Commentari: Hewlett

Forse dobbiamo aspettarci dall’arte della parola – se l’arte riesce ancora, dopo tutto, a conservare una fondamentale forza critica – una risposta all’orgia del pressappoco. Una risposta adeguata, intendo, capace di fronteggiare le emergenze della cosiddetta proposta Hewlett! È possibile, e avrebbe senso, riproporre il problema che tenne occupato Maurice Hewlett almeno per i primi vent’anni del secolo scorso? Oggi, nel tempo dei new media e della realtà aumentata, delle guerre computerizzate e dell’informazione algoritmica? Avrebbe senso, voglio dire, chiedersi se e come possa e debba essere tematizzato il discrimine tra poesia e saggistica, tra ciò che si scrive e ciò che si spinge al di là della stessa figurazione scritta?

Esiste una parola fuori dalla sofistica che mette d’accordo tutti? Probabilmente quella parola è voce poetica al di là del saggio. Certo, ci sono diverse scuole di pensiero: c’è quella secondo la quale l’unico e il solo è il Lexicon Pasolini, il Pier Paolo del Diario Linguistico del ‘65; e c’è chi poi si accomoderebbe soltanto sotto l’Albero di Maggio e la Colonna di Maurice Hewlett. È la penna e gli occhi di Maurice Hewlett (1861 –1923) a stregare tutti. Voglio cominciare da The Maypole and the Column (1922), e dal problema della sua unità e del suo piano. Facendo riferimento agli scritti di Pasolini su poesia e giornalismo spero di dimostrare come il testo di Hewlett operi su due livelli o piani, che sono complementari. Hewlett nacque a Weybridge, Surrey. Studiò al London International College, situato a Spring Grove, Isleworth, ispirato a ideali altruistici e internazionalisti. Non arrivò mai a conseguire la laurea e cercò di diventare avvocato frequentando per circa 12 anni la facoltà di giurisprudenza, senza tuttavia mai percorrere la carriera legale, anche perché nel frattempo aveva raggiunto il successo con The Forest Lovers del 1898, ambientato nell’Inghilterra medievale (tradotto in numerose lingue tra cui anche in italiano). Fece numerosi viaggi in Italia, che letterariamente ispirarono due sue opere del 1895 Earthwork Out of Tuscany e The masque of dead Florentines, testo di poesia, e il successivo (1899) Little novels of Italy.

Tra le altre sue opere, prevalentemente romanzi storici, vanno ricordati Richard Yea-and-Nay (1900), The new Canterbury tales (1901, novelle), The Queen’s quair (1904), The road in Tuscany (1904), Fond adventures, tales of the youth of the world (1905) e The fool errant (1905). Da menzionare anche la sua opera poetica, in genere considerata in secondo piano: The lore of Proserpine (1913), The song of the plow (1916, poema narrativo), The village wife’s lament (1918). Dal 1896 lavorò con diversi incarichi governativi, inizialmente come Custode del Land Revenue Records e dal 1901 come consulente di diritto medievale. Dopo il matrimonio si era stabilito a Broad Chalke, nel Wiltshire. Strinse amicizia con Evelyn Underhill e Ezra Pound. Fu anche amico di J.M. Barrie, che sembra chiamasse uno dei pirati di Peter Pan “Cecco” ispirandosi al figlio di Hewlett. Sembra inoltre che il romanzo di Hewlett del 1900 The Life and Death of Richard Yea-and-Nay, ispirato a Richard the Lionheart, fosse il romanzo preferito di T. E. Lawrence. Maurice Hewlett morì nel 1923 a Broad Chalke, località situata a 13 km. da Salisbury.

