Giulia Manfredi: Chicago, Berlino, Roma

Giulia Manfredi inizia a studiare arte in giovane età in America. In Italia frequenta l’Accademia di Belle Arti di Bologna che le permette di fare un’esperienza a Berlino.

Nata a Castelfranco Emilia nel 1984, Giulia Manfredi sin da piccola ha la possibilità di viaggiare visitando spesso Chicago, dove frequenta i primi corsi di pittura e scultura all’Art Institute. Tali esperienze, in un contesto aperto rispetto il suo paesino di provenienza, le permettono di avere un approccio iniziale all’arte più disteso, un po’ ingenuo e libero, dandole la possibilità di indagare prospettive più ampie rispetto il contesto di partenza.

Il suo lavoro spazia tra diversi materiali plastici come la cera, la resina ma anche il marmo ed i nuovi media, attraverso costanti riferimenti e rimandi al mondo naturale. Le sue installazioni sono eleganti e simmetriche architetture che elevano gli elementi botanici a scultura, monumento. Con la resina protegge e preserva la fragilità dell’elemento naturale, bloccando ciò che per lei rappresenta il senso stesso dell’esistenza.

In seguito ai brevi soggiorni americani, Giulia Manfredi rientra in Italia e si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Bologna, contesto che sente subito stretto e confinato e dal quale decide di evadere.

Alice Ioffrida: L’esperienza con l’arte all’estero inizia per te da bambina, in seguito decidi di esplorare nuovi luoghi andando in Erasmus in Germania. Come è nata questa idea e perché proprio Berlino?

Giulia Manfredi: Quando studiavo a Bologna frequentavo un gruppo di artisti dell’Accademia con i quali condividevo l’idea che in città gli eventi e gli stimoli non fossero abbastanza anzi, notavamo una costante diminuzione di questi. Vedevamo in Berlino un luogo ricco di stimoli che ci avrebbe proiettato nel futuro. Così ho iniziato il mio Erasmus all’Universität der Künste, dove ho avuto la fortuna di incontrare professori molto competenti come Hito Steyerl, la prima che ha creduto nel mio lavoro e mi ha incoraggiata a proseguire la mia ricerca.

A.I.: Quali sono state le tue impressioni e le differenze che hai notato con il sistema italiano?

G.M.: In Germania mi sono resa conto che la possibilità di esporre, di essere notati, era molto più semplice, alla portata di tutti. Questo aspetto è positivo quando si è giovani, perché permette di mettersi in gioco, di lavorare sul campo e confrontarsi con altri creativi. Berlino al tempo viveva una situazione di fermento sociale e creativo, in città si trovava un’alta concentrazione di artisti e, col tempo, ho campito che per quanto fosse facile esporre sarebbe stato altrettanto difficile emergere tra tutte quelle voci. Per quanto riguarda l’Italia, la problematica maggiore credo sia la percezione che si ha di un artista, qui il fare arte è considerato al pari di un passatempo da ricchi, mentre in Germania la nostra è riconosciuta una professione a tutti gli effetti. Quindi in Italia devi avere la possibilità di finanziare il tuo lavoro e la tua ricerca finché non vieni riconosciuto dal mondo dell’arte, altrimenti non hai sostegno per esprimerti. Consiglierei a chi vuole fare arte ed è nato nel nostro paese di andare all’estero se ne ha la possibilità, è una situazione che arricchisce, dà una prospettiva che difficilmente si avrebbe restando fermi nello stesso posto.

A.I.: Adesso sei rientrata in Italia, questa scelta da cosa è stata dettata?

G.M.: Il motivo per cui sono tornata in Italia è legato alla mia essenza personale, alla mia sfera emotiva e familiare, non lavorativa. Ho capito che me è fondamentale per poter produrre, per essere efficiente nel mio lavoro, avere una base e un sostegno familiare ed emotivo. Chiaramente i ritmi sono diversi e la qualità della vita è più alta ma è triste pensare che abbiamo questa ricchezza enorme legata al passato che in tanti casi sta cadendo in disuso lasciata alle fauci spalancate del tempo.

A.I.: Dunque, il tuo rientro in Italia non ha a che fare con le opportunità lavorative ma è invece una questione di affetti e rapporti umani che nelle città del Nord Europa nei mesi più freddi è più difficile coltivare. Adesso di cosa ti occupi, quali sono i tuoi progetti in progress?

G.M.: Anni fa ho lavorato sul concetto di ‘orizzonte d’abbandono’ ovvero una fase che definirei ‘grigia’, in cui un elemento, un’architettura, una parte del paesaggio, non è più parte del presente né parte del passato dal punto di vista archeologico. Questa fase di mezzo si chiama orizzonte d’abbandono.

In Italia esistono diverse strutture che vivono in condizioni d’abbandono e penso che questi spazi potrebbero essere riabilitati e trasformati ad esempio in spazi per artisti.

Come credo sia successo a molti, questo per me è un momento di metamorfosi, sento un’esigenza di cambiamento profondo anche nell’approccio lavorativo. È da un po’ di tempo che lavoro con elementi botanici e architettonici creati dall’uomo, sopratt di marmo, questa è una strada che vorrei continuare a percorrere, ampliandola, abbattendo certe costrizioni che mi sono imposta dal punto di vista sia stilistico che di approccio. I miei progetti adesso riguardano tali tematiche che saranno sviluppate in maniera più libera.