Francesca Biasetton
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Scritture asemantiche: alcune domande a Francesca Biasetton

Francesca Biasetton, artista e calligrafa, da tempo si misura con le “scritture asemiche”. In questa intervista offre dettagli preziosi, informazioni e riferimenti bibliografici, condividendo così un interessante spaccato non solo della propria attività e del percorso che l’ha portata alle opere asemiche, ma anche del rapporto di queste ultime con l’area e le discipline della calligrafia.

Un’artista e sensibilissima calligrafa come lei ha incontrato la scrittura asemantica (o asemica) recentemente o ci sono state ‘tentazioni’ di asemic writing anche prima di incontrare i siti e i vari gruppi facebook che di questo si occupano negli ultimi anni? (Per i siti, si possono citare anche solo www.asemic.net di Tim Gaze e http://thenewpostliterate.blogspot.com/ di Michael Jacobson). Se ci sono state esperienze in anni passati, dava già al suo lavoro questo nome, o nomi diversi? 

Ricordo che ho colto molto presto, direi all’inizio del mio percorso di studio della calligrafia, la tentazione ad allontanarmi dagli stili formali, e a tentare percorsi inconsueti. Sono stati determinanti gli incontri, avvenuti all’inizio degli anni ’90, con Thomas Ingmire, Brody Neuenschwander e il Professor Hans-Joachim Burgert, tutti e tre con punti di vista sulla calligrafia e le sue potenzialità espressive che la portavano, da disciplina basata sulla riproduzione di lettere che appartengono alla storia della scrittura, a processo di espressione grafica, astrazione, analisi personale.

L’Associazione Calligrafica Italiana, fondata nel 1991 con lo scopo di promuovere la scrittura a mano e la calligrafia, artefice del revival di questa disciplina in Italia, aveva invitato nel 1993 il calligrafo americano Thomas Ingmire a tenere il workshop “The language of modern calligraphy”, a cui è seguito, nel 1994 “Dipingere con la scrittura”. L’approccio e l’uso della calligrafia o meglio dei segni lettera proposto da Ingmire partiva da questo presupposto: assegnando alla tipografia il compito di comunicare un testo, la calligrafia poteva essere libera di trasmettere suggestioni ed emozioni, senza vincoli di leggibilità. Quindi segni non funzionali alla lettura di un testo, ma segni che lo “traducono” graficamente. La scrittura diventa un’immagine, in equilibrio tra leggibile e illeggibile, tra forma e funzione. “Legibility is our enemy”: con questo “motto” Thomas ci guidava nel processo di astrazione, abbinando i segni-lettera a suoni, a gesti, deformando le lettere apprese in passato per farle aderire/interpretare un testo.

Risale al 1993 il mio primo incontro con Brody Neuenschwander, in occasione del Callitype Symposium, in Belgio, per il suo corso “The influence of eastern calligraphy on western calligraphy”, a cui sono seguiti altri incontri nel corso degli anni. Neuenschwander, text artist americano trapiantato in Europa, ha una solida formazione nella calligrafia formale, una profonda conoscenza della storia dell’arte e uno sguardo trasversale su entrambe. Durante i suoi corsi Brody invita alla riflessione, pone molte domande: come viene utilizzato il testo nelle opere d’arte, dall’antichità all’arte contemporanea: didascalia, decorazione, messaggio dell’autore? Che rapporto ha il testo con l’immagine? “I can teach them more expressive ways of using the pen, but I think of course that the main thing is to teach them ways of looking at the whole process of writing as text art. So to step away form calligraphy as a craft process based in history to something based in a thought process like what modern artist engage in” (da un’intervista a Brody Neuenschwander)

Da questi spunti, da un sovvertimento cosciente delle regole della calligrafia e da uno sguardo alle forme delle lettere in altre culture (dai segni assemblati negli ideogrammi alla versatilità delle lettere arabe), è iniziato un altro percorso di deformazione delle lettere, come è possibile fare ad esempio nella calligrafia araba.

Il primo workshop con il Professor Hans-Joachim Burgert, nel 1994, “Dal segno libero all’alfabeto”, rivelava, già dal titolo, il diverso percorso proposto da Burgert, alla ricerca di nuove scritture.