In qualsiasi lingua, il piano di uno scritto (o di un saggio, se è per questo) riguarda il suo abbozzo o la sua struttura. Dà il senso di un obiettivo e di un traguardo. Sul set cinematografico ci dicono di non cominciare mai a scrivere prima di avere un piano preciso, cioè prima di sapere esattamente dove andremo a parare, dove ci porterà la scrittura filmica. Orientato verso il suo scopo e da esso, il piano della scrittura è essenzialmente teleologico. A questo proposito, il piano riguarda anche l’unità o la coerenza del testo scritto in questione. La poesia in tutti i suoi aspetti, la scrittura poetica in genere,esistono,hanno diritto a un pubblico riconoscimento, quando vengono recepite dal lettore, dal collettivo. Un testo scritto non sarebbe esistito senza l’autore; ma non esisterebbe senza un lettore. Onde i problemi anche tecnici della sua composizione, della sua scelta espressiva, della sua sostanza compositiva, ma anche della sua diffusione, distribuzione e affermazione. E.A. Poe nel suo saggio La Filosofia della composizione (1846), sostiene di non comprendere il motivo per cui non sia comparso ancora nel suo tempo, un trafiletto nel quale uno scrittore esponesse la propria tecnica di redazione. Gli scrittori – secondo Poe – vorrebbero farci credere che partono da una «estatica intuizione», nascondendo al pubblico tutto ciò che avviene davvero nella loro mente durante la composizione di un brano poetico o saggistico. L’originalità è fondamentale secondo Poe e non fa parte di mera intuizione, bensì di profonda ponderazione, ovvero di una concettualità che dimostra un progetto, un’esecuzione e uno scopo oppure un risultato. Ma l’operazione di scrivere presuppone quella di leggere come suo correlativo dialettico, e questi due comportamenti congiunti hanno bisogno di due agenti distinti e ben specificati, ben vissuti, ben definiti. Georges Bataille, perseguendo la sua solita strada provocatoria, in una voce di Documents (risalente al 1929-30) – che urtava il buon gusto di André Breton – scrive: “la parola esteta si è svalorizzata nello stesso modo di artista e poeta […]. C’è un piacere cinico a soffermarsi su parole che trascurano qualcosa di noi con loro fino alla pattumiera […] l’invecchiamento è lo stesso per un luogo comune come per un sistema di carburazione. […] Tutto ciò che, nell’ordine delle emozioni, risponde a un bisogno confessabile, è condannato a un perfezionamento, che, dall’altra sponda, si è obbligati a guardare con la stessa curiosità inquieta (o cinica) di un supplizio cinese qualsiasi” (Dedalo, Bari, 1974, p. 164).

Ciò che farà andare avanti (anche perché secondo la freccia del tempo solo in avanti possiamo andare) questa pratica concreta della poesia o della saggistica (nel caso di Bataille vedi l’Arcangelico o la Parte maledetta), sarà lo sforzo unitario dell’autore e del lettore. Insomma, vi è arte solo per mezzo degli altri e per gli altri, questo vuol dire che «tutta l’arte è relazionale», nel senso che tutta l’arte per essere vista, fruita, letta, assimilata, deve relazionarsi con gli altri e quindi tutta l’arte, allo stesso tempo, può essere intimista o politica. Le dimensioni sociali dell’appropiazionismo concettuale e mediale e dell’iper-traduzione sono importanti quanto le dimensioni trans-formative e trans-tecniche ad esse associate. Non c’è però nessun bisogno di negare l’importanza delle seconde per apprezzare le prime, nessun bisogno di ridurre le