Climate Social Camp

A ridosso dei “Climate Social Camp” (2a parte)

Sembra che la strategia politica vincente sia vivere il proprio attivismo – così come fanno quelli della Terza edizione del Venice Climate Camp (dal 7 all’11 settembre 2022; un campeggio per il clima al Lido di Venezia (VE) nella capitale lagunare – contro la fuffa pseudo-politica delle Biennali dell’industria culturale. Tale condizione pone in evidenza l’esigenza di riuscire a riconoscere le proprie “situazionalità ecologiste”, a non averne paura, a farvi fronte e a orientarle in modo positivo e costruttivo, per il raggiungimento dei traguardi e degli interessi dell’intera collettività mondiale. D’altra parte, la vita umana senza “situazionalità ecologiste e politiche” sarebbe semplicemente inconcepibile e inimmaginabile. Non soltanto perché diventeremmo dei robot, eterni fruitori, ma soprattutto perché le possibilità della nostra sopravvivenza si ridurrebbero in modo significativo, come pure la qualità della nostra esistenza.

1. Questo non è più il tempo della riflessione, dell’esitazione, o addirittura dei portatori di installazioni alternative che aprono mondi. Sorry, but il vostro ritmo, cari amici (leggi pure nemici) atlantisti non era di questo mondo! E ora, ecco qua, al posto delle grandi installazioni di land art e delle grandi kermesse dell’arte ambientalista e sociale sui generis, le vittime dell’inquinamento, della crisi climatica, dell’accelerazionismo suicida, la dromologia del capitale tossico, elargita e cosparsa, rastrellata o dinamizzata, popola i quartieri dei proletari e dei sottoproletari, lungo le strade conformate “dal senza uscita” del cambiamento tachico del mondo. Non uno sguardo di rabbia, e nemmeno di organizzazione alla resistenza, per quelli che hanno voluto mancare di critica e di fiducia in questi tempi della crisi. Per essere precisi, loro non sono gauchiste, non sono mai stati gauchiste, non hanno nulla a che fare con l’impegno politico, hanno solo perso il potere e l’autorità e stanno vedendo, tramite la nuova «fase engage», come riconquistarlo. Si concedono il lusso di convivere con la ristrettezza ambientalista, mentre la specie mutante degli ottimisti hacker ha confuso l’orizzonte letterario con il paesaggio del reale. Le emozioni associate all’impegno ecologico sono una realtà molto complessa e, in gran parte, ancora misteriosa, nonostante nel corso dei millenni siano state esplorate da critici e letterati, e siano state studiate scientificamente in modo sistematico da oltre un secolo a vari livelli (biologico, soggettivo, relazionale, culturale ed artistico). La complessità della militanza ecologista dipende essenzialmente dal fatto che essa, organicamente, ha profonde radici neurobiologiche nel nostro organismo; è un’esperienza soggettiva, dotata di importanti significati in connessione con i propri interessi e appartenenze di classe, ha una valenza sociale nelle relazioni con gli altri, definite dalla cultura economica, politica, sociale, linguistica e percettiva di appartenenza. Tutti questi aspetti interagiscono fra loro e s’influenzano a vicenda in modo profondo (naturalmente qui non uso il termine alla maniera della deep ecology e storie simili), con la confluenza che le emozioni costituiscono esperienze politiche multiformi, che attraversano e pervadono tutto il nostro organismo a contatto con l’habitat. Una complessità talvolta così elevata che diventa difficile persino dare un nome alle proprie esperienze di “situazionalità ecologista” (parlavo di tutto questo già nella raccolta degli scritti del 1993: Medialismo, Politi, Milano; soprattutto nei primi tre o quattro saggi introduttivi di quel volume). Nello stesso tempo, le situazionalità ecologiste costituiscono una realtà, in certo modo, conflittuale e ambigua. Nel momento stesso in cui una persona cerca di regolarle e di controllarle in modo sistematico, esse si sottraggono a tale controllo e, spesso, si trasformano in forme di resistenza clandestina e di disordine movimentista. Se, viceversa, un soggetto attivo si lascia andare, e rimane in balia delle astrazioni ecologico-emozionali, come i teorici della deep ecology, si trova in grande difficoltà a gestire la propria esperienza.

