Sergio Fiorentino

In purissimo azzurro: Sergio Fiorentino

Nella Noto in cui ha scelto di vivere, il mare non c’è. Ma i suoi cieli vibrano ugualmente di purissimo azzurro: col rosso e l’oro, i colori di Giotto, dei classici della pittura. Sergio Fiorentino è però un classico moderno, che al culto dell’antico unisce una passione per l’antiquariato e il design che ha fatto delle sue opere, e della casa museo che le ospita, un soggetto gettonatissimo da riviste internazionali di arredamento e di costume. Abbiamo parlato dei suoi ultimi lavori, i mobili-scultura, e dei progetti in cantiere: sospesi, neanche a dirlo, tra passato e futuro.

Che cos’hanno in comune un gruppo di artisti di oggi con Dante e Giotto, come in una collettiva padovana agli Eremitani (A riveder le stelle, a cura di Barbara Codogno, 29.10.21/30.01.22) cui hai di recente partecipato? 

Anzitutto il cielo. Il riferimento va alla volta giottesca della Cappella degli Scrovegni. Il legame con Dante risiede invece nell’ultimo verso dell’Inferno, quando il poeta contempla le stelle. In molti dipinti dei partecipanti il blu è il vero filo conduttore.

Un tempo le stelle si usavano per indicare le rotte, o per individuare la propria posizione. Qual è il tuo rapporto con la tradizione?

La tradizione è il principio di tutto. Vivendo in una terra dalla storia millenaria, non potrebbe essere altrimenti. Tra l’altro adoro l’antiquariato. In particolare mi affascinano le opere sospese tra arte e artigianato del Seicento e Settecento siciliano.

Ti affascinano così tanto che, ispirandoti a quegli oggetti, ti sei fatto artigiano.

Nei miei mobili-scultura – una serie a tiratura limitata – uso l’ottone, il corallo, i lapislazzuli e l’argento: gli stessi materiali che adoperavano gli artigiani trapanesi del Settecento.

Anche i grandi del Rinascimento, come Ghirlandaio, alternavano progettazione e pittura vera e propria.

L’ultimo che ho realizzato, il Mobile delle Aguglie, in ottone e argento, riprende i motivi di una mia vecchia serie, i Sognatori con i Pesci. Il modello è unico, ma ogni esemplare si apre toccando un Pesce diverso tra quelli incastonati sulla superficie. Un altro pezzo cui proprio ora mi sto dedicando è il Mobile del Santo: si compone di un parallelepipedo in ottone grezzo su cui poggia un San Sebastiano a grandezza naturale in argento sbalzato. Estraendo le frecce che lo trafiggono, la causa della passione, il petto e altre parti del corpo si rivelano allo sguardo.   

Sembrerebbe un reliquario.

Sì, le nostre chiese ne sono piene.

I campioni del Nouveau Réalisme trasformavano l’oggetto d’uso, prelevato dalla realtà comune, in reliquia della vita moderna. Il tuo modo di procedere è l’esatto contrario: trasformi in oggetto d’uso una reliquia del passato. Per restituire sacralità al quotidiano? 

Come i reliquari accoglievano le spoglie dei santi, questi mobili sono fatti per proteggere ciò che ciascuno ha di più caro. Non necessariamente un oggetto: basta un sogno, un’idea.

Da rendere perenne. Usare i primari – vedi i rivestimenti gialli, rossi e blu – dà stabilità all’immagine: la fissa oltre il presente. 

Il blu e l’oro sono i colori dello spirito, mentre il rosso rappresenta la materia. Le figure sono quelle di uomini e donne che ho conosciuto, sebbene l’aspetto sia statuario.

Con tutte queste opere, la tua casa è diventata una specie di museo. So di un hotel di Taormina che la consiglia come meta ai suoi ospiti, organizzando pure visite guidate. 

Il mio studio, come sai, non è solo la mia casa e il luogo dove tengo le mie opere. Vi conservo pure le mie collezioni di manufatti d’arte e di design, come quella di teste siciliane in maioliche antiche. Ne ho già raccolte quasi un centinaio. Prima o poi ne verrà fuori un volume, magari anche una mostra.

Mi ricordano i ritratti del Fayyum.

Per quanto le “teste” siano essenziali, popolareggianti e quindi soggette a una forte stilizzazione, hanno tratti inconfondibili. Alcuni volti sembrano quelli degli amici che abbiamo incontrato al Corso poco fa.

È il miracolo dell’arte. Se poi leggi ogni cosa alla luce della storia, il discorso si fa ancora più intrigante. Le teste, ad esempio, sono “teste di turco”: quasi un monito da esporre per tenere lontano gli invasori. A Ragusa, in un apotropaico cannibalismo culinario, sono diventate addirittura un pasticcino, a forma di turbante.

L’usanza nasce dalla leggenda di un amore non corrisposto, che a Caltagirone si tramanda da generazioni, e che credo rimandi alla novella di Lisabetta da Messina nel Decamerone di Boccaccio. 

Questo parlare di teste tagliate mi fa pensare alla lista degli invitati dell’ultima Biennale: gli uomini sono davvero pochini.

L’arte non è né maschile né femminile. È come l’amore che “non ha religione” di una canzone di Zalone [ride].

Che cosa pensi dell’arte italiana, in particolare della pittura. Ha ancora un suo pubblico o è ormai solo, come diceva un personaggio di una serie televisiva che ho visto l’altro ieri, Doc – Nelle tue mani, un “gioco per ricchi”, anzi “un investimento”?  

Nei momenti di crisi come questo l’arte è spesso un rifugio, un angolo dove potersi isolare e da cui ricominciare. E ciò vale tanto per gli artisti, che sono tanti e meritano la giusta attenzione, quanto per i fruitori dei lavori. 

Progetti per il futuro?

Dalla volontà di un mio collezionista americano, che negli anni è diventato un mio amico, è nato il progetto di un focus sul mio lavoro. Non sarà il solito catalogo, ma un libro vero e proprio, con riproduzioni fotografiche che andranno a contestualizzare i luoghi in cui i miei dipinti e le mie sculture sono nati. Speriamo di riuscire a terminare tutto per il prossimo settembre.