dimensioni mediali e psico-mediali a quelle socio-mediali. Non è assolutamente utile cercare di ricondurre ciascun aspetto dei media a falsi raggiri “artistici”. Questo ragionamento è applicabile anche all’economia dei media usati dai vari autori, ai quali i funzionalisti tradizionali (nonché i liberisti di sempre) cercano di ridurre tutti gli altri aspetti. «L’appropriazionismo mediale» non è una replica dell’artivismo vuoto e modaiolo, né una emblematizzazione meccanica del neo-situazionismo; non è comunque possibile discutere le sue dimensioni sociali e politiche senza soffermarsi a riflettere sul fondamentale saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936). Conseguentemente, pensare e appropriarsi di medialità, praticare fino in fondo le forme «embedded» – e mi riferisco alle pratiche mediali della rete fin dalla seconda metà degli anni ’90 (to embed, significa incastrare, incassare: indica quei sistemi informatici che si trovano all’interno di dispositivi diversi dal computer, spesso tradotto col termine “a bordo”) – è fare analisi del linguaggio, perché il medializzare consiste nel definire volta per volta, il nostro rapporto con le tracce, i codici, i segni trasmessi delle pratiche linguistiche. Come sottolineavo in uno dei saggi del 1993 che accompagnarono la mostra al Trevi Flash Art Museum, «l’appropriazionismo mediale» è l’eco che risuona lungo il tracciato dell’affinità, delle somiglianze che si istituiscono tra l’esperienza presente di una espressione e quelle che appartengono alla memoria delle arti, secondo un significato o una prospettiva che imputiamo a partire da noi stessi: Gesamtkunstkinema (come direbbe Walter Murch). Per questo, «appropriazione mediale» è sempre riflettere in un contesto nell’altro (convergenza di segni mediali). Il significato di un’espressione mediale, di una pratica mediale è avvertito nella sua affinità o nel suo rimando a circostanze, reali o possibili, il metaverso o comunità delle quali non è il termine di una moda (più o meno artistica), ma di un riconoscimento. Per il fatto che sono vie strutturalmente politiche e favolistiche e non sono subordinate ad una costruzione stilistica, ma corrispondono a reazioni to embed (chip a bordo, ubiquitous computing) convergono con una sovrapposizione costruttiva di atti. Anzi, con un’intera varietà di sovrapposizioni di segni mediali in un contesto, assume un ruolo primario il caso, ciò che è de/traduttivo e proto/traduttivo. La tesi principale esposta dal Medialismo è che la riproduzione veicola uno spostamento nella natura della composizione artistica, un cambiamento che dopo la distruzione dell’aura, o dopo il meccanismo di riappropriazione del rituale compositivo, distogliendosi dal contesto dell’unico e dell’originale, ricolloca l’arte tra inconscio politico e inconscio ludico (sex appeal dell’inorganico). Prendendo come esempio la fotografia, la letteratura, il cinema, il medialismo premette che la nuova tecnologia crea un ultimo tipo di potenziale politico per l’arte mediale, per la pratica dell’appropriazionismo, un potenziale che può anche essere conflittuale (si veda il caso di Ken Loach, di Julian Assange o di John Pilger), proprio come chi scrive ha analizzato il lavoro di Tommaso Tozzi, Giacomo Verde, Roberta Fiorentini, Luigi Baggi representative, Carlo Caloro, Francesco Di Loreto, Piero Gilardi, Ennio Bertrand, Limiteazero, Studio Azzurro, Tullio Brunone, Davide Maria Coltro etc …

