in creta cruda nel 2012 da Londra a Berlino, dove è stato poi cotto, ed esibito qui nella sua bruttezza, attraversato da crepe che mostrano gli errori voluti nella creazione, la condizione effimera e deperibile della materia, “la fine delle cose, dei corpi e quindi della scultura”, pur raggiungendo una statura ‘monumentale’ non nel senso proprio e canonico di imponenza ma di permanenza, del quotidiano che diventa eterno. 

Installazioni che, nella sede della Banca di Bologna, potremmo dire site-specific, in maniera inquietante, anche se l’artista non c’è più: non a caso l’immagine guida della mostra è Inflatable Mattress (2010), un ritratto fotografico frontale di un materasso gonfiabile, afflosciato su una parete, laddove la posizione della stampa segue la curva che un lato sgonfio disegna effettivamente sul pavimento, anche in un luogo diverso dalla sua collocazione originale.

Bettina Buck era stata in Italia e proprio a Bologna anche nel 2016, lasciando traccia del suo passaggio con Stairs, felt intervento alla Galleria P420 in occasione della mostra “Teoria ingenua degli insiemi”: una fettuccia di feltro bianco, è ancora visibile, incastonata nello spessore di un gradino in cemento che, per chi ci è stato sa, consente insieme ad un paio d’altri step di accedere al secondo livello della galleria. A un altro livello delle cose.