Maya Pacifico, Musa, 2018, pagine di libro, ferro, vetroresina, dimensioni variabili; serata inaugurale di Sottovoce, 16 dicembre 2023

Progettare contro il destino. Intervista con Marco Amore

Il 16 dicembre 2023 a Benevento, presso lo showroom di Pedicini Arredamenti, si è aperta la seconda edizione della mostra Sottovoce, a cura di Marco Amore (Benevento, 1991).
Egli è figura poliedrica e difficilmente incasellabile. Noto innanzi tutto come poeta, ma anche operante come curatore indipendente da ormai oltre un decennio, nonché progettista finanziario presso una società di consulenza integrata per le imprese. Abbiamo colto l’occasione di Sottovoce per intervistarlo, al fine di mettere a fuoco – tra l’altro – come il suo coinvolgimento in tali differenti campi trovi peculiari sbocchi nella sua prassi.

Stefano Taccone: Se dovessi identificare in poche righe Marco Amore, direi che è innanzi tutto conosciuto ed apprezzato come poeta, grazie alle sue due raccolte, Farragine (2019) e L’ora del mondo (2023), entrambe edite da Samuele Editore. La prima è stata presentata in varie parti d’Italia ed è stata tradotta anche in spagnolo. La seconda è uscita da pochi mesi, ma si prepara ad emulare, se non a superare, la fortuna della prima. Non di meno, Marco Amore ha sempre avuto un occhio attento alle arti visive contemporanee. Se il tuo cimentarti con la curatela delle mostre d’arte non è una novità recente, è anche vero che negli ultimi anni sembri aver intensificato tale attività e che in prospettiva desideri connotarti in tale veste non meno che come poeta. Quali sono per te le analogie e le differenze, tanto sul piano oggettivo quanto in rapporto alla tua pratica specifica? In che relazione sta, in altre parole, il Marco Amore poeta con il Marco Amore curatore? Mi viene in mente che queste due linee si sono incontrate almeno una volta: alludo all’estate del 2021, in occasione della tre giorni di VarieAzioni a Rotondi.

Marco Amore: Ho sempre manifestato riservatezza nel parlare di me stesso, forse perché trovavo difficile riconoscermi in una categorizzazione definita, ma la verità è che non mi sento né poeta (ho sempre ambito a essere uno scrittore, piuttosto che un poeta), né un curatore d’arte contemporanea; e che il mio essere l’una e l’altra cosa è da intendersi solo in rapporto a chi sono realmente: una persona con un’evidente necessità espressiva. Poi la vita, come sappiamo, ci guida verso sentieri inaspettati; così ho trovato il mio equilibrio nel verso e questo mi ha condotto a scrivere libri che considereremmo volumi di poesia, nonché a cercare nuova ispirazione nelle sfumature dell’estetica contemporanea, il che a sua ha alimentato il mio interesse per la curatela di mostre in giovane età: questo perché la mia inclinazione naturale mi spinge a interrogare ciò che non comprendo.

Ebbene, negli anni la mia passione è maturata fino a trasformarmi in una sorta di curatore a tempo pieno e, contestualmente, ogni volta che mi approccio ad un testo “poetico” adotto una prospettiva artistica. 

Inoltre, da anni svolgo l’attività di progettista finanziario per una società di consulenza integrata, lavoro che mi dà l’occasione di stringere rapporti con alcune delle più importanti realtà espositive nazionali (fondazioni, musei ecc.), ma anche di irrobustire le mie conoscenze nell’ambito del project management. Se dovessi riassumere la mia ricerca artistica in una frase, direi che sono dedito alla progettazione complessa, che considero alla stregua di una nuova forma d’arte, e che ciò che mi interessa in maniera preponderante dell’arte contemporanea è la sfida avviata da Duchamp sul piano nominale. Come sappiamo, a partire da Duchamp sono pochi gli artisti che si dedicano alla creazione fisica delle proprie opere, preferendo concentrarsi sull’aspetto concettuale del processo creativo; analogamente, seguendo l’influenza di Beuys e la sua visione della scultura come un’esperienza condivisa, il concetto stesso di autorialità si è notevolmente ampliato. Date tali premesse, non vedo ragioni per cui, nell’assumere una personalità giuridica, non possa concepire progetti come VarieAzioni – da te menzionato – e gestire ogni aspetto, dalla progettazione finanziaria all’organizzazione dell’evento in sé, alla stregua di una nuova forma d’arte. Il mio lavoro va ben oltre la semplice selezione degli artisti o l’allestimento delle opere, così come i miei progetti hanno ricadute ben più articolate di una semplice mostra: nel caso più recente di Sottovoce, possiamo tradurle in ricadute di visibilità (ad esempio, per i partner), ma anche in ricadute economiche sul territorio obiettivo: tanto per dire, tutte le opere site-specific sono state realizzate da artigiani locali ecc. Risultati tangibili, misurabili, che si riflettono nel bilancio sociale della cooperativa Altre Voci. 

