… À LA RECHERCHE
…(Fluidity & resistenza critica [III parte])

Un concetto di resistenza non meglio identificato introduce una sorta di principio di lavoro critico nell’analisi della fluidocrazia, praticamente sacrificando, anche se in modo totalmente inconfessato, una vasta gamma di possibilità mediali che vanno dalla poesia alla scienza. Su questo punto osserva Shlomo, Perretta appare “quel ch’è”, per la sua resistenza, nonostante ogni dichiarazione contraria, a riconoscere deviazioni positive dal solco del linguaggio ordinario. È questo anche il parere di Enrico Maria Sestante, che riconosce a Perretta senza mezzi termini, una “medialità costante e critica”, denunciando inoltre il fatto che il suo approccio di analisi della fluidità non ha altro contraddittorio all’infuori di una sorta di aporia .

La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glien’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.

Eugenio Montale

“La critica d’arte in un’opera di fantasia”, parafrasò Stendhal, “è come un colpo di pistola nel bel mezzo di un concerto, qualcosa di sfacciato e rimbombante, del quale, tuttavia, non è possibile non accorgersi”. La parafrasi è molto acuta, ma resta in noi il rimpianto che Stendhal, i cui lavori sono tutti squarciati da un taglio di Fontana ante-litteram, non si sia preoccupato di dire qualcosa di più. Una volta partito il colpo che conseguenze ha sull’arte? Il rumore importuno può mai entrare a fare parte dell’esecuzione di un opera o del processo critico? Quando si accoglie con piacere l’interruzione epistemologica e quando ci disturba? Per rispondere a queste domande si è tentato di passare direttamente all’esame dei casi specifici, affrontando subito quelle sgradevoli disarmonie che formeranno l’argomento del nostro punto di resistenza e a cui Stendhal allude senza entrare in particolari. E lo faremo tra non molto, esamineremo un certo numero di opere significative, ognuna delle quali sia influenzato più o meno sensibilmente da una corrente dominante del pensiero critico post-moderno, per capire in che modo e fino a che punto l’intrusione della fluidocrazia (violenta della curatorialità) condizioni il mondo della creazione artistica (https://segnonline.it/perdenti-critici-o-critici-perdenti-i-parte/). Ma, anzitutto, si impongono alcune considerazioni generali. Etichette, categorie, definizioni – specie se applicate ad un mostro di natura, irregolare e scrittografico come la critica d’arte – non mi soddisfano in questa sede. Che una scrittura critica si possa definire fluida o resistenziale – e spesso è poco di più che una questione di opportunità pratica – mi sembra che non abbia un piccolo peso. Ci domanderemo piuttosto perché un determinato critico, con tutto il peso della sua esperienza, proponga di adottare l’una o l’altra di queste performance; quale arricchimento quel determinato tipo di lettura ci porti; quale tipo di analisi usi il critico o quali complessi di epistemologie abbia a disposizione per persuaderci a concedere la sua disamina, come si concede ad un architetto che la sua struttura è ben calcolata. A me interessano resistenze epistemiche, non categorie classificatorie. Non c’è dubbio che le distinzioni di genere possano essere molto utili nelle analisi della lingua critica: esse ci addestrano ad evitare ipotesi di lavoro falso o irrilevanti e ci allenano a formulare ipotesi giuste, entro limiti non troppo rigidi; esse ci informano – se mi è permesso di ricorrere ad un esempio familiare ma sempre utile – a non aspettarsi una lunga ed apologetica analisi sulle gesta di un “eroe acritico” quando leggiamo una “poesia critica”. Ma non intendiamo riferirci a generi letterari, quando usiamo termini generici come scrittura critica o scrittura politica, poiché questi non denotano distinzioni fondamentali di forme saggistiche o metaversuali nel campo dell’osservazione. Al massimo, indicano un accento semiotico dominante, un tono significativo dell’argomento o della maniera in cui il critico e il semiologo, nel contempo, lo affrontano. Questi possono, cioè, essere strategie di scrittura critica per discutere di certi piccoli gruppi di opere.

