Felice Levini

Felice Levini

Si chiude in questi giorni, al Museo Bilotti di Roma, Orizzonte degli eventi, una selezione di circa 40 opere di felice Levini, per la maggior parte inedite e alcune realizzate negli ultimi due anni.

Sono le 16,30 del 27 ottobre 2021, sto entrando  al Museo Carlo Bilotti per l’inaugurazione  della Mostra “Orizzonte degli eventi” di Felice Levini, mio amico da sempre, tra i migliori artisti italiani della sua generazione. Ho lasciato l’auto vicino alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna ed ho attraversato a piedi l’Aranciera di Villa Borghese. La calda luce pomeridiana, il silenzio dei luoghi e la grazia architettonica dei pochi edifici incontrati mi hanno parlato una volta ancora di un modo di vivere sobrio e ben educato che, ad evidenza, non appartiene più alla nostra cultura. Non ci appartiene, ma in qualche modo sembra sopravvivere nell’aria tersa dell’autunno romano tra il brusio delle piante e l’andamento sinuoso dei viali.

Il cavallo bianco realizzato in resina che mi trovo davanti, appena varcato l’ingresso del grande salone, ha dimensioni “al vero”, poggia su di una scacchiera che gli fa da tappeto e ne copre circa la metà. Pensare al pezzo degli scacchi che porta il suo  nome è inevitabile, ma è anche evidente che non vi sarà nessuna partita, né giocatori esperti, né opposti schieramenti. Nessuna battaglia, ma la guerra sì, basta guardare più da vicino le caselle sul terreno, ognuna rappresenta un episodio bellico del secolo scorso o del nostro attraverso una sintesi esemplare di parole e immagini costruita, ad un tempo, per invadere i media e per consegnarsi alla storia. Icone e parole fanno i conti con la violenza degli eventi come meglio non si potrebbe nell’ottica  della notizia, ma rimarcano una volta di più come in ogni conflitto il dolore autentico non si lasci contabilizzare e come la violenza scatenata dai contendenti non sia affatto solo quella necessaria al trionfo di questa o quella causa. 

Se di guerra si tratta a questo punto il pensiero non può che  andare all’assedio di Troia. Il cavallo ci appare ora immobile, enorme, enigmatico. Non ha le tozze ruote, né l’aspetto arcaizzante delle tante interpretazioni che ne sono state date nei secoli, (fino a quelle cinematografiche più note e recenti), e anzi, a dirla tutta, potrebbe anche essere giunto al suo appuntamento a bordo di un anonimo e funzionale carro ferroviario. Volendo attribuirgli uno stile, dovremmo parlare di neoclassico, o comunque di un’idea formale molto vicina a quella di certe illustrazioni d’ enciclopedia, le stesse cui sembrano essersi attenuti non pochi fabbricanti di giocattoli del passato.

Dove ci troviamo? Semplicemente nel cuore della poetica che Levini ha saputo sviluppare sin dagli  esordi  affrontando il tramonto del moderno e l’imporsi della post-storia col silenzioso riserbo di chi non è mai riuscito ad accettare né la rigidezza ideologica travestita da anodina scientificità né il ritorno al piacere dell’immaginazione preso a prestito dal mondo della pubblicità.

Levini non crea mondi, ci consegna semplicemente le cose che non possiamo fingere di non vedere, ma lo fa nell’universo della pittura e ci rende responsabili della loro interpretazione, ciascuno secondo le sue capacità e propensioni. Noi dobbiamo solo accettarle così come accettiamo quelle che ci consegna ogni giorno la realtà impietosa e ridondante in cui viviamo. 