Sembra che la strategia politica vincente sia vivere il proprio attivismo – così come fanno quelli della Terza edizione del Venice Climate Camp (dal 7 all’11 settembre 2022; un campeggio per il clima al Lido di Venezia (VE) nella capitale lagunare – contro la fuffa pseudo-politica delle Biennali dell’industria culturale. Tale condizione pone in evidenza l’esigenza di riuscire a riconoscere le proprie situazionalità ecologiste, a non averne paura, a farvi fronte e a orientarle in modo positivo e costruttivo per il raggiungimento dei traguardi e degli interessi dell’intera collettività mondiale. D’altra parte, la vita umana senza situazionalità ecologiste e politiche sarebbe semplicemente inconcepibile e inimmaginabile. Non soltanto perché diventeremmo dei robot, eterni fruitori, ma soprattutto perché le possibilità della nostra sopravvivenza si ridurrebbero in modo significativo, come pure la qualità della nostra esistenza. In caso di emergenza totale come il nostro, come l’attuale allarme del pianeta terra, le forme di situazionalità ecologista sono segnali di attenzione e di priorità bisognologica. Di fronte ad un periodo improvviso, esse interrompono le attività precedenti e orientano tutte le nostre energie per far fronte al pericolo stesso. In tal modo, le forme di situazionalità ecologista ci aiutano in molte condizioni impreviste, quando talvolta si salva la vita per questionare alcuni steep, come la coraggiosa riproposizione della decrescita (e dell’intersezionalità) da parte del Climate Social Camp di Venezia. Se le situazionalità ci spingono a porci dei problemi, la loro natura più genuina è quella di mettere alla prova la nostra creatività politica(vedi:A ridosso dei “Climate Social Camp” (prima parte) – segnonline). La storia, questa volta, ci chiede di pensare in modo diverso all’evento inaspettato che ci ha provocato e alle sue implicazioni. La sua insistenza ci spinge a concentrarci. L’ecologia è, molto semplicemente, l’espressione biologica. Non si intende espressione come l’aggrottar sopracciglia quando si è in collera, o il sorriso quando si è felici e nemmeno una semplice definizione di una forma ecologica, ad esempio: “Siamo invidiosi di quella animalità”. Ciò che gli attivisti del CSC intendono è esplorare dettagliatamente una nuova situazionalità e quanto ha di peculiare. Immaginate una voce unica di questi ragazzi, dice il richiamo anonimo dell’attivismo: «Nella cornice di Venezia, città che sorge a pelo dell’acqua e vive quotidianamente la minaccia di essere sommersa dall’innalzamento dei mari, diamo appuntamento ad attivistə da tutto il mondo per confrontarci e costruire iniziative sempre più forti, durante la settimana della Mostra del Cinema, quando le telecamere di tutto il mondo sono puntate su Venezia. Lo facciamo in corrispondenza e in dialogo con la conferenza Decrescita: se non ora quando, organizzata a dieci anni dalla Terza Conferenza Internazionale per la Decrescita, con la volontà di allargare l’orizzonte entro cui muoviamo le nostre riflessioni, organizziamo le nostre azioni ed elaboriamo le nostre proposte. Crisi climatica, risorse, decolonizzazione, giustizia sociale, lavoro …».

2. La morte di più di cento tonnellate di pesci nel fiume Order, al confine tra Germania e Polonia, potrebbe essere stata causata da un’alga tossica, la Prymnesium parvum e quindi non è l’oggetto di un romanzo da incubo. La proliferazione dell’alga sarebbe stata favorita dalla salinità anomala delle acque del fiume, probabilmente dovuta a fattori industriali o ambientali (basso livello del fiume e alte temperature). Il Mediterraneo sarebbe uno dei mari che si sta scaldando più velocemente. Di conseguenza, sta diventando più ospitale per le specie aliene e per i nuovi Aldous Huxley. Negli ultimi vent’anni, il 90% dei disastri avvenuti sulla terra sono stati causati da eventi meteorologici estremi, come inondazioni, tempeste, ondate di calore: 6.457 catastrofi meteorologiche sono state registrate in tutto il mondo. Tali catastrofi hanno prodotto 606.000 vittime, una media di circa 30.000 all’anno, con ulteriori 4,1 miliardi di persone ferite, senza tetto o bisognosi di assistenza. 2019, incendi della Foresta Amazzonica: più di 72 mila incendi boschivi vengono riscontrati in Amazzonia dall’inizio del 2019, un aumento dell’83% rispetto all’anno precedente. Si tratta di incendi dolosi, provocati per fare spazio a terreni agricoli e, soprattutto, per l’allevamento dei bovini. Un ruolo importante è da attribuire anche al cambiamento climatico, che ha reso la foresta pluviale più suscettibile al fuoco a causa della maggiore siccità. Maggio 2020, fuoriuscita di combustibile diesel e di lubrificanti nel fiume Ambarnaya, Siberia: il collasso di una centrale elettrica porta ad una fuoriuscita di oltre 20 mila tonnellate di combustibile diesel e di lubrificanti nel fiume che rifornisce di acqua potabile la vicina Norilsk e rischia di confluire nel mar di Kara, con ripercussioni negative senza precedenti sulle risorse idriche, sugli animali che bevono quell’acqua e sulle piante che crescono sulle rive.

