Gabriele Perretta, foedera naturae, 02, overprint 2000

Il Parassita («Le Parasite»)

Il primo obiettivo di questa recensione è quello di collocare il libro di Michel Serres, del 1980, in una prospettiva culturale generale, riconducendo in particolare il lavoro di curatela di Gaspare Polizzi a quei sistemi critici, che segnano scrittura e visione del mondo dello storico francese. A tali pagine fanno poi riferimento le licenze interpretative, che offrono ulteriori e più specifiche aperture. Ma, soprattutto, con un autore come Serres, l’apporto personale della critica, il suo «commento girovago» (“senza fissa dimora”), è di fatto insostituibile.

La storia delle piattole e dei topi si compie nello sviluppo di una potenziale aporia chimica, in cui disinfestazione e trattamenti ecologici sembrano ormai del tutto inutili: le efficacie ambientali si distruggono in zero secondi. Tachigonia o un minuto di commemorazione per le vittime dell’epidemia passiva o la guerra al mondo naturale. Questo non è più il tempo della sola riflessione, dell’esitazione o addirittura dei portatori di idee alternative. Sorry, but: le vostre infezioni non erano di questo mondo? E ora eccole qua, al loro posto, le vittime della velocità di catastrofe, viaggiata o vissuta, attraversata o ostracizzata: le riproduzioni popolano i quartieri dei senza tetto, lungo le strade senza uscita del mutamento biologico, sempre convinte della perdurante inutilità di diventare iperparassitiche. Da diversi anni ormai assistiamo, se mai ve ne fosse ancora bisogno, a continue dimostrazioni delle capacità adattative del modello economico-parassitario. E a nulla vale l’uso copioso del dispregiativo parassita nelle definizioni dell’attuale società del rischio (U. Beck) – che diviene di volta in volta post, post-dipendente – o di altrettanto eufemistici aggettivi come “avvelenata”, “infestata”, evocativa di una idea di collasso, o quanto meno di un trend da viale del tramonto. L’effetto di questo uso linguistico è stato ed è tuttora fuorviante anziché esplicativo. In primo luogo, perché questa immagine impatta quotidianamente con l’effettivo attualismo catastrofista; immagine che, in maniera paradossale, si esprime proprio nei momenti che dovrebbero ratificare la sopravvenuta inadeguatezza di questo stesso modello storico. Il parassitismo ha fatto irruzione nelle nostre conoscenze e anche nel nostro sentire contemporaneo, rendendo sempre più oscillanti e instabili i paradigmi e i criteri con i quali tradizionalmente abbiamo affrontato e affrontiamo ogni sfera e dimensione del vivere quotidiano, sino a scalfire inesorabilmente, penetrandolo, il nostro saldo e tranquillo mondo. Si schiudono così innanzi a noi, per il pensiero, per il “fare artistico” e per l’agire, orizzonti parassiti, che rendono altrettanto sterili e passivi il ruolo di soggetti sociali.

Il parassita nella vita è ciò che determina ogni situazione. Un parassita è attratto verso un altro essere: prende, ma non è ripreso. Quell’evento è in ritardo o in anticipo. Tutto qui. Esiste la natura, ma per qualcuno, ora, qui, circoscritta. La storia delle trasmissioni chimiche è la storia degli avverbi della storia. Al di là delle determinazioni temporali c’è la dottrina delle contaminazioni, non la vita ecologica. I virus senza significato, perché il significato è in funzione della temporalità.

“Io ti capisco”, significa, in questo momento (ora, qui) comprendo che le sue contaminazioni nei riguardi di … o in rapporto a qualcosa sono quelli che si dimostrano …

