Giovanni Gaggia, Ho visto un'alba blu, installazione, Museo della ceramica Savona

Blu come coloritura politica, voce e tattilità come memoria

Ho visto un’alba blu, mostra/evento, su invito dell’Associazione Culturale Arteam, a cura di Livia Savorelli al Museo della Ceramica di Savona (30 ottobre – 19 dicembre) è l’esito della residenza all’Antico Giardino Laboratori,nei pressi di Albissola Marina (SV), dell’artista marchigiano, Giovanni Gaggia (1977, Pergola, cittadina tra Pesaro e Urbino in cui vive e lavora e dove ha creato, nel 2008, Casa Sponge, centro di accoglienza, rifugio di artisti e viaggiatori).

Già nei termini del titolo, la mostra annuncia una condizione cromatica di risveglio, in cui è il blu, con i referenti reali e metaforici di cielo e mare, che avvia la concatenazione di assonanze e testimonianze, risonanze e memorie, proiezioni e confessioni, iscritta, tramite il gesto manuale dell’incisione, nel volume di un cuore ceramico. Corpo, parola, segno, scrittura, cucitura, video, danza, elementi fondanti dell’opera dell’artista, rivestono, nell’attivismo psico-socio-antropologico-umanitario di cui si fa portatore, un’intensa connotazione empatica. Il blu, nella poetica di Giovanni Gaggia, artista di formazione classica, assume una coloritura politica, mentre la voce e la tattilità rivestono una potenzialità evocativo/mnemonica.

L’installazione Unus papilio erat: Cuore a Dio, mani al lavoro, il cui titolo rinvia al motto della Santa Maria Giuseppa Rossello, albissolese d’origine e patrona dei ceramisti liguri, è un invito a partecipare di quell’Alba Blu che ha stimolato l’artista ad accostare cuore a cuore, cercando, nel corso del suo iter creativo, un interstizio vacante in cui collocarlo, trovandolo assolutamente nella risposta collettiva di ogni persona che lo ha seguito in questo, ora gioioso ora accorato, percorso di risveglio coscienziale ed emozionale. 

A partire da un calco di cuore animale, in cui già vita e arte stabiliscono i termini di un’indissolubile alleanza, la mostra si è animata come compagine di centocinquanta manufatti creativi, materialmente di ceramica, umanamente di calore, tanto consonanti con l’arcaica tradizione ceramica savonese, nelle modalità formali, gestuali, cromatiche, da sembrare scaturite osmoticamente da vasi farmaceutici ad albarello, cipolla, rocchetto, o dai piatti che li accompagnano nelle teche del prestigioso Museo della Ceramica di Savona, in cui tradizionali e cultuali forme di raffigurazioni mitiche, di paesaggi arcadici, entrano in dialogo con le iscrizioni segniche, ora semantiche ora asemantiche, dettate dal cuore al cuore. La ripetizione del soggetto, non assume, in questo caso, valenza numerica, ma valorizza l’attento, silente, delinearsi delle differenze, tra cui affiora anche una lucente, cristallina, incontaminata, presenza bianca.

Giovanni Gaggia, Adesso, 2021, particolare dell’opera (work in progress), ricamo su coperta della Marina Militare

Il titolo è ispirato dalla canzone Blu del C.S.I. (Consorzio Suonatori Indipendenti) dell’album Linea gotica, sorta di mantra audiovisivo sul fondo di uno schermo in cui il colore blu assume andamenti a raggiera, vortice, piano inclinato su un tratto di mare percepito insieme come superficie luminosa e buia profondità, come orizzonte di vita, fatale abisso di morte, come profilarsi di un’alba per la rinascita.

«Blu come il mare che compare in «Quello che doveva accadere»scrive sensibilmente e significativamente Livia Savorelli nel testo di introduzione e approccio critico alla rassegna – video inedito, presentato in mostra, che chiude l’omonimo progetto corale che ha visto la partecipazione di più di 50 voci tra artisti, critici, curatori, poeti e giornalisti, dedicato ad una delle pagine più tristi della Storia del nostro Paese, la  Strage di Ustica e presentato ad Ancona al Museo Tattile Statale Omero. Allora un arazzo ricamato in braille, un libro d’artista, ora un video che riporta il tragico racconto al mare, prima luogo di morte ora di rinascita, in una sorta di inversione metaforica del ciclo della vita, per una sospensione da un dolore così strettamente connesso all’umana esistenza».