Allo stesso tempo, facendo sempre riferimento a Sottovoce, all’interno della mostra è presente un tributo a Martin Rueff, poeta e filosofo francese. Tale omaggio ha previsto la creazione di un’estroflessione total white intitolata Pagina Bianca, che allude al blocco dello scrittore e, di conseguenza, all’ispirazione. Questa installazione, che incorpora versi estratti da un suo testo poetico e viene posta in dialogo con un’illustrazione realizzata dalla disegnatrice Barbara Baldi, forse potrebbe essere considerata un’opera nel senso tradizionale del termine, in quanto ricorda un po’ un’installazione al confine tra la poesia visiva e la narrative art. Tuttavia, ciò che realmente mi interessava non era l’opera in sé, quanto il progetto della sua creazione: tant’è vero che non l’ho firmata. 

Altro elemento cruciale è il mio approccio alla creazione artistica, poiché, con l’eccezione dei miei libri, evito di creare opere singolarmente. Non essendo né uno scultore né un pittore, instauro collaborazioni con artisti diversi al fine di assicurare che ogni elemento contribuisca in modo essenziale a un progetto più ampio. Detto questo, risulta complicato collocare ciò che realmente faccio entro una singola etichetta.

S.T.: Hai evocato la recente mostra collettiva da te curata, Sottovoce, che però non è che il “sequel” di quella risalente esattamente ad un anno fa ed avente il medesimo titolo, benché gli artisti siano cambiati. Ti chiederei dunque di raccontarci in maniera un po’ più approfondita queste due mostre. È lecito considerarle l’esito più maturo sul piano della tua attività curatoriale? Il titolo si ispira ad una frase di Bruno Munari che include anche la parola “rivoluzione”; che rapporto c’è tra la poetica di Munari e le ragioni che hanno ispirato questa mostra e cosa intende per “rivoluzione” un progettista finanziario? Infine, il Sannio. Hai parlato del rapporto con il territorio, di artigiani locali… Parti dal Sannio semplicemente perché è qui che sei nato, vivi e lavori oppure pensi che esso abbia delle specificità che meglio vengono incontro a quelli che sono i tuoi intenti?

M.A.: Sottovoce è una manifestazione culturale annuale che si inaugura durante il periodo natalizio. L’obiettivo è riunire artisti provenienti da diverse discipline – dalle arti visive all’architettura, dall’illustrazione alla poesia – per promuovere un dialogo tra loro e i complementi d’arredo che annualmente vengono selezionati per l’esposizione da Pedicini Arredamenti. 

Ma Sottovoce è anche una vetrina pubblicitaria per il Sannio – mio territorio d’origine – e Benevento in particolare, che non vanta molte manifestazioni culturali di questo tipo.

È un evento che – lo dimostra l’enorme portata del pubblico che vi prende parte a ogni edizione – è molto sentito dalla città, e per cui rivesto non solo il ruolo di curatore, ma anche di co-organizzatore e di co-finanziatore. 

Detto con molta onestà, non lo considero l’esito più maturo della mia attività curatoriale, anche perché ho progetti all’attivo ben più importanti – tra cui un ciclo di incontri con il Museo del Novecento di Napoli –, ma è sicuramente uno degli esperimenti più riusciti che abbia intrapreso attraverso la mia cooperativa. Il titolo si ispira liberamente a una frase di Munari, inizialmente concepita per l’insegnamento creativo dei bambini: questo perché, sebbene mi sia sempre illuso di essere una persona senza radici (citando me stesso, in Farràgine: “voglio essere totale, globale, desidero globalizzarmi”), ogni volta che ne ho avuto l’opportunità ho cercato di contribuire allo sviluppo del mio territorio, anche a costo di importanti sacrifici personali. 

