L’esposizione curata da Bruno Corà, promossa dal MAR-Museo d’arte della città di Ravenna nell’ambito dell’VIII Biennale del Mosaico e dalla Fondazione Burri di Città di Castello, allestita nel prestigioso museo ravennate dall’architetto Tiziano Sarteanesi con la collaborazione di Christian Beccafichi, sembra chiudere idealmente il cerchio di un rapporto creativo avuto dall’ artista con la città negli anni successivi alla mostra di San Vitale.
Burri Ravenna Oro propone circa un centinaio di opere fra uniche e grafiche e un ricco apparato documentario costituito da fotografie, modelli architettonici relativi ai progetti del maestro in loco e la proiezione di due filmati.
Alla fine degli anni Ottanta Burri coinvolto in un programma culturale di ampio respiro che il Gruppo imprenditoriale Ferruzzi voleva realizzare a Ravenna, e ideato dall’architetto Francesco Moschini di A.A.M. Architettura, Arte Moderna di Roma, elabora due progetti: il primo è inerente a una scultura da collocare permanentemente nel piazzale antistante il Palazzo delle Arti e dello sport “Mauro de Andrè”, terminato nel 1990 con la realizzazione di Grande Ferro R, mentre il secondo è relativo a un ciclo pittorico per la sede della Ferruzzi Finanziaria nel centro storico della città, che poi rimane allo stadio progettuale. Ravenna e Bisanzio, così titolato e datato 1991, prevedeva l’installazione di sei cellotex appositamente ideati, di cui si conservano i sei bozzetti ambientati all’interno del plastico architettonico allora approntato ed oggi in mostra, che esemplificano, fra l’altro, l’attenzione che l’artista riservava allo spazio dove si sarebbero collocate le sue opere, considerato come elemento fondante d’ interlocuzione fra quadro e quadro e nell’insieme. Già a Firenze nel 1980 per l’allestimento del ciclo Orti a Orsanmichele Burri aveva voluto un plastico simile dell’ambiente espositivo, dove aveva collocato i nove bozzetti del ciclo, esplicitando fin dalla fase ideativa il rapporto fra opera e contesto.
Grande Ferro R è una quinta scenica di forte impatto, in ferro verniciato in rosso di cadmio , di dimensioni h 9 x Ø 16,25 m,, con cinque archi ribassati in sequenza e franti in alto, per un totale di dieci elementi aperti allo spazio e alla luce. La struttura evidenzia caratteristiche assimilabili formalmente a precedenti lavori, quali Teatro Arcevia del 1975, di cui il bozzetto è esposto a Palazzo Albizzini della Collezione Burri, o al Teatro scultura del 1984 installato ai Giardini per la 41° edizione della biennale veneziana.
La suggestione e il fascino di un Oriente vagheggiato è sempre percepibile nella gloriosa città bizantina, e nei templi, fra gli altri, di Galla Placidia, di San Vitale, di Sant’Apollinare Nuovo, che riverberano con i loro mosaici lo splendore dell’oro, più forte delle altre cromie con cui compongono gli straordinari ‘tessuti’ musivi, in un’aura di sacralità onnipresente, in un’atmosfera di somma astrazione, in cui le figure bidimensionali sembrano perdere sempre più peso e diventare pura sembianza di luce. Questa eco è riscontrabile nel citato Bisanzio e ancor più in Il Nero e l’oro del 1992-93, ciclo scaturito dal precedente, le cui opere modificate e ampliate di altri quattro lavori sono esposte agli ex Seccatoi del Tabacco a Città di Castello.
La dedizione all’oro da parte del maestro è rilevante proprio nell’ultimo periodo della sua vita, prima della scomparsa avvenuta nel 1995, quando realizza nel giro di pochi anni alcuni cicli di opere in cui la “sostanza” aurea è presente in sorprendenti declinazioni. Sono, fra gli altri, i Nero e Oro del 1993, alcuni Cretti Nero e Oro del 1994 e dei bozzetti di Nero e Oro per l’opera in ceramica collocata al MIC Museo Internazionale Ceramica di Faenza, fino alla completa serie grafica del Oro e Nero del 1993 e del Trittico del 1994, tutti presentati nella mostra di Ravenna.