Per il Professor Burgert il testo uniforme prodotto dalla calligrafia occidentale, senza la presenza di contrasti formali, non risulta interessante: l’alta funzionalità della tradizione, sia calligrafica che tipografica, occidentale ha, per Burgert, un basso valore dal punto di vista grafico; occorre guardare e creare le lettere come forme – forme da comporre in alternanze, poliritmi, contrasti – creando tensioni nel linguaggio grafico. 

Il suo suggerimento, di evitare di usare la calligrafia per scrivere frasi di “mezza saggezza” da appendere al muro, ma invece trovare nuove forme, nuove lettere, nuove scritture per veicolare nuovi testi, specialmente di poesia contemporanea, mi aveva molto colpita. Ero poi tornata in Germania nel 1997 per frequentare il suo workshop “Ludus scribendi”. Il suo testo The calligraphic line offre molti spunti di riflessione. 

Determinante anche l’incontro, nel 2004, con Golnaz Fathi, artista iraniana. Nel periodo passato insieme, presso il suo studio di Teheran, abbiamo vissuto una interessante e profonda condivisione di idee e punti di vista, lavorando sia a fianco che a 4 mani. Golnaz ha alle spalle un percorso di formazione come calligrafa durato diversi anni, conosce strumenti, stili e tecniche della calligrafia persiana, e da lì è partita la sua personale ricerca e progressivo allontanamento dalle forme tradizionali e dal testo: “Typography is for reading, calligraphy is for feeling”. Attualmente il suo lavoro presenta forme astratte create con migliaia di piccoli segni tracciati con un pennarello o una biro.

Quindi è stato l’incontro con questi quattro artisti, e gli stimoli che ho ricevuto da loro, ad allontanarmi, nel mio lavoro personale, dalla calligrafia intesa come virtuosismo tecnico o “testo/citazione rilevante + un elemento che sottolinea il contenuto del testo (in genere la parola chiave) in una scala più grande + eventuali decorazioni/disegni”, cioè l’applicazione più diffusa, e richiesta, della calligrafia. Ha contribuito anche una sorta di saturazione e reazione allo “scrivere bene” quello che i clienti richiedono, in cui consiste il lavoro commerciale dei calligrafi. In un primo tempo partivo comunque da un testo, e per successive astrazioni mi allontanavo dalla leggibilità. È seguito un periodo in cui ho sentito l’esigenza di fare tabula rasa: niente lettere, niente testo, niente colori. Solo segni in bianco e nero su tela. Ora prediligo la carta, e una ristretta gamma di colori. Il testo non compare più, in nessuna forma, nemmeno come riferimento.

Per rispondere alla domanda, la tentazione dell’asemic writing si è fatta sentire molto presto, ma classificate sotto il nome di “scritture illeggibili”, perché è così che vengono chiamate in ambito calligrafico.

La scoperta dei siti asemic.net e thenewpostliterate.blogspot.com, avvenuto in modo quasi casuale, dovuto all’ampiezza della rete e ai suoi algoritmi, mi ha dato l’opportunità di trovare una collocazione, una definizione del mio lavoro: grazie per avermi accolta!

Quanto incidono la cura e le competenze calligrafiche, dunque la “bella scrittura”, sul puro segno anarchico, di fatto illeggibile, del tratto asemic? Calligrafia e asemia sono legate in lei da un vincolo inscindibile, oserei dire.

Si può definire anarchico un segno che, se pur illeggibile, porta con sé la storia e il gusto di scritture formali? Il mio tratto asemico mi assomiglia, porta l’eco della mia formazione, racconta la mia gestualità, che fa comunque riferimento alla formazione calligrafica, in special modo alle scritture corsive e a come io le ho interpretate. È un segno veloce, istintivo ma guidato dalla memoria del gesto calligrafico. Sono frammenti di lettere, attingo a un repertorio di gesti e segni che conosco, che ho eseguito migliaia di volte per tracciare le lettere formali, ma che vengono usati “in ordine sparso”, separati gli uni dagli altri e da quella che sarebbe la sequenza necessaria a comporre queste lettere in un testo. Diventano segni, memoria di movimenti, si accostano in modo informale e scomposto – ma non credo si possano definire anarchici. Sarei curiosa di avere un parere da chi pratica l’asemic writing “puro”, se è contemplato anche un approccio di questo tipo, non esattamente anarchico nei confronti del segno.