Nel corso degli anni, ho supportato gallerie d’arte, festival e altre iniziative, mettendo a disposizione le mie conoscenze e impegnandomi attivamente affinché le cose si sviluppassero nel modo giusto; impegno dettato dal senso di responsabilità che nutro verso la mia terra. È un senso del dovere che alberga dentro di me, e Sottovoce – così come VarieAzioni – è stata l’occasione per contribuire al benessere della mia comunità, offrendo ciò che potevo ai suoi abitanti e facendolo nel modo che ritenevo più efficace.

S.T.: Hai parlato di ricadute di visibilità per i partner, di ricaduta sul territorio, di progettazione finanziaria, di vetrina pubblicitaria… Ma secondo te l’attività artistica è qualcosa che va assolutamente a braccetto con le logiche del capitalismo, che sono quelle dei poteri dominanti, oppure ha la possibilità – se non il dovere – di smarcarsene? Hai citato due artisti come Duchamp e Beuys. Malgrado le ambiguità di entrambi – soprattutto del secondo – il loro percorso parla anche di scelte iconoclaste, di rottura, per quanto poi il sistema le abbia riassorbite, loro stessi si siano fatti riassorbire o forse non siano stati altro che una “sinistra interna” al sistema. Il tuo ultimo libro “sporca” – secondo me assai felicemente – la poesia con l’economia e la finanza. Nel corso di questo ultimo secolo e mezzo, Karl Marx, come saprai, non ha certo rappresentato una lettura per soli anticapitalisti, ma vi sono manager che si sono formati anche attraverso uno studio accurato dei suoi scritti. La sua personalità trascende, insomma, di gran lunga la sola riflessione di una certa area ed assurge a figura chiave per la teoria economica moderna, al di là delle singole visioni politiche ed economiche che ciascuno può coltivare. Mi piacerebbe sottoporti questo suo pensiero, tratto da Teorie sul plusvalore (1862): «[…] la produzione capitalistica è nemica di certe branche di produzione intellettuale, per esempio dell’arte (figurativa) e della poesia».

M.A.: Ho pubblicato numerosi articoli sulla connessione tra arte ed economia, contribuendo in questo modo a delineare un quadro sfaccettato che unisce due mondi solo apparentemente distanti. Sintetizzando la questione, di per sé oltremodo articolata, ritengo che l’arte sia influenzata dalle dinamiche di mercato, oggi più che mai. Al di là delle opere commissionate, come il Ritratto di Irene Cahen D’Anverse dipinto da Pierre-Auguste Renoir, si pensi agli effetti del capitalismo sul senso estetico, come recentemente sottolineato dal filosofo Gilles Lipovetsky. Questa interdipendenza diventa più rilevante quando si esaminano da vicino i meccanismi operativi dell’arte contemporanea e gli artisti che dettano le regole sulla scena mondiale: basta uno sguardo, per rendesti conto che parliamo di un mercato fondato principalmente sull’iniziativa privata dove alcune pratiche richiamano le strategie di marketing, mettendo in luce la permeabilità dei confini tra creatività e pubblicità. 

Il capitalismo è una realtà concreta, ineliminabile, e scegliere deliberatamente di ignorare un aspetto della realtà sarebbe come indossare i paraocchi: pertanto, ho deciso di incorporare la sfera economica nella mia visione; ignorarla non avrebbe giovato al mondo artistico, ma solo limitato la mia consapevolezza. Riguardo alla citazione di Marx, non la conoscevo – o non la ricordavo – ma detto francamente, non credo affatto che la produzione capitalistica sia avversa alle arti figurative (storicamente, potremmo affermare l’esatto contrario), né tantomeno alla poesia, come dimostra il mio ultimo libro.

Attribuisco maggiore importanza alla qualità di determinate condizioni lavorative, considerando l’influenza che possono esercitare sull’interiorità e il benessere dell’individuo, come immagino stesse facendo anche Marx. In ogni caso, la frase in questione sembra partire da una prospettiva che la realtà odierna ci suggerisce essere se non altro datata.