Lo straordinario corpus esposto è segno ben evidente della profonda dedizione creativa riservata all’oro da parte dell’artista, in particolare per l’oro unito al nero: due colori, materie e dimensioni interiori protagonisti di composizioni spaziali di lucido equilibrio, in cui il nero profondo delle grandi superfici in cellotex, lucide e opache, assorbenti e rifrangenti la luce, si incontra con l’oro che rifulge, in un binomio di assoluta bellezza. L’astrazione della struttura pittorica in nero si incontra con le forme auree e fa da palcoscenico alla loro visione. Ma l’oro, questo metallo nobile, è utilizzato da Burri fin dagli anni Cinquanta talora in piccole porzioni appena visibili nel quadro, a volte estesamente, di cui dà chiaramente ragione la mostra ravennate per la duplice scelta materica e compositiva.
Emblematiche sono rispettivamente, fra le altre, le opere Bianco del 1952, Composizione AZ del 1953, fino alla Copertina 12 del 1953-54 realizzata per il libro del poeta Emilio Villa, titolato 17 variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica del 1955 e Sacco ST11 del 1954 in cui l’oro è a contatto con la tela di sacco sfrangiata e il nero di fondo, un rettangolo in oro emanante luce, posto alla destra di chi guarda fino a toccare la base del quadro, sotto un orizzonte centrale costituito dalla spessa cucitura del sacco.
Ancor più indicative sono Copertina 29 per il libro di Villa realizzata con l’oro in foglia e Oro del 1992, un cellotex in cui solo la materia aurea compone il quadro nella disposizione a mosaico, dove fra le tessere emerge lievemente lo spazio del fondo e il colore ocra del supporto, a creare fessure levissime di aria e di luce. L’idea del ‘tessuto’ musivo è ben evidente nell’opera Nero e Oro del 1992 oggi esposto al Quirinale nella sala di Augusto, in cui è rilevabile la collocazione a mosaico della foglia d’oro; d’altronde anche le craquelures dei Cretti rimandano all’idea del mosaico, come in Cretto del 1973 esposto, di colore nero, evocativo di altre opere dello stesso colore, particolarmente Grande Nero Cretto di Los Angeles e di Capodimonte, dove le tessere in ceramica sono legate l’una con l’altra, come scrive Cesare Brandi, avendo “la precisione di un mosaico, il gusto degli intarsi esatti, la naturalezza dell’alto fango del Nilo, quando, passata la piena, si screpola al sole”.
Nel percorso espositivo oltre alla proposizione dei Neri San Vitale citati e delle 20 serigrafie prima dette, vi sono altre serie di opere grafiche: Bianchi e Neri 1 del 1967-58, i Cretti del 1971, i Mixoblack del 1988 e i Monotex del 1994, opere in cui l’artista ha piegato la tecnica alla sua ideazione, mostrando anche nelle opere multiple una forte spinta innovativa, in un dialogo continuo delle forme nelle cromie, fra le altre, del bianco e del nero.
Le due opere filmiche per la regia di Stefano Valeri concludono il percorso espositivo: l’una titolata Alberto Burri Il Cretto di Gibellina rievoca attraverso le immagini e in un’intensa sequenza la storia del paese di Gibellina distrutto dal sisma nel 1968 e la costruzione del Grande Cretto dagli esordi nel 1985 fino al 2015, quando l’opera è stata ultimata; l’altro Alberto Burri Ferri presenta in un’ approfondita visione gli aspetti strutturali delle grandi sculture del maestro e il contesto dove sono inserite, in una messa a fuoco condotta su più prospettive, anche dall’alto, e in scorci suggestivi. La macchina da presa si sofferma sulle strutture scultoree collocate all’esterno degli ex Seccatoi a Città di Castello, su Grande Nero del 1980 installato alla Rocca Paolina a Perugia e Grande Ferro Celle del 1986 alla Collezione Gori, Fattoria di Celle, a Pistoia finanche al già citato Grande Ferro R.
Il catalogo con contributi critici di Roberto Cantagalli, Bruno Corà, Francesco Moschini, Linda Kniffitz e Daniele Torcellini e con ricchi apparati documentari, è edito in una raffinata pubblicazione dal MAR Museo di Ravenna e da Sagep Editori di Genova.