Gabriele Perretta, foedera naturae, overprint, 04, 2000

Percepiamo, a livello di senso comune, inesorabilmente, la cultura dell’inoperosità e il pensiero anti-ecologico come radicalmente in forma nella sua identità e nel suo esistere retrivo. Da qualsiasi prospettiva ci si ponga, scaturiscono domande di fondo che cercano di penetrare nel senso di ogni gesto svantaggioso. E se forse non si può parlare di futuro al di là dell’impero dell’inutile, esiste comunque un destino per la persona (contemporanea), un destino storico che condivide con la cultura della sterilità, che affonda, inevitabilmente, le proprie radici nei nostri difficili tempi, quelli di una società che, ad ogni svolta, deve essere inseguita da svantaggi. Interrogarsi intorno a questo destino è un po’ lo sforzo incoraggiato, attraverso queste trecento pagine dell’edizione originale Grasset & Fasquelle, di Michel Serres (dell’80), curate e ben commentate da Gaspare Polizzi per l’editore Mimesis (collana FILOSOFIE, diretta da Pierre Dalla Vigna)! L’odierna esistenza è incapace di cogliere ciò che è variopinto e casuale al di là del “perpetuarsi del parassitismo”: “La ragione illumina il mondo. L’amore lo salva” (En amour sommes-nous des bêtes? (Le Pommier, Paris, 2002, p.40). Passando attraverso l’analisi del rapporto malattia e ecologia del mondo, bellezza e bruttezza nella quotidianità, M. Serres ha cercato di indagare che cosa sono le nozioni di credere e sentire nell’individuo moderno, di svelare le ragioni del corpo, supportato dalle parole di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers:

“Come Serres ha mostrato, la caduta infinita fornisce un modello per pensare la genesi naturale, la perturbazione che fa nascere le cose. […] Il punto in cui le traiettorie cessano di essere determinate, là dove le foedera fati che governano il mondo ordinato e monotono delle evoluzioni deterministiche si spezzano, là comincia la natura. […] Alle foedera fati si costituiscono le foedera naturae, di cui Serres nota che esse designano altrettanto bene “leggi della natura”, legami locali, singolari, storici tra le cose, quanto un’alleanza, un contratto […] Tempo, razionalità e buon senso non si contrappongono più. Michel Serres ha spesso ricordato il rispetto che i contadini ed i marinai nutrono per il mondo di cui vivono. […] Come la crescita delle piante, la crescita di questa nuova natura popolata da macchine e tecniche, lo sviluppo di pratiche sociali e culturali, la crescita delle città, sono processi continui ed autonomi, che senza dubbio possono essere modificati ed organizzati dal nostro intervento, ma di cui bisogna rispettare il tempo intrinseco”(La nuova Alleanza. Metamorfosi della scienza, n. ed. in relazione alle pagine del commento delle opere di Michel Serres: -1977: La Naissance de la physique dans le texte de Lucrèce, Paris, Éditions de Minuit; – La Naissance de la physique dans le texte de Lucrèce: Fleuves et turbulences, edition de Minuit, 1977, etc …, cit. in: Einaudi, Torino, pp. 280-288).

Vorrei fare alcune riflessioni sulla forma traduttiva del parassita, e considerare se non si possa dire che in alcune filosofie lo sterile ricorre come forma enunciativa cruciale: vale a dire, come forma che dà la parola. Se pensiamo a questa parola – parassita – ancora una volta dobbiamo andare al di là, dove si soffre. Ma anche in quel luogo biologico dove si vive a spese di un altro, nel tipo scroccone sfrontato, amante della buona cucina, spesso invitato ad allietare con buffonerie i commensali, dove alla fine molto viene alla luce, emerge la cinicità, il funzionario culturale ateniese chiamato a partecipare alla divisione della vittima nei sacrifici. Dobbiamo ritornare al significato del parassita nella pianta priva di clorofilla per capire lo scenario della naturale nutrizione autotrofa:

“Il parassita inventa qualcosa di nuovo. Poiché non mangia come gli altri, egli costituisce una nuova logica. Incrocia, diagonalizza il traffico. Non baratta, scambia la moneta. Cerca di dare la voce contro la sostanza, il gassoso contro il solido, ovvero la sovrastruttura contro l’infrastruttura. Si ride, lo si espelle, ci si fa gioco di lui,lo si batte, egli ci inganna, ma inventa qualcosa di nuovo. Bisogna analizzare questa novità” (ed. Mimesis, pag. 60).

