Tomaso Binga Lettera N come No 1977 cm 112x97 collage fotografico e tecnica mista su cartoncino metallizzato, 9 elementi

Tomaso Binga: il linguaggio del femminismo

A due passi da San Pietro, alla Galleria Mascherino di Stefano Dello Schiavo, riaperta qualche mese fa dopo uno stop di circa un decennio, è in mostra l’esposizione Tomaso Binga: Feminist Works 1970-1980. Essa ripercorre l’attività artistica tra gli anni Settanta e Ottanta della performer e poetessa visiva Tomaso Binga, alter ego che richiama direttamente il nome di Filippo Tommaso Marinetti (dalle sue parole, con una sola “m” per caduta di una costola) di Bianca Pucciarelli, poi Bianca Menna, dopo il matrimonio con il medico, successivamente tra i più autorevoli critici d’arte, Filiberto Menna.

L’attività legata al femminismo di Binga, dunque, è chiarissima già dal nome che sceglie di avere: maschile, per mettere allo scoperto il privilegio che ha l’uomo nei confronti della donna anche nel campo dell’arte. Qui i dispositivi ci vengono proposti in modo strutturato e poderoso, come fossero dei piccoli buchi neri che risucchiano l’attenzione e che lasciano percepire la vastità che c’è dentro ad ognuno di loro. Piccola costellazione di riflessioni che fanno parte di numerose serie prodotte dall’artista e che ne mettono in luce il potenziale e la fascinazione globale della sua produzione, in una sorta di induzione dal particolare al totale.

Nella galleria si sente quell’ardore tardomodernista di un’arte in prima linea, un’arte immersa nella questione sociale e politica, a partire dalle due opere più significative in tal senso: Lettera N come NO (1977) in cui l’artista attraverso le sue celebri Scritture viventi, assumendo quindi con il proprio corpo nudo, libero da sovrastrutture, le forme delle lettere dell’alfabeto, lavorando sulla soglia tra segno linguistico e segno visivo, tra l’universalità del linguaggio e la singolarità del corpo, lancia un messaggio chiaro riguardo la lotta per il referendum abrogativo sulla legge sul divorzio, nel rifiuto di una cultura patriarcale che quel “no” aveva assunto. E lo Strigatoio (1974), oggetto ormai obsoleto nell’epoca dei consumi di massa, simbolo del lavoro casalingo non retribuito delle donne, ma anche dello status egualitario che la donna assumeva tra le altre donne, al di fuori dello spazio domestico. Binga riempie questo strumento di segni, una scrittura non comprensibile, «una scrittura silenziosa dove le parole vengono snervate sino a divenire segni grafici illeggibili, che conservano la memoria della scrittura, ma non significano più, evocando i tanti silenzi imposti storicamente alle donne»: la sua Scrittura desemantizzata presente nella mostra anche in altre opere. È il caso di Mettere bianco su nero (1972) o Lettera strappata con ardore (1974), «una scrittura subliminale» dice l’artista «nel senso che essa agisce (vorrei che agisse) dentro di noi senza essere distratti dal significato corrente delle parole e senza essere frastornati dal suono delle parole stesse».

Sono presenti anche delle opere su carta metallizzata che mescolano il segno linguistico all’immagine semplificata di quello a cui si riferiscono: il sole, il mare, le colline, elementi naturali e specifici che si rapportano al segno linguistico, che diventa raggio solare o onda marina, ad esempio. Quello che in un certo qual modo troviamo anche nella serie Biographic, quadri di grandi dimensioni della metà degli anni Ottanta, in cui Binga si confronta con la pittura, creando immagini archetipiche tra passato (la natura) e futuro (le nuove tecnologie), in cui il richiamo alla biografia vuole porre l’attenzione proprio sul rapporto tra soggettività della vita e universalità del linguaggio. Linguaggio a volte non espresso manualmente, ma meccanicamente attraverso la macchina da scrivere, d’altronde, come riflette Giorgio Zanchetti, il carattere tipografico nelle operazioni di poesia visiva assume presenza materica prima che funzione di veicolo di senso. Nella serie Dattilocodice Tomaso Binga crea un nuovo alfabeto composto da moderni geroglifici che mescolano simbolo grafico e icona, attraverso la sovrapposizione di più lettere in un unico spazio, una sorta di recupero archetipico del linguaggio attraverso la tecnologia.

L’opera Guardo ma non scrivo (1977) evoca, invece, le affascinanti operazioni dell’artista con la carta da parati. In questo caso Binga incolla su una carta da parati riempita di scrittura desemantizzata una fotografia incorniciata che la ritrae di spalle, che guarda un suo precedente lavoro della serie Carta da parato, nel quale è a sua volta visibile l’immagine dell’istallazione da lei realizzata in occasione della mostra Distratti dall’ambiente del 1977 a Riolo Terme, in un’operazione tipicamente concettuale.

Infine è presente un’opera che documenta la serie dei Polistirolo, prodotta agli inizi degli anni Settanta, Madonna con bambino (1972), in cui l’artista trasforma le scatole da imballaggio in piccoli teatrini, in cui incolla immagini prelevate dal mondo della pubblicità e dei mass media, demistificando ironicamente la feticizzazione e l’erotizzazione del corpo femminile.

Circa 20 opere, dunque, che mostrano la costanza di Tomaso Binga, la sua passione e la sua sensibilità, la sua lotta, a volte ironica, alla società patriarcale e maschilista, partendo dal linguaggio e ponendolo in analisi. Binga rende malleabile la triangolazione semiotica di significante, significato e referente facendola entrare prepotentemente in un discorso sociale, attraverso l’eterogeneità di operazioni che guardano sempre al suo essere donna, al suo essere artista – «l’artista non è né uomo né donna, senza età e senza nazionalità» dice – e al suo essere, come ogni individuo, forma politica tangibile.

Tomaso Binga: Feminist Works 1970-1980

dal 3 marzo al 30 aprile 2020

Galleria Mascherino

Via del Mascherino, 24 – Roma

Orario: dal martedì al sabato 16.00-19.30

tel: 338 2699 414

email: galleriamascherino@gmail.com

Facebook e Instagram: @mascherinoarte