Rispetto al lavoro di una artista come Irma Blank, e a quanto ne scriveva Gillo Dorfles in questo articolo, qual era e qual è ora la sua posizione, la sua poetica? Si sente in sintonia con altri sodali, in questo senso? 

Non pratico operazioni concettuali nel/sul mio lavoro, non vorrei nemmeno chiamarla ricerca: è qualcosa che mi è “scappato dalle mani”. Se pensiamo che la linea può essere disegno o scrittura, mi piace muovermi ambiguamente tra uno e l’altro. Ma condivido l’affermazione di Dorfles “un segno (…) divenuto non più veicolo di un concetto ma veicolo di se stesso”. Lasciare all’osservatore la libertà di interpretazione, senza dare indicazioni o porre limiti.

La definizione di scrittura “asemantica” è a suo avviso pertinente? Nel caso non lo fosse, quale alternativa nomenclativa suggerirebbe? (E definendola come?)

Ho voluto riconoscermi nella definizione “scrittura asemantica”, anche se mi rendevo conto che i miei segni erano in qualche modo educati rispetto ai lavori di altri artisti. Desideravo aggregarmi, quasi a togliermi di dosso la definizione “scrittura illeggibile”, che porta con sé un sapore negativo, una sorta di ossimoro: si scrive per comunicare, perché scrivere “male”? Anche perché l’adulto alfabetizzato, per riflesso condizionato, cercherà sempre di leggere, di trovare un testo, un messaggio comprensibile in ogni segno che, con le sue forme in movimento, gli ricorderà la scrittura. Ma questi in realtà sono segni che non comunicano un contenuto (inesistente), ma cercano un osservatore che si trovi in sintonia.

Spesso si parla di scrittura asemantica come generatrice di un vero e proprio movimento artistico, cosciente di essere tale soprattutto dalla fine degli anni ’90 tra Stati Uniti, Canada e Australia (i nomi che spesso si fanno sono quelli di Jim Leftwich e Tim Gaze). A lei sembra che al contrario in Italia già lo stesso percorso delle ricerche verbovisive, di tutte le ricerche (anche pienamente semantiche), sia interrotto o fortemente ridotto, in tempi recenti? C’è dunque spazio per scritture libere/liberissime e svincolate dal significato (ma non dal senso) oggi? Anche nel mondo dell’arte o solo in relazione ai contesti vicini alla grafica, e – appunto – ai più o meno tardi esperimenti verbovisivi?

Posso parlare limitatamente al mio settore, anche se ho ricordi velati, che risalgono agli anni ’70, di artisti che hanno lavorato sul testo, sia tipografico che “scritto”, penso alla poesia visiva e a segni “non conformi”.

Ho la percezione che questo tipo di ricerca sia diminuito, che l’attenzione si sia spostata, che il messaggio anche se ambiguo sia più diretto, più facilmente leggibile sia in senso verbale che visivo. L’interesse si è spostato verso sé stessi, le immagini si sono moltiplicate, c’è un’ampia visibilità ma forse una minore riflessione.

Lo spazio per le scritture libere/liberissime esiste, ma occorre chiedersi cosa c’è dietro, da dove originano. Per quello che riguarda l’ambito della calligrafia, in cui il testo e le lettere hanno grande importanza, sembra esserci grande interesse nei confronti della calligrafia gestuale, non disciplinata, ma da parte di chi preferisce evitare l’impegno e il tempo richiesto dalla formazione e pratica della calligrafia formale. Riscuotono successo i corsi di calligrafia espressiva, dove “non è necessario avere conoscenze di base di calligrafia”: piacciono gli strumenti inusuali, che generano segni “sporchi”, macchie e spruzzi. C’è da chiedersi cosa si ricerca in questo: è una libera espressione di sé stessi? Possiamo chiamarla calligrafia se in realtà non è costituita da personali variazioni su forme storiche, ma è solo un segno libero/liberissimo? È questo ciò che rientra a pieno titolo nella categoria dell’asemic writing? Oppure no, essendo un “tentativo di”? Penso che la differenza sia nel come si definisce se stessi e il proprio lavoro: presentandosi come calligrafi, se si definiscono calligrafia le proprie opere, credo sia necessario e onesto avere una conoscenza della disciplina calligrafica, dalla storia ai materiali agli stili. La calligrafia gestuale, come quella “moderna”, non esiste senza la calligrafia antica. Come la musica, o la danza. 