Le tesi del Medialismo, sulla ricaduta politica delle tecnologie della riproduzione digitale e l’influenza delle teorie della ri-mediazione, trovano oggi un corrispettivo nella pretesa resistenziale avanzata da alcuni sostenitori dell’artivismo, secondo la quale i Nuovi Media e i Social in particolare, saranno in grado di produrre un nuovo tipo di scontro: anonimato vs riproduzione; rimediazione vs embedded.

Particolarmente incisiva ci sembra l’affermazione di Maurice Hawlett, che apre il piccolo saggio L’Albero di Maggio e la Colonna:“Per ragioni empiriche il saggista moderno è stato trascinato dall’albero di maggio alla colonna”. La pratica poetica col filtro saggistico o addirittura il saggio dopo la poesia, è importante. Si deve cercarlo, convincersi del grado di transitività tra l’uno e l’altro. Ha detto ancora la filologia: «che poesia sta per complessa disposizione ritmica e combinazione di parole in una sequenza dominata dal principio di equivalenza», ovvero dallo stretto rapporto semantico e fonetico dei segni. Da troppi anni viviamo in tempi di sperimentalismo e i lettori empirici non esistono. Dei soggetti proposti da Hewlett che girano o potrebbero girare intorno all’Albero non hanno nome e nulla sappiamo del loro valore, della loro età, dei motivi per cui accettano di scoprire l’Albero o la Colonna. Il poeta che scrive mira a una lucida e spietata autoanalisi, a un controllo da analista scrupoloso sui suoi stessi sentimenti: ma compaiono le prime incrinature e si allargano a dismisura, fino all’allucinazione e all’ossessione. Il saggismo giornalistico è arricchito ad un punto tale, che è difficilissimo incontrare qualcuno che ammetta di non provare interesse per una tragedia di Racine o un quadro di Raffaello. Da questo è il pensiero di sottofondo di un articolo di successo di Maurice Hewlett, intendiamo prendere l’avvio per alcune riflessioni sulla cultura della poesia o del saggio, la loro fine e la loro possibilità di sopravvivenza, i loro nemici e detrattori, i loro sostenitori e superstiti amici. Era già un’esigenza di F. Bacone, che viene citato da Hewlett! Secondo la teoria degli idoli avanzata da Bacone nel primo libro del Nuovo Organo le persone, se vogliono conseguire una “qualche comprensione vera”, devono liberarsi da quattro diversi idola mentis: gli idoli della tribù, della caverna, del foro e dello spettacolo fine a se stesso. Si tratta di false concezioni penetrate nell’intelletto umano per varie vie. Quelli che in questa sede ci interessano da vicino sono gli idoli del foro, idoli che sono i “più molesti di tutti” perché si sono insinuati nell’intelletto grazie alle parole. “Le persone credono che la loro ragione domini le parole; ma accade anche che le parole si ritorcano e riflettono la loro forza sull’intelletto”. Per criticare gli idoli del foro Bacone è costretto ad analizzare le tematiche della medialità e ad esaminare quelle che si presentano come malattie linguistiche frequenti. La dottrina della “critica degli idoli” si coniuga con un chiaro scetticismo linguistico che non è rivolto tanto alla chiarezza ed alla complessità della poesia e della riflessione scientifica, ma al verme ed alla convinzione del giornalismo, ovvero di ciò che la strada attuale del digitale definisce “click and mortar”. Il Seicento inglese eredita da Bacone questa sorta di scetticismo linguistico, che imporrà di volta in volta di giustificare, informare, o addirittura inventare ex-novo il linguaggio, per adottarlo ai fini autentici di quella che oggi chiamiamo “esperienza mediale”. Quindi, così come la cultura inglese sembra trovare, nell’opera di Bacone, non solo un’enciclopedia delle scienze umane e naturali, e un non mai dimenticato elenco dei mali che inficiano il mezzo (per la trasmissione del sapere), noi oggi tramite il Medialismo possiamo evocare non solo la fine dei media elettrici o la trasformazione del concetto di riproducibilità, ma della rimediazione di news, testi, musica e video, così come il web, la smart tv, lo smartphone, il video in 4k, … Dire e ascoltare sono i verbi che edificano la poesia, che mettono le gambe a ciò che sembra immobile e inestirpabile. Gli alberi si spostano e prendono casa sopra l’abisso, trapiantandosi al posto delle nostre paure, dell’ansia di sprofondare, di essere inghiottiti e non venire più fuori. Il fervore per la piantagione di ceppi (alla Beuys e prima ancora alla Walter Benjamin: mi riferisco all’interpretazione di Strada a senso unico in Rubrica: Critica in.finita (1) | L’AGE D’OR ), a tutti i livelli, anche quelli addomesticati e naturali, non è un’opera di difesa e neppure solo di compenso: è l’idea folle di coltivare l’oceano, di rendere probabile l’irrealizzabile, di trasformare un mondo scomodo in un vivaio. E ogni ciocco che cresce e si rianima, non è un pezzetto che torna al proprio posto, qualcosa che smette di darci noia, ma un miracolo che commuove e una ragione in più per vivere.

Gabriele Perretta, Commentario Hewlett, 2010

Maurice Hewlett
L’albero di Maggio e la Colonna
[titolo originale: The maypole and the Column, 1922]
(traduzione di Gabriele Perretta, check-up di Aurora Sofia Perretta)

In giorni di ben più saldi propositi di questi, giovanetti e fanciulle, nella prima prosperità dell’estate, preparavano nel verde un albero di maggio; ma prima di prendersi per mano e danzarvi intorno, avevano reso omaggio a ciò che esso rappresentava avvolgendolo con corone di fiori, e foglie, decorandolo con nastri variegati e appendendovi tanti cuori dorati per quanti ce n’erano tra loro di votiva inclinazione. In tal modo, ne trasfiguravano il significato e trasformavano un tronco d’albero scortecciato da rozzo emblema in alcunchè di gaio e di fantastico. Tutto questo mi servirà per illustrare come il poeta affronta la sua modesta e straordinaria idea; e nella sua più misurata disposizione, libero il saggista di affrontare la propria, ammesso che ne abbia una. Deve decorare il suo palo, o il suo concetto, non con rime, ma con discorsi sapienti o intelligenti. Deve girarlo o rigirarlo, non tanto perché gli ornamenti suonino o le campanelle trillino: piuttosto affinchè se ne possa vedere esaltata l’armonia della forma, enfatizzate le proporzioni e, tra tutte le cangianti luci ed ombre della sua ornamentazione, si possa tuttavia ravvisare quell’idea che esso è. Questa, perlomeno,è la mia personale idea di ciò che un saggista dovrebbe fare, sebbene mi renda conto che eminenti professionisti non sono stati d’accordo con me e non lo sono neppure in questo momento. Per ragioni che cercherò di esporre, il saggista moderno è stato trascinato dall’albero di maggio alla colonna.

