Danilo Quintarelli
Danilo Quintarelli, Senza titolo, tecnica mista, 120x100 cm, s.i.d.

Indagatore dell’inconscio. Danilo Quintarelli 

In questa seconda parte del mio colloquio con Danilo Quintarelli, il lavoro dell’artista è indagato nei suoi rapporti con altri artisti, con altre discipline, con gli imprevisti e con l’errore.

C’è una rassegna che hai visitato che ricordi con particolare intensità?

Tra le manifestazioni che più mi hanno segnato c’è sicuramente una mostra del fotografo Luciano D’Alessandro. Quella rassegna venne organizzata nel Carcere Borbonico, struttura storica della mia città natale. Ricordo che passeggiavo nel cortile ed ero circondato da giovani fotografi, o aspiranti tali, che facevano a gara a chi avesse la macchina fotografica più tecnologica e lussuosa; in altre parole, si facevano belli con poco. Ricordo perfettamente la sensazione di disagio che provavo nello stare lì, circondato da tanta superficialità. Attirò la mia attenzione un signore anziano seduto su una panchina che, con grande eleganza e semplicità, chiacchierava con una giovane ragazza; quella persona anziana era Luciano D’Alessandro. In quel momento mi fu chiaro come la vera grandezza risiedesse nell’umiltà.

Sottile il confine tra la vita e l’arte, che del resto non è la tua sola occupazione. Potresti descrivermi la tua giornata-tipo?

La mia vita lavorativa si divide tra due mondi: la filatelia e l’arte. Attualmente collaboro con diverse aziende nelle quali gestisco la parte tecnica relativa alla catalogazione e valutazione del materiale destinato alla vendita. Un lavoro dove precisione e conoscenza sono tutto. Questa realtà si va a scontrare inevitabilmente con la mia attività artistica, che invece si basa sull’imprecisione e sull’imprevedibilità. Sono un perfezionista e il mio approccio all’arte è una terapia d’urto per tenere a bada la costante ricerca di una perfezione che non esiste, se non nella mia mente. Mi ritrovo così a lavorare di giorno con la razionalità e di notte con l’istintività.

Credi che il tuo interesse “scientifico” per la filatelia abbia influenzato in senso oppositivo il tuo lavoro artistico?

Filatelia ed arte sono due elementi che porto con me dacché ho memoria, si sono plasmati e determinati a vicenda; un po’ come succede con le stratificazioni di pigmento che compongono i miei quadri: stabilire il confine tra l’una e l’altra è, il più delle volte, un’impresa disperata.

Hai dei riti particolari quando fotografi o dipingi?

Quando dipingo c’è una cosa che amo fare: ad ogni “passaggio” appendo il quadro al muro, prendo una piccola sedia e la posiziono a circa tre metri dalla parete, mi siedo e mi fermo ad osservare. Resto lì ore e ore, facendo quello che facevo da bambino quando, nella muffa, cercavo i personaggi delle mie storie. Mi perdo in altre dimensioni per poi ritornare sulla sedia e ricominciare a lavorare.

Qual è il tuo rapporto con l’imprevisto e con l’errore?

Il concetto di “errore” è un costrutto legato ai concetti di “giusto” e “sbagliato” ed ha valore solo ed esclusivamente in una dimensione razionale. In un approccio come il mio, può esistere errore solo nel momento in cui cado nel tranello del raziocinio, dando un giudizio a quello che sto facendo. La parte più difficile del mio lavoro è accettare ciò che viene senza esprimere un giudizio.