«Il parassita spesso si disse e si comprese come un inviato della fortuna, e dunque un tabù. Derise tutti gli atti terroristici dei suoi nemici e ne uscì vivo come uno che il destino artistico aveva chiamato al proprio posto; e così probabilmente fu. Apparve come un inviato biologico, come colui che doveva compiere qualcosa. In lui si imbatterono molte cose, come per l’ultima volta, e forse da sé non inventò nulla. Agì come sterile, nel nome e nello spirito di altri, sebbene in prima persona narcisa, presenzialista e curatore del niente. Ciò che accadde, non poteva appartenere ad un altro. In quel luogo e in quel tempo, il parassitismo accadde attraverso di lui, più come conflitto naturale che come azione propria. In altri tempi, si sarebbe detto inviato colà dalle forze della natura (fossero anche, dopo lunghe battaglie, quelle maligne tra la vita e la morte) ciò di cui gli stati, i comuni, le nazioni, i paesi, le provincie, le epidemie, le multinazionali della malattia sociale devono corrispondere testando il proprio destino.». 

Da quando l’esistenza si è scoperta agri-coltora (o agri-coltrice), ricorda ancora Michel Serres nelle note del Détachement (Flammarion, 1986, complesso alone semantico di culture/agriculture) è iniziata la stretta coabitazione con il mondo vegetale (per la propria sopravvivenza), ma anche con l’insetto trovato su una delle piante e ovviamente annientato. Così comincia la storia dell’essere e del parassita. I parassiti (dal greco périsitor, “commensale”, para, “presso” e sitos “cibo”, vedi anche Distacco. Apologo, tr. it. di A. Zanetello, Sellerio, Palermo, 1988) e le malattie sarebbero la dimostrazione tangibile della collera divina poiché, come recita l’Antico testamento, “le malattie delle piante sono state inviate sulla terra per punire l’Umanità peccatrice”. Forse l’inconsapevole e continuo volere entrare nell’anima dell’altro ed essere respinti è la faticosa eredità di un peccato d’origine. E tutta la storia è la determinazione dei punti più significativi dell’incomprensione e dei suoi risultati. Ogni contagio è basato su un rischio iniziale; l’ordine civile è un’imposizione. E se la storia è la memoria dell’umanità, nella drammatica opposizione del temporaneo con l’eterno, ciò che emerge nel temporaneo, è il conflitto. 

Ciò che contraddistingue lo sguardo filosofico, rispetto al semplice vedere quotidiano e all’osservare propriamente scientifico, è la facoltà di cogliere il dato fenomenico, in particolare, il volto e il corpo del contrasto, in quanto vita vissuta e da vivere. La magia della sopravvivenza naturale consiste, per il filosofo della scienza, nel fatto che esso non può essere ridotto né a mezzo materiale di una data intenzionalità cosciente, né a luogo di manifestazione dei processi fisiologici interni. Per il filosofo della scienza la malattia è, prioritariamente, medium biologico di una tensione polare fra esterno ed interno, visibile e invisibile. In ciò consiste la simbolicità della contaminazione e della crisi ecologica. Michel Serres (1930-2019) – saggista, storico della scienza e filosofo -, nella sua articolata produzione, mette in luce gli elementi di aleatorietà che starebbero alla base di una pretesa interpretazione razionale della realtà. Tutte le forme di vita trovano il loro sostentamento nell’ambiente naturale; tutte, quindi, svolgono attività che mirano ad appropriarsi delle risorse naturali necessarie ai propri bisogni. Gli organismi vegetali assorbono le radiazioni solari, i sali minerali, l’acqua; gli animali a loro volta, si nutrono di organismi vegetali. Tutte le persone sono inserite completamente in questa catena, in quanto traggono l’energia necessaria per la loro esistenza dallo sfruttamento terminale di complesse catene alimentari. La loro dipendenza dall’ambiente naturale è, perciò, fuori discussione, al di là del più sofisticato sviluppo tecnologico che essi possano raggiungere.