“In genere, non penso che si possa fare qualsiasi cosa senza conoscenza. Oggi infrango tutte le regole della calligrafia che ho imparato, eppure senza questa prima formazione, non sarei capace di creare il mio lavoro” (Golnaz Fathi, dal catalogo della mostra “Dance with me to the end of night”, Londra, 2014)

  • Francesca Biasetton
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Francesca Biasetton, illustratrice e calligrafa, ha iniziato pubblicando nell’ambito della moda, disegnando immagini per periodici specializzati, cataloghi, riviste, pagine pubblicitarie. A questa sua produzione viene dedicata una personale, Cento disegni per la moda.

Espone a Favolose – 15 illustratrici italiane per l’infanzia”, mostra di cui realizza il logo, selezionato per l’Annual 2006 di Letter Arts Review.

La sua formazione in ambito calligrafico ha avuto luogo in Belgio, Germania, Inghilterra e in Italia con l’Associazione Calligrafica Italiana. Dopo avere approfondito gli alfabeti formali, privilegia le forme espressive della calligrafia. Amplia la sua professionalità con lo studio della lingua e della calligrafia araba.

Realizza i titoli di testa per il film La leggenda del pianista sull’oceano di Giuseppe Tornatore. In teatro è protagonista con Abbecedario, spettacolo in cui disegna dal vivo in videoproiezione, in tournée dal 2001, e presentato al Festivaletteratura di Mantova (2002), Festival della Filosofia di Modena (2007) e Festival della Mente di Sarzana (2013). Illustra l’omonimo volume, Premio Andersen 2003 e Premio Stregagatto 2004. 

Autrice dello slogan calligrafico dei XX Giochi Olimpici Invernali, in occasione del Fuorisalone 2010 decora per Midali una serie limitata di abiti scritti a mano, 

Nel 2013 è stata invitata a far parte dell’Art Program di Starbucks USA. Alcune sue opere fanno parte della collezione Sammlung Kalligraphie di Berlino. Nel 2014 è stato pubblicato il suo libro Unique. What it says How it looks (Il canneto Editore). Illustra il volume All you can eat di Chiara Lalli, (Fandango Libri, 2015). Le sue riflessioni sulla scrittura a mano sono contenute nel volume La bellezza del segno – elogio della scrittura a mano, Editori Laterza, 2018.

La sua produzione puramente artistica si distingue per una peculiare ricerca sul segno e l’asemic writing.

Ha esposto al Palazzo Ducale di Genova nel 1994. All’estero espone in Austria, Belgio, Germania, Iran e Pakistan.

Insegna calligrafia dal 1997 per ACI Associazione Calligrafica Italiana. Visiting Professor presso NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e IED Firenze. Dal 2011 riveste il ruolo di Presidente dell’Associazione Calligrafica Italiana.

Marco Giovenale

Marco Giovenale è tra i fondatori di gammm.org (2006). Vive a Roma dove lavora come lettore per case editrici, traduttore e, talvolta, libraio freelance. È redattore di spazi web italiani e anglofoni. Cura la collana “SYN – scritture di ricerca” per le edizioni IkonaLíber. Suoi scritti critici e testi in prosa e in poesia sono usciti in riviste tra cui «il verri», «alfabeta2», «l’immaginazione», «il manifesto», «Nuovi argomenti», «Semicerchio»; e, in inglese, «Aufgabe», «Journal of Italian Translation», «Or», «Capitalism, Nature, Socialism». Tra i libri di poesia: La casa esposta (Le Lettere, 2007), Shelter (Donzelli, 2010), Storia dei minuti (Transeuropa, 2010), Maniera nera (Aragno, 2015), Strettoie (Arcipelago Itaca, 2017). In prosa: Quasi tutti (Polìmata, 2010; Miraggi, 2018) e Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens, 2016). Con i redattori di gammm è nel libro collettivo Prosa in prosa (Le Lettere, 2009). Per Sossella nel 2008 ha curato una ampia raccolta antologica di testi di Roberto Roversi. Ha tradotto Billy the Kid, di Jack Spicer (La camera verde, 2014). Come artista e asemic writer ha esposto in Italia e fuori, è presente in cataloghi di mostre collettive, e ha pubblicato libri di materiali asemici. Il suo sito è slowforward.net.