S.T.: Il principio per cui l’economia influenza la cultura tutto è tranne che antimarxiano o antimarxista. È noto che il materialismo storico distingue tra struttura e sovrastruttura e considera innanzi tutto la prima, identificabile con i rapporti economici, alla base dei mutamenti politici e sociali, mentre la cultura, nelle sue varie sfaccettature, andrebbe piuttosto a costituire la seconda. Un principio così forte e fortunato da indurre alcuni teorici meno avveduti verso una sorta di meccanicismo: si è parlato in tal caso di “marxismo volgare”. La frase di Marx che tu consideri “se non altro datata” va ricondotta naturalmente al suo contesto storico, ma anche, banalmente, al testo dal quale l’ho estrapolata in maniera un po’ barbarica per lanciare una provocazione. Una tale operazione – inutile dirlo – non è possibile in questa sede. D’altra parte, nel momento in cui siamo capaci di comprendere quanto il valore di un’opera non coincida certo con il suo valore di mercato – tanto più in presenza di un mercato dell’arte basato sulla speculazione come non sarebbe stato pensabile non solo ai tempi di Marx, ma neanche fino a qualche decennio fa – e quanto dunque il capitalismo – tanto più oggi, a mio parere – sia pienamente capace di addomesticare l’espressività artistica, condannando ad una nicchia, se non alla sparizione, i linguaggi più problematici, meno capaci di combaciare con i gusti delle masse – sempre più omologate da un apparato tecnologico che non è mai stato tanto potente e pervasivo -, quella frase di Marx non mi appare più così lunare. 

Detto questo, permettimi di provare ancora a sollevare delle criticità nel solco della domanda precedente, ma tralasciando un autore come Marx e persino il concetto di capitalismo. Forse in tal modo potrò essere meglio intellegibile e persino più pregnante. Voglio concentrarmi su un altro periodo di una tua precedente risposta. «Risultati tangibili, misurabili, che si riflettono nel bilancio sociale della mia cooperativa», hai detto. Ecco: ma tutto questo peso dato al progetto, agli obiettivi, alla verifica degli obbiettivi stessi, il parlare addirittura di misurabilità, come fossimo nel campo delle “scienze dure”, non rischia di imbrigliare l’attività artistica in una terrificante camicia di forza? Ancora una volta mi richiamo ad un artista che sei stato tu a citare per primo, Marcel Duchamp, per ricordare quanto invece il caso, l’imprevisto possano avere un ruolo nell’attività artistica, anzi io direi anche il fallimento! Forse nella domanda che sto per fare potrò apparire un po’ semplicistico, ma ne guadagnerò in eloquenza: se oggi – mi rendo conto che è un esercizio al limite dell’impossibilità, ma ti chiedo di provarci lo stesso – ti trovassi di fronte ad un nuovo Duchamp, ad un nuovo van Gogh, ad un nuovo Pollock, ma anche ad un nuovo Rimbaud, ad un nuovo Tzara, ad un nuovo Breton, davvero ragioneresti e parleresti nei termini che ho ricordato sopra?

M.A.: Non ho dichiarato che il concetto secondo il quale l’economia influenza la cultura è contrario ai principi marxiani. Ho formulato un commento sulla frase di Marx, come da te riportata, evidenziando che le relazioni tra arte e finanza sono estremamente intricate e richiederebbero un’analisi approfondita da diverse prospettive, ma che non considero la produzione capitalista avversaria dell’arte: pensiero che, permettimi di sottolinearlo, ritengo antiquato. 

In merito alle tue preoccupazioni, posso solo dire che ogni artista ha il diritto di esprimere la propria creatività nel modo che ritiene più opportuno e che sembri essere piuttosto prevenuto nei confronti della progettazione finanziaria.

Posso garantirti che nel settore aziendale, la creatività è una presenza costante, l’innovazione il motore trainante e l’atmosfera tutto tranne che vincolante, permettendo una libertà espressiva senza costrizioni.

Pur comprendendo l’influenza significativa delle teorie marxiste in specifici contesti, trovo difficile apprezzare la rilevanza di Marx in ambito artistico, dove le sue teorie sembrano avere un’importanza limitata, a meno di non considerarlo un punto di riferimento per esplorare il contesto storico delle teorie economiche e delle disuguaglianze sociali, piuttosto che come una guida pratica per affrontare le complesse sfide della produzione artistica contemporanea.

Mi scuserai invece se rispondo con una domanda all’ultima domanda: pensi che le cosiddette scienze non siano influenzate dal caso, dall’imprevisto o dal fallimento? Nessuna attività umana, sia essa di natura artistica o meno, può sfuggire a queste tre forze. Pertanto, sembra che tu abbia sviluppato un nutrito pregiudizio verso il mondo della scienza triste, in generale, o della gestione d’impresa, in particolare, figlio dell’erronea convinzione che le logiche del denaro siano estranee all’ambito artistico e viceversa. Non mi metterò a discutere di Duchamp edella questione dell’Assegno Tzanck, che immagino tu conosca meglio di me. Ti lancio anch’io una provocazione: abbiamo parlato di Van Gogh e di Tzara, ma vogliamo parlare di Wharol, di Koons, di Murakami? O, meglio ancora, di Christo?