Ma i soggetti umani, in misura maggiore a quella di ogni altra specie, modificano l’ambiente fisico e biotico al fine di soddisfare i propri bisogni, non curandosi di mantenere l’equilibrio dei componenti che sono indispensabili alla propria esistenza. Ciò non è tutto: il soggetto umano è di fatto un organismo del tutto eccezionale, poiché nella sua esistenza, non solo richiede tutti i 40 elementi essenziali della vita delle altre specie, ma nella sua cultura (e coltura) utilizza tutti gli altri che non esistono in natura, li costruisce lui stesso: scorporando malattia da salute mentale, equilibrio biologico da malattia sociale, contaminazioni da salvificità e via di seguito.

Che succede oggi di diverso rispetto a qualche decennio fa? Ovvero rispetto a quando nel 1980 Michel Serres ci donava Le Parasite? Succede che siamo arrivati ad avvertire i limiti della biosfera terrestre entro cui viviamo. Cominciamo ad essere troppi con troppi problemi, ad avere bisogno di troppe cose e le cose cominciano a scarseggiare; cominciano a scarseggiare anche i mezzi per fronteggiare i rischi e i pericoli del trasporto biotico del pericolo parassita. E così lo spazio è popolato da più parassiti di quelli che immaginiamo. Il mondo comincia ad andare stretto anche ai parassiti-organici! A questo proposito: talvolta ci si diverte un po’ con l’immagine dei verdi che si riuniscono nel loro credo conservatore e magari spiegano anche i parassiti e quelli che invece dibattono sullo sterminio delle epidemie naturali e la serenità del parassitismo intestinale.

I limiti dello sviluppo. La prendo un po’ da lontano. Nel 1971 uscì il famoso libro I limiti dello sviluppo del Club di Roma. Era un’analisi computerizzata dei trends di crescita di cinque ordini di fenomeni – demografia, risorse, alimenti, industria, inquinamento – che concludeva dicendo : “badate se si seguita così tra il 2030 e il 2060 più o meno tutto andrà in crisi, non basterà più niente per nessuno, sarà la fine dell’umanità, o quanto meno della fase civile umana”. Nel 1992 è stato pubblicato un primo aggiornamento del Rapporto, col titolo Beyond the Limits (oltre i limiti), nel quale si sosteneva che erano già stati superati i limiti dell’“ampiezza di carico” del pianeta. Un secondo perfezionamento, dal titolo Limits to Growth: The 30-Year Update è stato pubblicato nel Giugno 2004. In questa versione, Donella Meadows, Jorgen Randers e Dennis Meadows hanno aggiornato e integrato la versione originale, trasferendo l’accento dall’esaurimento delle risorse alla degradazione dell’ambientePerché ciò che noi facciamo quotidianamente nell’ambito del sociale e del naturale – lavorare, produrre, inventare, consumare, costruire, distruggere – non è tutto? Perché la nostra società moderna, determinata da scienza e tecnica, politica e dominio privato, ha bisogno di logiche parassite? E cosa succederebbe se improvvisamente non ci fosse più parassitismo: né bioticità traduttiva, né organicità di vita e di morte, né disinfestazioni?

Ciò che le passate generazioni hanno sognato per secoli: una condizione di affrancamento, il più ampio possibile, dalla lotta per la sopravvivenza e dalla costrizione naturale allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, della donna sulla donna, del parassitismo sulla condizione naturale; noi, oggi, sembra – abbiamo questa impressione -, che nella parte sviluppata del mondo, lo abbiamo raggiunto. E ora ci succede, come al principio della favola quando il suo desiderio, nutrito per tanto tempo e con tanto spazio, finalmente si realizza il soggetto umano e frattanto sommerso di epidemie, guerre con la natura, con catastrofi ecologiche, emergenza di derattizzazione, blatterismo dilagante, metamorfosi malata dell’organismo animale, estinzione delle specie, assalti così violenti e immediati che questo stesso soggetto non sa più cosa fare di questo dono insperato, del destino che lo rende (anzi) impacciato e infelice.