Di certo il progenitore del saggio non drappeggiò con parole nessun albero di maggio. Montaigne era un filosofo sedentario, di quelli con la sonnolenza post-pranzo: da vino e nocciole. Una cosa era solita schiudersi all’altra, e l’una sembrava migliore dell’altra, al momento dell’ascolto. “Je n’enseigne point; je raconte”, diceva di se stesso; ed è vero. Ascoltarlo è un’educazione altruista, tuttavia è difficile pensare a Montaigne che balla sul verde. Ancora, l’impostazione di Bacone era aforistica. Il suo albero di maggio, anziché rivestirlo, lo fa a pezzi: ma uno ne ha allestito. Quando vuole, riesce a dare al suo assunto una piega arguta pari a quella del francese: “Non c’è persona che faccia il torto per il torto, bensì per procurarsi in tal modo un vantaggio, o il piacere, o l’onore, o qualcosa di simile. Perché dunque dovrei essere in irritazione con qualcuno se ama se stesso più di me?” (cit. di F. Bacon, “On Revenge in Essays, 1625).

È questo il suo pensiero, un fatto di vendetta e un bell’esempio del suo atteggiamento rispetto a un’idea astratta: farla continuamente a brandelli, arrivare al nocciolo. Ma può essere anche molto oscuro:“Il celibato bensì si confà agli ecclesiastici; poiché la carità difficilmente irrigherà la terra laddove prima deve colmare una pozza” (ibid.,“Of Marriage and Single Life, 1612). Questo è un ragionamento preventivo. Si deve saltellare intorno al palo prima che sia addobbato.

Ma da allora l’albero di maggio è precipitato in dissuetudine. Al suo posto il saggista moderno s’è fatto approntare un piedritto, e gli si chiede non di drappeggiarlo bensì di riempirlo. Questo genere di piedritto non è simbolo di fertilità della terra, ma troppo spesso ne è la tomba. Tuttavia ha offerto il destro al pettegolo, al loquace, al ciarlone, e al piacevole chiacchiericcio: per il Piedritto fa tutt’uno, purché venga riempito. Si può scrivere su qualcosa o su nulla; nella colonna ci puoi affondare i denti, o magari le si possono allungare stecche. Comunque sia, va riempita, non fa nulla se si è troppo lunghi. La lama di Procuste c’è. Se si è troppo corti … il Minotauro strepiterà per averne ancora.

William Hazlitt è il tipico esempio di giornalista-saggista. Poteva riempire una colonna con chicchessia, senza tuttavia un vero guadagno per la letteratura. Nella storia fa un’ingrata figura, asociale per non dire antisociale, con le sue cantonate, i suoi rozzi amori, i suoi indecorosi alterchi, i suoi odi insaziabili. La bile ingolfava, e mi son spesso chiesto cosa i nostri pastori del Wiltshire pensassero di lui, che s’abbatteva come un temporale sopra le combe di Winterslow. Nulla della “malinconia pastorale” di quelle erbose solitudini da mostra di sé nei suoi scritti, la cui veemenza sa più di fame che di sano appetito. In verità, non penso fosse un saggista tollerabile. Era troppo bramoso di distruggere, e spiccicato al suo John Bull, che preferirebbe di gran lunga rinunciare a un patrimonio piuttosto che a una sua bestia nera. Quanti ne odiava, e quanto! Intere nazioni in un sol colpo, come i francesi. Odiava Southey e Gifford, e per amor loro la Quarterly, Pitt e Castlereagh, Byron e Coleridge. Anche come amante era appassionato, ma nell’amore non trovava pace. Talvolta provava ambedue le passioni per la medesima persona. Burke, ad esempio: Odi et Amo, disse di lui. Manifestava i sintomi deleteri dell’amante violento, cioè poteva solo rendere onore al proprio amore a spese altrui. Pertanto Racine e Walter Scott vanno calpestati prima di apprezzare Shakespeare come si conviene. Di conseguenza, nel leggere Hazlitt, si prova una certa tensione che può solo essere superata in particolari occasioni dai suoi estatici trasporti (e mai nessuno scrittore si librò in più estatici voli). Il suo resoconto su Cavanagh, il giocatore di pallamuro, ne è un esempio; un altro il suo saggio su John Buncle. Per una volta, per due, mirò a un solo scopo, e non pensò a ferire alcuno.