Insisto su questo metodo empirico, formale e costruttivo – un impegno di critica e di semiotica – perché nella mia esperienza ho rilevato di una certa mentalità – definita, forse un po’ troppo semplicisticamente, mentalità accademica – persiste nelle classificazioni fini a se stesse. Una volta, al termine di una conferenza, mi fu chiesto se Autoritratto(De Donato, Bari, 1969) o l’approccio dispregiativo verso la critica d’arte potesse essere considerata una posizione politica. Per un momento rimasi senza parole, perché non mi era mai sembrato un problema serio: oggi sono sicuro che si trattava di un problema che si è trasportato da solo e a piene mani dalla parte della fluidocrazia. Mi decisi a rispondere che chiunque poteva considerare il primo e l’ultimo libro della Lonzi come un’opera di critica d’arte, ma che non se ne sarebbe tratto gran giovamento ai fini di un’intelligenza critica del testo: la storia delle scelte di Rivolta Femminile di Carla Lonzi non era materia adatta al tipo di indagine introdotta con Autoritratto (Mia cara Carla Lonzi, in https://segnonline.it/letica-trash-e-lultimo-ingombro-la-lettera-a-carla-lonzi-quarta-parte/). Poiché i miei interlocutori insistevano, io allora dissi – e ad alcuni dei miei ascoltatori dové sembrare un fondamentalismo – che quando parlavo di scrittura politica della critica (e della semiotica) intendevo qualsiasi scrittura volessi trattare come tale, anche se, evidentemente, la maggior parte delle scritture critiche non si poteva studiare da quel solo punto di vista. Forse sarebbe più opportuno dire che l’argomento del mio procedere semiotico è il rapporto tra critica d’arte e semiologia e che il termine scrittura resistenziale (contra fluidocrazia) viene usato come abbreviazione adatta ad indicare il tipo di scrittura in cui questo rapporto è abbastanza significativo, da meritare un’indagine analitica. Il rapporto fra politica e critica non è, naturalmente, sempre lo stesso e fa parte del mio studio il mostrare anche in quale modo la politica si infiltri gradualmente in un certo tipo di scrittura e di fluidità, e ricercare le ragioni di questo fenomeno. 

Avendo prima espresso con sufficiente decisione il mio scetticismo per le etichette di critica, vorrei ora, sperando che se ne avverta l’esigenza, definire meglio in qual senso userò il termine di scrittura critica, per non essere poi accusato di inimicizia veterolonziana, o di ortodossia anti-gender, o di altra moda fluida attuale.

Essere moderni venne a significare, così come significa oggi, essere incapaci di fermarsi e ancor meno di stare fermi. Così Zygmunt Bauman introdusse il concetto di “modernità liquida”, proprio per sottolineare il fatto che, come i liquidi, esso non può assumere una forma per un lungo tempo. L’unica sua costante è il cambiamento e l’unica certezza è l’incertezza. Quando Bauman ha elaborato il concetto di ‘modernità o società liquida’, forse nemmeno lui immaginava che l’espressione diventasse quasi scontata. Ma cosa si intende per società liquida? “Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più con-vivente ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo soggettivismo – così Umberto Eco spiegava Bauman – ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile: smontando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono l’apparire come valore e il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma al rendere gli stessi subito obsoleti, come delle opere d’arte scadute, e il cittadino creativo (prosumer) passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo. La modernità liquida è la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza. Lungi dall’essere sintomi di una qualche forma di insufficienza, interrogazione e resistenza critica, i valori mutazionali rientrano nella normale fisiologia dell’impresa semiotica. Come spesso capita, la semiotica ha tramutato un apparente elemento di debolezza in un punto di forza, e una proprietà negativa in un fascio di qualità neutrali o decisamente positive e critiche. Lo ha fatto innanzitutto sviluppando potenti metodi di valutazione quantitativa dell’incertezza; e poi ideando delle procedure efficaci per ottenere risultati e previsioni ragionevolmente certi sull’attendibilità e inattendibilità dei testi e dei perimetri verbali e non verbali del linguaggio, cioè tali che il loro grado di incertezza, comunque non nullo, sia ridotto al minimo e segni il confine dei dominî dell’esperienza temporaneamente inesplorati. Sessant’anni di rapporti sempre più intensi e spesso conflittuali tra scienza, società e arte ci hanno insegnato che il suo sospetto era fondato e persino ottimistico: la maggioranza del pubblico continua a ritenere che la semiotica debba fornire certezze assolute e, constatando che non lo fa, la giudica difettosa. La mancanza di certezza si traduce, allora, perversamente nella facoltà di dubitare di tutto. Ma se è vero che la semiotica si nutre di disaccordi, è altrettanto vero che essa tende a raggiungere un consenso basato su una valutazione critica delle prove, perché l’unica autorità che ammette è quella della conoscenza convalidata dalle conferme fattuali.