Gabriele Perretta, foedera naturae, ccprint, 2000

Nel tentare di definire il concetto di parassita, sono stato costretto, come si sarà notato, a formalizzazioni piuttosto astratte. Le ragioni di tali difficoltà vanno ricercate, a mio avviso, nella natura eminentemente contestuale del progetto serressiano. Scovare il parassita significa infatti, nella pratica di Michel Serres, agire entro contesti convenzionali destabilizzandoli, rendendoli emergenti, compendiandoli. Basti pensare alle caratteristiche degli epitomi editoriali serresiani, che non si presentano attraverso una architettonica lineare, piuttosto muovono in forma polifonica da voci sparse di una enciclopedia della nostra memoria scientifica e filosofica. Una ricostruzione dell’itinerario di pensiero dell’autore di Le Parasite non può, a mio avviso, prescindere dal concetto di ecologia e di guerra biologica. I limiti entro cui la filosofia serressiana spazia, sono difficilmente definibili. Serres, partito dai risultati raggiunti nel campo della filosofia della scienza non basata su un unico metalinguaggio, affronta il concetto di scambio e di corrispondenza tra le discipline. M. Serres, grazie soprattutto alle analisi trans-disciplinari, non aderisce ad alcuna scuola di pensiero e si evolve nella problematica ecologista: il recupero degli oggetti di indagine, la critica al pensiero marxista e la tematica del corpo come discrimine. Parlare di analisi culturale delle società parassitarie costituiva, alla fine degli anni ’70, in Francia, una utopia e una eresia, condannata dalla maggioranza del mondo accademico. In accreditate riviste scientifiche, si definiva “scienza del caos pensante” la “filosofia dei topi”. A questa non erano attribuite titolarità di ruolo o di altro tipo. Agli inizi degli anni ’80, all’epistemologia complessa – per passare ad una materia assai vicina a Michel Serres e più accettata dalla cultura accademica – non erano conferiti riconoscimenti addomesticabili. Non si tratta di dare per scontati i due termini in rapporto, quasi che sia in discussione solo un particolare della filosofia di Serres, ovvero il modo di essere del pensatore francese nella filosofia e nella sua letteratura. Infatti da Serres in poi, è chiaro che l’incontro in questione è decisivo per l’essenza stessa del filosofare, giacché dopo Serres, essere filosofo ha un significato del tutto particolare. Da un lato si afferma una tradizione che si affida a J-J Rousseau, per cui il pensiero di Michel Serres segnerebbe una frattura all’interno della critica come tale: Serres, in questa prospettiva, rappresenterebbe il tramonto dell’epistemologia sistematica e l’avvio di una nuova critica epistemica. Dall’altro lato, è nota la prospettiva rousseauiana, per cui M. Serres, segnando un momento decisivo nella storia della speculazione epistemologica occidentale, incarna l’avvento di un’epoca di malattia parassitaria, l’epoca della tecnica dispiegata. È evidente che questa tesi ha una maggiore radicalità rispetto all’altra. Secondo M. Serres, con il calcolo aporetico del parassita in J-J Rousseau la critica moderna è compiuta. La politica è ora pronta a convertirsi in distopia parassita, strumento di pianificazione e di dominio dell’universo. È proprio la casualità della peste in Millard Meiss nel 1951 e del colera in Gabriel Garcia Marquez, infatti, a costituire l’elemento cardine di rottura rispetto alla funzione di regolarità causale delle metodologie scientifiche di osservazione di natura e progresso. Nel 1951, Millard Meiss pubblicò un saggio, La Pittura a Firenze e Siena dopo la morte nera, che fece un certo scalpore. Sosteneva, lo storico dell’arte americano, sulla base di minuziose analisi iconologiche e critiche delle opere, che gli artisti toscani avevano cominciato a dipingere in un modo diverso, dopo l’infuriare della spaventosa epidemia di peste del 1347-1348, quella del Decamerone di Boccaccio, per capirci. Il trauma, sostiene (semplifico un po’) Meiss, si era lasciato dietro una società non soltanto provata materialmente e decimata, ma anche profondamente impaurita, incerta, in preda all’ansia, alla ricerca di certezze(trad. it.,  Einaudi, Torino 1982). L’amore ai tempi del colera è il primo romanzo pubblicato da García Márquez, dopo il premio Nobel; mai nessuna sua opera riceverà così tante critiche da chi lo aspetta al varco, pur ottenendo uno smisurato successo di pubblico. Il viaggio finale dei due amanti rievoca le undici navigazioni dell’autore sullo stesso fiume, che negli anni Ottanta era già un fiume morto, contaminato e distrutto dal disboscamento selvaggio. Tentativo di scrivere un romanzo autenticamente popolare tra natura umana e maltrattamento dell’ambiente, conservando “la sofisticazione di un’elevata coscienza modernista”, si riversa nello spettro della decadenza parassitaria.