Come i resti del DC9 – abbattuto e inabissato nel Mar Tirreno in quel tragico 27 giugno 1980 – accompagnati dalle luci e dalle voci che attivano drammaticamente lo scenario dell’installazione permanente di Christian Boltanski, al Museo per la Memoria di Ustica di Bologna, il cuore animale mummificato, assunto da Giovanni Gaggia come referente dell’intera mostra, è anch’esso un relitto: l’organo di un corpo assente richiamato, virtualmente, in vita dalla poetica di un artista, una poetica dai risvolti politici, sociali, ancora umani. Su un tessuto serico o su una coperta blu della Marina Militare, la cucitura, manualmente ricamata, in filo dorato, da mani femminili, sulla piazza cittadina, trasmette all’iscrizione «Adesso», leggibile visualmente, il monito all’azione, alla commemorazione.

L’articolato progetto si avvale del sostegno scientifico e promozionale del MuDA – Museo Diffuso Albisola, diretto da Luca Bochicchio,responsabile anche di Casa Museo Jorn,che promuove interviste, reperibili in rete, e della Fondazione Diocesana Comunità Servizi, presieduta da Marco Berbaldi. Il coinvolgimento si estende alle scuole elementari di Albissola Marina, tramite i laboratori condotti da Alessio Cotena e Marco Isaia.

Giovanni Gaggia, Ho visto un’alba blu, installazione, Museo della ceramica Savona

«Quello che doveva accadere», letto come previsione di una strage annunciata, rinvia, inevitabilmente, al senso della mostra sull’incidente, intitolata «ce qui arrive» dall’ideatore filosofo e urbanista francese Paul Virilio, realizzata nel 2002 alla Fondation Cartier di Parigi, o al senso, omologo, del termine latino Occursus, usato, non casualmente, dal filosofo e commediografo, ancora francese, Alain Badiou, relativamente alla pandemia da Covid 19. L’incapacità di prevenire, di arginare inquinamento, alluvioni, terrorismo, la limitata efficacia della medicina e dei vaccini di fronte al dilagare planetario del contagio nelle pandemie virali, gli impatti degli eventi estremi, sono tutti segnali di un potere/sapere/biotecnologico che inizia a deludere le grandi attese. Si avvertono, in molteplici contesti, segnali di una tecnica, lievemente “scappata di mano”, tanto per usare un’espressione più efficace che elegante.  

Scegliendo il calco plastico di un cuore come oggetto la cui sola dimensione fonetica risveglia effetti, reali e metaforici, di Pathos, Giovanni Gaggia non manca di riprodurlo centocinquanta volte per azzerarne, in qualche modo, la possibile carica autoreferenziale, in quanto artista che lo ha deciso e formalizzato, per accoglierne le proiezioni altrui, quali che siano, come moti irriflessi o consapevoli, futili o profondi, ma essenzialmente, concretamente, autentici. 

Il blu come coloritura politica, la voce e la tattilità come memoria del corpo, diventano, nell’opera di questo artista, sensibile sismografo dell’esistente, fondamentale antidoto all’oblìo in una società connotata, come quella contemporanea, dalla velocità di obliterazione di fatti e discorsi, di infantilizzazione in progress di consumatori consumati dal dilagare planetario dello stereotipo. L’ipercrescita dell’informazione massmediatica, la virtualizzazione dei rapporti anche fisici, rendono l’uomo antropologicamente inadeguato rispetto alle sue creazioni, tendenti inarrestabilmente e insidiosamente ad acquisire autonomia.

L’orizzonte teorico, che si profila di fronte all’ampiamente strutturato progetto savonese di Livia Savorelli, implicante fatti, incidenti, rammemorazioni, indignazioni, testimonianze, è quello dell’Arte o Estetica relazionale, elaborato, negli anni Novanta, dal critico e curatore francese Nicolas Bourriaud. L’opera, infatti, di Giovanni Gaggia si connota come forma d’arte socialmente/politicamente/antropologicamente impegnata, coinvolgente l’altro, la collettività, nella definizione di un processo che ha come esito un’azione comune dai possibili risvolti liberatorio/terapeutici, dai contorni indefinibili materialmente, ma dagli intensi effetti meditativi, estetico-comunicativi, rammemorativi, critici e autocritici.


Giovanni Gaggia
Ho visto un’alba blu
Museo della Ceramica di Savona
a cura di Livia Savorelli