Quella stessa realtà fatta di simboli e di emblemi, di spinte e di ostacoli, di inviti e di dinieghi, di violenza e di seduzione, che non ha mai smesso di assediarci neppure durante l’interminabile e interminato lock down pandemico che ci è caduto addosso da due anni a questa parte. Come molti suoi colleghi artisti anche Levini ha deciso di profittare del rallentamento dei suoi impegni di lavoro per metter su forme di sperimentazione più libera, di divagazione o di concentrazione non finalizzate a questo o quell’appuntamento espositivo. Come tutti noi anch’egli non ha smesso di ascoltare musica, di seguire i notiziari alla radio e in televisione, di affacciarsi alle finestre del suo studio e della sua casa eletti, ad un tempo, ad officina e rifugio per  scrutare l’orizzonte urbano del suo quartiere. Ne è nata una sorta di registrazione continua dell’intero flusso di immagini che hanno attraversato la sua coscienza di esploratore del visivo, di innamorato della pittura che non vuole parlarci di sé e del suo amore, ma solo dell’amata e del suo fascino, un fascino profondo ed inafferrabile che da sempre genera e distrugge le cornici che tentano di imbrigliarlo.

Il rotolo di tela lungo dieci metri e alto più di uno e mezzo che ora campeggia, a mo’ di fregio, sulla parete a sinistra del cavallo è proprio questo, un poema di tutti i giorni e un trattato sulla pittura che raccoglie immagini di ogni provenienza, immagini efficaci, che Levini ha potuto  cogliere nel continuo fluire di una percezione del sé (e dell’altro da sé) che non si è imposto, ma a cui si è sottoposto, affrontando con fermezza e senza proclami  una contingenza epocale irreale e perversa sì, ma non più di quanto lo siano i modelli di comportamento cui ci stiamo adeguando sotto le insegne della globalizzazione.

Fin qui il poema di tutti i giorni, quanto al trattato sulla pittura la metafora si chiarisce da sé non solo osservando come tutte le immagini riportate sul suo cartiglio fuori misura dall’artista riprendano le soluzioni più interessanti che egli ha sperimentato negli anni indagando le tensioni metalinguistiche della Modernità, ma anche confrontandosi con la sua originale rivisitazione di alcuni dei nodi teorici che hanno presieduto nei “secoli dell’occidente” alla celebrazione delle arti del “vedere”: la “mimesi” come soglia del confine tra verità e inganno,  la “bellezza” come suggello dell’elevazione dello spirito, la “figura” come unico prodotto dei sensi in grado di liberarsi dalla condizione di segnale, compromesso con la materia per giungere a quella di segno capace di rappresentare l’universo e l’universale.

Troppa teoria? Niente affatto. Meglio di ogni interprete, critico o storico che sia, ce lo chiarisce Levini stesso lasciando parlare l’arte e la pratica dell’arte. Per convincersene non c’è che da godersi i grandi dipinti disposti sulle pareti dedicate ai “Cinque Sensi”, un ciclo di lavori che va dal 2019 al 2020, e si riallaccia deciso alla scultura classica inquadrandola e sezionandola come sé la sua sostanza non fosse altro che quella di un succoso cibo della conoscenza pronto a svelarci i suoi ingredienti. Udito, olfatto, gusto, tatto, e vista ritrovano tutti i loro simboli più accreditati al di fuori di ogni riferimento all’armonia metrica o  cromatica della Natura con buona pace di tutte le Accademie e loro derivati. Ma Levini in questa occasione prova a fare di più, a dimostrarci che l’agire creativo in quanto pensiero che riparte dall’esperienza dei sensi impastati con l’esistere può ambire a far concorrenza alle presunzioni dell’analiticità (innamorata di se stessa) anche ripartendo dalla pratica artigianale e lo fa affrontando addirittura l’idea di regolazione e misurazione del tempo, con un orologio in cui le ore sono autentiche scodelle in ceramica abitate da immagini simboliche riferite a miti vecchi e nuovi. Miti che entrano ed escono dalla dimensione storica ponendosi al centro di un firmamento che non si staglia sul bleu ma nasce dal bleu. Un bleu che sembra quasi emanare energia dallo stesso procedimento di realizzazione che Levini ha potuto sperimentare in collaborazione con una fornace pescarese. Al centro come perno di questo quadrante senza lancette troviamo, neanche a dirlo, un’ulteriore rappresentazione della vera sostanza della pittura: lo sguardo che non produce certezze antiche, ma infiniti nuovi dubbi che interrogano se stessi. Il di più è un dono che chiamiamo Arte.