Luglio 2020, riversamento di olio combustibile da nave cargo, Mauritius: secondo le stime, si sarebbero riversate nella laguna mille tonnellate di olio combustibile. I danni sulla vita marina sono stati ingenti, essendo i prodotti chimici che compongono il combustibile tossici per gli animali e le piante, tra cui le foreste di mangrovie e i coralli che costituiscono le barriere. Giugno 2021, caldo estremo: la temperatura sfiora i 50 gradi in Canada, un livello impensabile per questo stato del nord America, si tratta del valore più alto mai registrato nella storia. Più di 200 persone sono morte in relazione a questa eccezionale ondata di calore. In corso, deposito di rifiuti elettronici a Guiyu, Cina: lo sgravato di parti elettroniche obsolete è un problema in diversi luoghi del mondo. A Guiyu il fenomeno è incredibilmente gigantesco, il che ha portato ad alti livelli di velenosità di leghe metalliche e consistenze chimiche nei sistemi idrici della regione. L’88% dei neonati (della provincia) soffre di avvelenamento da piombo e il tasso di aborti spontanei è più alto del normale. In corso, la lenta morte del lago Victoria: il più grande lago dell’Africa è il centro di una tempesta di crisi ambientali, inquinamento chimico e delle acque reflue grezze; pesca eccessiva; piante di giacinto d’acqua e fioriture di alghe soffocano la flora e la fauna. 40 milioni di persone in Uganda, Kenya e Tanzania dipendono dal lago Vittoria per il loro sostentamento, rendendo questo uno dei peggiori disastri ambientali. Il mondo ha aggiunto circa 1 miliardo di abitanti negli ultimi 15 anni e si prevede che la popolazione mondiale raggiungerà i 10 miliardi nel 2050 e gli 11,2 miliardi nel 2100. In questo contesto, l’Overshoot Day – il giorno a partire dal quale la domanda di risorse ambientali da parte dell’uomo diventa superiore a quelle che la terra è in grado di generare – ha evidenziato nel 2019 che se i ritmi di consumo degli italiani fossero quelli di tutti gli abitanti del nostro pianeta, avremmo bisogno di circa 2,72 terre per soddisfare tutte le nostre richieste. Le attuali misurazioni di CO2 hanno superato le 400 parti per milione (PPM), battendo così ogni record a partire da 400.000 anni fa. Ad oggi, la CO2 ha già contribuito all’aumento di quasi 1°C della temperatura media del pianeta. Inoltre, la CO2 si dissolve nell’oceano legandosi con l’acqua di mare creando acido carbonico, contribuendo così all’acidificazione degli oceani. Negli ultimi anni l’acidità degli oceani è aumentata di circa il 30% rispetto agli ultimi 200 anni, livello che l’oceano non ha raggiunto in oltre 20 milioni di anni. I danni catastrofici stanno quindi crescendo a ritmo più sostenuto con un relativo aumento incrementale dei danni ad essi connessi.

La consapevolezza e l’evidenza di questi fenomeni è dunque cruciale per elaborare e implementare delle azioni preventive, adeguate a contenere i costi e a proteggere la natura e gli esseri umani. In un mondo futuro fondamentalmente trasformato, un mondo in cui l’innalzamento dei livelli dei mari avrà inghiottito le Sundarban (più grande foresta di mangrovie del mondo) e reso inabitabili città come Kolkata, New York e Bangkok, i lettori e i frequentatori di musei si rivolgeranno all’arte e alla letteratura della nostra epoca cercandovi tracce e segni premonitori del mondo disastrato che avranno ricevuto in eredità. E non trovandone, cosa potranno o dovranno pensare, se non concludere che nella nostra epoca arte e letteratura venivano praticate perlopiù per esorcizzare i pericoli e le sciagure cui si andava incontro? E allora, questa nostra epoca, così fiera della propria coscienza, verrà definita l’epoca della Grande Incoscienza?

Senza averlo detto esplicitamente, è evidente che sullo sfondo di tutte le nostre ricerche v’è un concetto preciso di situazionalità ecologista e politica e, in particolare, di valore strutturale di natura, produzione e bisogni umani. È l’idea sviluppata dalla semiotica di Lotman e da quella di Ferruccio Rossi-Landi, che definisce questo valore come una tensione tra la molteplicità e la ricchezza sensibile, da un lato, e l’unità che organizza questa molteplicità in un insieme coerente, dall’altro. In questa prospettiva, un’opera di situazionalità ecologista appare tanto più valida ed importante, quanto più forte ed efficacemente superata è questa tensione, ovvero quanto più grande è la ricchezza e la molteplicità sensibile del suo universo e quanto più questo universo è rigorosamente organizzato e costituisce un’unità organica.