In Le Mal propre: polluer pour s’approprier? (Le Pommier, Paris, 2008; trad. it. di Emanuele Schiano di Pepe, Il mal sano. Contaminiamo per possedere?, Il Melangolo, Genova, 2009) nel quale Michel Serres tenta a sua volta di ri-definire la semiotica del male, in vista di una traduzione in altra lingua: “Che io sappia, noi predatori al vertice della catena alimentare uccidiamo e divoriamo animali e vegetali senza domandare il loro consenso. Ci danno il loro sangue, la loro carne, le ossa, la pelle. In base a quale diritto non scritto pensiamo che gli animali, le piante e il mondo ci appartengano? Insomma che queste sensazioni, che questi esseri, ci sono stati dati e che ne possiamo disporre tranquillamente? Saccheggiamo il mondo come il fabbricante e lo Stato che mi espropriano l’auto? Portando il ferro e la morte, ci proclamiamo padroni e proprietari. Viviamo e mangiamo come parassiti di questo mondo.” (Il mal sano, cit., pp. 36-37).

È stato Michel Serres, nel suo saggio del 1980 su Le Parasite, a conferire il nome comune di epistemologia del male ecologico alla triade Invezione-Progresso-Regresso. Secondo Michel Serres ( che in ciò sintetizza una posizione assai datata nell’evoluzione del pensiero post-strutturalista dagli anni Settanta agli Ottanta), il legame che unisce paradigmi almeno originariamente remoti gli uni dagli altri per metodo e intenzioni, consisterebbe in un unico atteggiamento smascherante, in una demistificazione programmatica e radicale della stessa evoluzione epistemica. 

Pensare, per il paradigma del parassita, per gli «oggetti-mondo» prodotti da una «specie vincitrice e proprietaria della natura» (Il contratto naturale (1990), tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano, 1991, p.26), significa interpretare: “… i residui solidi, liquidi e gassosi prodotti dalle grandi industrie o le gigantesche discariche di rifiuti che marcano vilmente le grandi città e dall’altro le immagini e i vari tsunami della scrittura, del segno, del logo, la cui pubblicità sommerge letteralmente lo spazio rurale e civico, pubblico, naturale e paesaggistico. Nettamente differenti, almeno dal punto di vista energetico, rifiuti e marche risultano nondimeno del medesimo gesto contaminante, della medesima intenzione di appropriazione, di origine animale” (Il mal sano, ivi, cit., p. 56). L’interpretazione segue però un processo parassitario: per essa, non solo le tradizioni, le idee ricevute, l’ideologia sono ingannevoli e mistificanti; ma la stessa nozione di «parassita biologico» è l’effetto di una stratificazione (e mistificazione) storica; ha origini retoriche, emotive, interessate. Il parassita, il senso autentico di cui le apparenze biologiche e le formazioni meno visibili sono la metafora, è a sua volta qualcosa di oscuro e di derivato, qualcosa che deve essere sottoposto a interpretazione. Come scrive Michel Serres: “il prefisso para- che significa vicino, a fianco di, misura una distanza, come uno scarto …. Il sitos è il cibo. In questa bocca aperta che parla e che mangia, ciò che è vicino al mangiare, la sua funzione vicina a quella che appunto emette il suono. Para-misura una differenza tra una ricezione e, al contrario, un’espansione (ed. Mimesis, 2022, p. 178). Anche sotto l’influsso di circostanze esteriori, appartenenti alla storia della cultura, dell’arte e in senso lato, la «percezione della semiosi parassita» ha incontrato, specialmente nel quarantennio trascorso dalla prima uscita, una grande fortuna (si pensi, ad esempio, a fenomeni come la Ecologist Renaissance prima e dopo Porto Alegre, alla diffusione capillare di una nuova semiotica della malattia, etc…).