Apprese a dilungarsi dalle riviste, che incoraggiavano il saggio ad essere un trattato e ad avere molte tediose pagine. Assillato dalle esemplificazioni non poteva certo ricusarle. Aveva il vezzo, comune a tutti i saggisti del suo tempo, condannati a riempire le loro colonne, di dire svariate volte la stessa cosa in modi leggermente diversi. Tutti lo facevano: Procter, Leigh Hunt, e Lamb, Lamb in modo meno noiso di altri; poiché Lamb esaltava l’immagine, o la disponeva sotto una luce migliore ad ogni aggiunta. Hazlitt, invece, la lasciava lì dov’era, o la celava.

Lamb era prima di tutto saggista, e con quel che avanzava giornalista. Una colonna veniva allestita: lui ne faceva un albero di maggio. Nessun artigiano ha ricoperto le idee proprie o vi ha saltellato intorno come Lamb. Trasfigura qualsiasi cosa tocchi; di più, la trasmuta. Il suo linguaggio secentesco, che potrebbe risultare fastidioso, fa parte del divertimento. In lui, per così dire, è serio-giocoso. Di solito è migliore senza, come in Blakesmoor o Barbara S+++ o Dream-Children; però di tutto Elia, la cosa più bella per me è quella in cui da capo a fondo echeggiano Burton e Sir Thomas Browne, A Quakers’ Meeting. Lì troverete proprio ciò che intendo con la mia abusata immagine dell’albero di maggio. Un tema allestito e decorato con amorosa arte; poi, tutt’intorno, l’intreccio di una danza, per lo più contegnosa, ma con degli involontari balzelli di lato, se gliene viene l’uzzolo. Lamb non poteva risparmiarsi un’arguzia neanche a un funerale; ma questa è una pura bellezza, una chiusa serena e incantevole.

“Gli indumenti stesi di un Quacchero sembrano incapaci di ricevere lordura; e in loro il nitore è qualcosa di più che l’assenza del suo contrario. Ogni Quacchera è un giglio, e quantesse a frotte giungono alle loro assemblee pentecostali da tutte le parti del Regno Unito, albicando le vie orientali della metropoli, ci appaiono schiere di Rifulgenti”.

Questo è ben più che danzare intorno ad un albero di maggio. È danzare dinanzi al Signore. […] Il giornalismo ama il particolare, mentre la letteratura deve tenersi stretta al generale. Il giornalismo accoglie l’effimero, ti dà la sua tiritera quotidiana in cambio del suo pane quotidiano, mentre la letteratura ha lo sguardo posato sulla posterità; di un fatto esprime lo spirito, piuttosto che il corpo; e pur non pretendendo un monumento più duraturo del bronzo, i suoi ministri ambiscono comunque di ottenerlo e cercano di meritarselo. Il genio fa quello che deve fare, e qui non occorre occuparsene. Shakespeare scrisse Hamlet su commissione, e Walter Scott The Bride of Lammermoor per poter aggiungere altra terra in quel di Tweedside. In tal modo il loro monumento l’ottennero senza averci mai dovuto pensare. E Keats, il quale ha detto che il suo nome era scritto nell’acqua? Non sapeva che era scritto con un inchiostro che con il tempo si fa sempre più nero? Ma a figure più modeste lasciamo fare con coscienza e premeditazione ciò che esseri migliori hanno compiuto per grazia divina. Il fatto di darsi tanta pena ad essere anche qualcos’altro, non comporta l’essere peggiori giornalisti.

È un lavoro duro, “Non faccio mai una vacanza. Il lunedì, verso mezzogiorno, alzo la testa e respiro per un’oretta, dopodiché lo sportello si richiude di nuovo e sono nella mia cella per sette giorni”. Così diceva Sainte-Beuve; ed ecco il commento di Matthew Arnold: “Le causeries erano a questo prezzo”. Un lavoro duro – ma il solo modo per servire i due padroni: trasformare la colonna in albero di maggio e misurare il ritmo della tua danza dedicatoria.