S.T.: Se devo essere sincero non sono pienamente soddisfatto di quest’ultima risposta, ma non per mancanza di coincidenza con il mio punto di vista, bensì perché non mi pare centrare pienamente le argomentazioni che ho posto. D’altra parte, forse sono anche io a non avere il dono della chiarezza. Per quanto riguarda invece la tua domanda provocatoria, la assumo piuttosto come domanda retorica che vale come risposta, giacché trattasi di una intervista e non di una conversazione basata su principi di simmetria. Aspetto dunque una tua eventuale intervista per una mia eventuale risposta. 

Ora vorrei invece affrontare la tua pratica curatoriale da un altro punto di vista, quello del pubblico. L’arte contemporanea non è certo giunta nel Sannio con Marco Amore, ma nemmeno si può dire che in questo territorio ci siano occasioni continue di incontrarla. Ti chiedo allora chi è il tuo pubblico, o, meglio ancora, chi sono i tuoi pubblici? Sicuramente artisti, curatori, galleristi ed operatori culturali in generale, ma immagino anche persone addentro fino ad un certo punto ai modi dell’arte contemporanea. Come reputi dunque la risposta dei pubblici alle tue mostre? Credi sia pienamente soddisfacente oppure ritieni che ci sia ancora del lavoro importante da fare perché essi prendano maggiore confidenza con l’arte contemporanea? Da operatore culturale che crede nelle virtù della progettualità, stai già pensando a delle strategie ulteriori da mettere in atto?

M.A.: Poiché desidero evitare che tu rimanga deluso, farò un passo indietro e tornerò a Beuys e al suo concetto antropologico di arte, nel tentativo di fornire una risposta più soddisfacente alla tua precedente domanda.

Per Beuys – correggimi se sbaglio – la creatività è il motore primario di ogni forma di conoscenza umana e travalica i confini delle discipline tradizionalmente considerate artistiche, rappresentando un elemento essenziale che permea ogni aspetto della società, sfera economica compresa.

Se, invece, vogliamo guardare a Duchamp, la sua opera più celebre, ovvero Il Grande Vetro, è interessante nella misura in cui la si accosta alla Scatola verde, ovvero la scatola contenete gli appunti indispensabili alla sua comprensione.

La mia concezione personale di ricerca artistica si allinea essenzialmente a questi principi. 

Al giorno d’oggi, il più delle volte il processo creativo tende a esaurirsi nel momento della concezione dell’opera, che viene poi realizzata da una varietà di professionisti, tecnici o artigiani che siano. In questa prospettiva, se progetto qualcosa di più articolato con riflessi in vari settori della conoscenza umana, coinvolgendo anche altri esponenti del mondo dell’arte, non differisco nella sostanza dal comportamento comune dei cosiddetti artisti tradizionali. La distinzione sta nel fatto che il risultato non assume la forma di un semplice arazzo, ma si configura come un’entità più elaborata, specialmente quando si tratta di pianificazioni sofisticate. 

Non vedo motivi per considerare il coinvolgimento economico o finanziario come un tabù, poiché, se guardiamo alle convergenze tra arte e impresa o al concetto di “art thinking”, questa mia prospettiva sembrerà sempre meno originale. Capisco che l’elemento di ribellione nei confronti della realtà borghese incarnato da Rimbaud, tanto per fare un nome sugli altri, possa risultare affascinante, ma la verità è che dobbiamo eliminare ogni scoria della convinzione che l’arte debba esistere per sé stessa, non ricusando l’idea di avvicinarci a nuove prospettive creative.

Chiarita la mia posizione, posso dirti che il Sannio si distingue per la ricchezza delle sue proposte artistiche, e il mio lavoro mira a promuovere realtà non valorizzate, evidenziando situazioni che reputo di grande impatto culturale e non solo. 