Integrando queste riflessioni alle considerazioni fin qui sviluppate, si giunge all’idea che quasi tutte le grandi opere situazionali hanno una funzione particolarmente critica nella misura in cui, creando un universo ricco di partecipazione, esse giungono anche ad esprimere le posizioni che condannano e, per rendere concreti e viventi i luoghi e i tempi dell’attivismo che le incarnano, arrivino ad esprimere tutto ciò che si può umanamente avanzare in favore del comportamento movimentista.

Ne deriva che queste situazionalità, anche se esprimono una visione del mondo particolare, già per ragioni micro o macro economiche e biologiche, già per ragioni ecologiche e politiche, sono portate a formulare anche i limiti di questa visione e i valori umani che bisogna sacrificare per difenderle.

La conseguenza è che, sul piano ecologico, si potrebbe naturalmente andare assai più lontano di quanto non abbiamo fatto finora, mettendo in luce dell’azione ecologica tutti gli elementi antagonisti, che la visione strutturata deve Trasumanar e organizzar (vedi l’opera di Pier Paolo Pasolini,1971). L’ecologista attuale evita il tono nasale della protesta tradizionale, evita i falsetti o gli scarponi di certi sperimentalismi o avanguardismi, evita retoriche o contro-retoriche, semplicemente perché non gli sono congeniali, o non sono adatte al suo sentire. Ma soprattutto non sono affini a una “situazionalità ecologica”, che intende fortemente cercare il “Tu” del colloquio per esporre delle ragioni, convincere, toccare nel segno della sferosofia (vedi ancora il mio testo del 1994, Perugia). Ecco allora il senso di questo tono da CSC, quasi posteriore a Murray Bookchin, accuratamente lontano da ogni artificio retorico codificato; “democratico”, per così dire, nel senso che ha per obiettivo il coinvolgimento dei militanti e delle urgenze in un dialogo che lo vuole parte attiva. Per scrivere il suo Climate Social Camp (o meglio: per salvare la sua  voce dall’insignificanza), il situazionista ecologico attuale ha inventato un nuovo artificio eco-politico, una nuova marginalità al confine tra l’happening e la manifestazione militante, che è quello di evitare quanto più possibile gli artifici retorici della propaganda politica. Ed è proprio questo insistente rivolo d’acqua di accenti controfattuali e biodiversi, nella Laguna-Lagunare dell’anti-Venezia dell’Industria Culturale, che si insinua e scava una sua breccia nella sensibilità del cittadino cosciente (vedi:Il Parassita («Le Parasite») – segnonline). Possiamo dire che sia questa un’operazione anti-artistica? Dipende da cosa si intenda per “arte”: le ambivalenze e i paradossi dell’happening, della politica e della militanza, stanno nel termine stesso. Se per “arte” intendiamo solo quella canonica degli “accademici” o qualcosa di vivo, incontenibile e inafferrabile e, dunque, anche non classificabile. A me pare che Pasolini, al di là di tutto questo, sia uno fra i  militanti dell’anticonformismo performatico più “artista” degli artisti della seconda metà del secolo; ma non certo un “accademico della neo-avanguardia”. Ecco, dunque, che il cerchio si chiude e, quasi paradossalmente, il Pasolini che “ricusa” la poesia diventa l’estremo difensore delle sue ragioni più profonde (vedi anche: Commentari: Hewlett – segnonline). Il tradimento dell’arte è infatti l’ideologia, l’operazione dubbia di tradurre in opere d’arte (gli zdanovisti) una visione ideologica o filosofica della realtà, un pensiero che vuole “spiegare e soccorrere” il mondo anziché viverlo, agirlo con l’innocenza e l’immediatezza dell’artista (critica dei valori proposta dall’arte concettuale sui generis).Trasumanar e organizzar è un’opera più che mai viva e attuale, un registro che non cessa di insegnare e che può essere un buon punto di partenza critico contro la “critica acritica”, ripresa da Susan Sontag e professata dal cadetto Germano Celant (con tutti i suoi annessi poveristici, landartistici e concettualistici), anche contro le ideologie (anche in arte, anche in  performance e in cinema; qui mi riferisco ai contenuti di Offmedia, Dedalo, Bari, 1977), ora più di allora nascoste e difficili da smascherare. E per l’happening del CSC, in qualunque forma si manifesti.