La mostra si intitola Solar Dogs, a riprendere il raro fenomeno ottico del parelio (la visione di due soli nel cielo), riferendosi ad un momento topico del romanzo, in cui proprio questo fenomeno insinua nel protagonista il dubbio di star vivendo qualcosa di non del tutto reale.
“Nell’attivare una meta-narrazione, la collettiva esce dai confini dell’esposizione in quanto tale per proiettare il pubblico in una dimensione fittizia, nella quale il perturbante è protagonista di una scena asettica e surreale” ci dice la curatrice Caterina Taurelli Salimbeni, prima di immergerci in un meta-testo mimetico al senso esistenziale della mostra, in un rimando continuo che incrocia fantascienza-perturbamento e realtà-finzione in un gioco stratificato, dal piglio non scontato, equilibrato e subculturale.
Due temi essenzialmente infiniti quelli alla base dell’esposizione, che in qualche modo vengono incorniciati in forme e modi eterogenei, ad aprire discorsi, lanciare concetti, illuminare punti ciechi della nostra realtà, nell’assoluto dominio di un perturbante mai stentato, ma lasciato vagare libero nella percezione degli “attanti” in gioco, nella dimensione di un “corpo espanso” che accoglie tutto: spazio, opere, pubblico (“corpo espanso” ancora più chiaro, ce ne fosse il bisogno, nelle due performance prodotte durante l’opening).
Il dominio del perturbante, nella sua accezione weird, lo troviamo nel concetto di “doppio” in sé, e nella sua estrema conseguenza che va a relazionare realtà e finzione: il simulacro d’inchiostro di una marea che si stampa dal soffitto per venire triturata sul pavimento, macchina celibe indiscreta e straniante di Sveva Angeletti, che tra artificiale (reale) e naturale (simulato) collassa in tragedia; fabbrica di mostri, di Daniele Sciacca, che vagano negli spazi dell’esposizione, insinuandosi nei ricordi di chi li osserva, che con il loro sapore retrò e alieno,e la loro dimensione fuori scala, respingono e attirano l’avventuroso ospite; la colonna di Marco De Rosa, doppelgänger della colonna reale presente, posta a specchio diagonale nello spazio, ne rappresenta un’intuizione, la cassaforma, con tavole d’oca e spanset, una colonna pensata, reale tanto quanto il suo doppio (cos’è la realtà se non la nostra percezione?); il fulmine di Francesca Cornacchini, un fumogeno su tela – e oltre essa – che non solo è mimesis sensibile dell’evento, nella sua creazione catartica durante l’opening, ma anche raccordo percettivo della dicotomia natura-cultura (quest’ultima specchiata di senso, opposta a se stessa nel suo prefisso antagonista), sintesi di un fulmine che nell’estetica si fa lampo; e poi il quadro di Francesco Andreozzi, iperrealista, metafora visiva che tra corpo celato dagli indumenti invernali e farfalle stranianti ci proietta in un discorso poetico che riguarda il senso del confine.
Il dominio del perturbante, nella sua accezione eerie, lo troviamo, invece, nella natura dell’opera d’arte, che va a potenziarsi con la naturadella fantascienza, ma potremmo anche dire della nuova tecnologia, in quell’enigma carico di sentieri ciechi e varchi luminosi che in quanto persone analogicodigitali in qualche modo viviamo e percepiamo: il primissimo piano dell’avatar che ci accoglie all’inizio della mostra, indagine sociale ed estetica tra le pieghe della realtà virtuale di Federica Di Pietrantonio, in uno sguardo che si fa simulacro ansioso, falso e vero contemporaneamente; i curiosi lettini per l’abbronzatura di Andrea Frosolini, archeologie di una performance che vedeva questi oggetti dal sapore industriale venire utilizzati da due creature eteree, albine, dai lunghi capelli, velatamente aliene in quell’azione teatrale e incongruente, le potenzialità del falso si spalancano come in un film di Tarkovskij; il video in CGI di Chiara Fantaccione, esplorazione di un drone che vaga in una simulazione di uno spazio naturale, narrazione filosofica su ciò che la macchina conosce ma anche sulla modalità di esperienza di uno spazio virtuale, in cui il bug è elemento assoluto dello spazio, elemento di verità indiscussa; le strane creature soffici, che sbucano nello spazio, di Alessandra Cecchini, che unisce il peluche, la figura del gatto, dominatore incontrastato del panorama percettivo di internet e l’IA, in un tripudio barocco costellato da glitch che nascono virtuali per tradursi nello spazio che siamo abituati vivere, mostrando tutto il loro potere straniante; e infine le incudini in verticale di Guendalina Urbani, elementi spaziali in una posizione sovversiva alla realtà che siamo soliti esperire, stranamente rosa, a rimandare ai piedi delle ballerine di musica classica alla sbarra.
Voilà la meta-mostra, distopica eppure inebriata da un’arte poligonale, fantascientifica eppure così inerente alla realtà, spazio mentale collettivo dirompente, vaso di Pandora postmoderno, culla di percezioni realiste.
Solar Dogs
A cura di Caterina Taurelli Salimbeni
Francesco Andreozzi, Sveva Angeletti, Alessandra Cecchini, Francesca Cornacchini, Marco de Rosa, Federica Di Pietrantonio, Chiara Fantaccione, Andrea Frosolini, Giulia Gaibisso, Daniele Sciacca, Guendalina Urbani.
Spazio In Situ.
Roma, Via San Biagio Platani, 7.
Ottobre 2023 – Gennaio 2024