S.T.: Giusto due parole sul tuo passo indietro e poi la domanda conclusiva di rito. Quello che dici su Beuys è assolutamente corretto, purché non si dimentichi che nella sua visione la prospettiva del superamento del capitalismo non era un dettaglio, ed uno dei motivi della sua avversione andrebbe ricondotto proprio al processo di astrazione che il capitalismo compie rispetto alla affascinante complessità della natura, del cosmo, di cui l’uomo è parte integrante. Non bisogna dimenticare, infatti, che a monte della prassi beuysiana vi era l’antroposofia di Rudolf Steiner. E ciò al netto delle sue critiche rivolte anche ai regimi socialisti del suo tempo, accomunati – tra l’altro – ai paesi capitalisti per la concezione materialista di fondo, ed anche al netto delle sue pur non insignificanti ambiguità. Piaghe nelle quali Achille Bonito Oliva non mancò di mettere il dito, durante una loro celebre conversazione, producendo probabilmente nell’artista tedesco non poco imbarazzo. Voglio ricordare inoltre che, per quanto sia problematico trovare un fondamento unitario per tutte le avanguardie storiche – come faceva Peter Bürger –, permane molta verità allorché si sostiene che esse criticavano proprio l’idea di autonomia dell’arte tipica della sfera borghese e che pensavano ad una integrazione-sparizione dell’arte nella vita quotidiana. Non però nel senso che l’arte si adeguasse all’esistente; semmai identificando nell’arte il motore di una trasformazione che ancora una volta possedeva però un orizzonte egualitario, non alienato e quindi incompatibile col capitalismo. «”Trasformare il mondo”, ha detto Marx, “cambiare la vita”, ha detto Rimbaud: per noi, queste due parole d’ordine fanno tutt’uno» è una celebre frase di Andrè Breton e quel “noi” sta naturalmente innanzi tutto per “noi surrealisti”, ma, con una buona dose di approssimazione, essa aiuta a spiegare anche le ragioni di altre avanguardie. 

Detto ciò, la mia ultima domanda non può essere che la seguente: tanto più considerando che non ritieni che le due edizioni di Sottovoce rappresentino la tua – provvisoria – maturità, ma accennavi già ad un progetto imminente con il Museo del Novecento di Napoli, come vedi la tua attività curatoriale in una prospettiva a lungo, diciamo anche lunghissimo, termine? Se ti chiedessi, in altre parole, di individuare una sorta di traguardo ultimo da perseguire attraverso di essa nel corso dei decenni, cosa mi risponderesti? Detto in breve: dove vuoi arrivare? Se questa domanda fosse troppo prematura e ambiziosa, ti chiederei almeno qualche anticipazione su ciò che avverrà nel 2024 al Museo del Novecento!  

M.A.: È evidente che il nostro disaccordo principale riguarda l’opinione che abbiamo sul capitalismo. A mio avviso, la tua visione è più idealista, mentre la mia più pragmatica. Non intendo semplificare la questione, ma dobbiamo riconoscere che il capitalismo è una realtà esistente e che la finanza incide notevolmente sul nostro sistema economico occidentale: l’arte contemporanea ne può trarre vantaggio o danno, proprio come avviene in ogni altro settore del mercato. Ci sono molte aziende di finanza agevolata, progettisti e misure agevolative per gli ETS sia a gestione diretta che indiretta, ma spesso queste risorse vengono adoperate in modo scorretto o addirittura scellerato, compromettendo la loro efficacia e contribuendo a un utilizzo non ottimale dei fondi pubblici. Il problema risiede nel fatto che coloro che operano nel settore finanziario sono più interessati al profitto che a come dovrebbero essere impiegati o a chi dovrebbe beneficiare di quei soldi. La sfida è quindi rendere questo sistema più etico, anche a livello individuale. Se riusciamo a farlo su piccola scala, avremo compiuto un passo importante di cui beneficerà anche il mondo della cultura. Inoltre, è essenziale sensibilizzare Associazioni e Fondazioni, in particolare del Sud Italia, sull’esistenza di quei fondi e su come possano contribuire in modo positivo alle loro progettualità. Naturalmente, ho limitato la mia analisi al versante finanziario; altrimenti, il discorso si sarebbe fatto troppo lungo, ma questa focalizzazione basta a farti capire come garantire una distribuzione più equa delle risorse può influire positivamente sul panorama culturale, garantendo la creazione di un ambiente più ricco e dinamico.

Per il 2024, tengo in serbo numerosi progetti, alcuni più ambiziosi di altri e che hanno richiesto l’acquisizione di vari permessi a livello burocratico. 

Al di là del ciclo di eventi presso il Museo del Novecento, sto lavorando con la galleria Mondoromulo ad un progetto di mostra collettiva che offre un’opportunità ad artisti che non hanno mai avuto la possibilità di esporre, permettendo loro di entrare per la prima volta in un circuito ufficiale. 

Inoltre, sto scrivendo un nuovo libro non solo sul piano linguistico, ma anche per quanto riguarda la comunicazione visiva.