La domanda sull’attendibilità dei testi visivi e sul loro percorso e più ampiamente mediale, che fa parte del bagaglio intellettuale del semiologo, non va dunque confuso con la negazione dell’evidenza, e le teorie sul senso non possono essere messe sullo stesso piano delle opinioni o delle credenze personali. Giustamente la critica epistemica sottolinea che l’alfabetizzazione semiologica, da molti invocata, non deve essere intesa come l’acquisizione di conoscenze approfondite in merito a tutte le questioni scientifiche – e sono tante – su cui, da semplici cittadini, siamo sempre più spesso chiamati a formarci un’opinione e a pronunciarci. Ciò che davvero conta è comprendere che lo sviluppo della semiotica ha al suo centro una cultura dell’evidenza e della fiducia critica, codificata nel controllo reciproco tra i membri della comunità scientifica e artistica, come direbbe lo stesso Luciano Nanni. Solo questa consapevolezza può fornire alla società gli anticorpi per combattere non soltanto le persistenti forme di oscurantismo antiscientifico, ma anche le retoriche di chi usa una scienza dimezzata e distorta, per propagandare scientificità senza cultura e civiltà. Sono trascorsi ormai quasi cent’anni da quando il fisico tedesco Werner K. Heisenberg enunciò per la prima volta il principio più famoso, e più liberamente interpretato, della fisica dei quanti: il principio di indeterminazione. Una relazione la sua, o più precisamente una disuguaglianza, dai tratti leggendari, presto strabordata dall’ambito strettamente fisico per diventare a tutti gli effetti un’icona culturale del Novecento. Essa affermando, che qualunque tentativo di misurare con precisione sia la posizione sia la velocità di una particella comporta un errore intrinseco uguale o superiore a una certa soglia (più correttamente, il prodotto delle deviazioni standard delle due misure, dunque la loro incertezza, non può risultare inferiore a un valore ben preciso: la costante di Planck divisa per quattro volte pi greco), getta le fondamenta della meccanica quantistica. Ma il principio di indeterminazione di Heisenberg diventa in pochi anni, insieme ai teoremi di incompletezza di Gödel, una delle colonne d’Ercole entro le quali il determinismo meccanicistico del secolo precedente si trova suo malgrado confinato. Esso, per quanto citatissimo, inizialmente è frutto d’una formulazione alquanto intuitiva e per decenni non viene messo praticamente mai alla prova: un’accettazione curiosamente acritica, per una formula che ha segnato una svolta epistemologica senza precedenti. È solo a partire dalla fine degli anni Ottanta che i fisici cominciano a interrogarsi seriamente sul campo d’applicazione e sugli eventuali limiti della celebre disuguaglianza, facendone anche un paradigma critico e dialettico, ottenendo a volte risultati sorprendenti che rimettono in discussione, se non il principio, quanto meno il valore della soglia minima dell’incertezza come possibilità di un confronto mediale.

Anche la critica, dopo il progressivo abbandono di un ideale deterministico del conoscitore d’arte, si è trovata di fronte ad un’incertezza, a lavorare sull’incertezza del post-moderno. E in questo ruolo si è calata perfettamente, nella misura in cui la semiotica non è la ricerca di assolute certezze, ma l’apprendere a gestire la fluidità. Essa non ha, dunque, la pretesa di eliminare la forma fluens del liquido (causa di infinite problematiche esistenziali), ma di governarla, gestirla e renderla costantemente più sottile. Lo fa, ad esempio, per mezzo della probabilità; così come l’ermeneutica e l’euristica attraverso la prevenzione della pertinenza testuale. Ma sul piano generale, la semiotica e la critica gestiscono il fluido perché in continuazione si mettono in discussione, e quindi assimilano le categorie filosofiche (dalle quali non a caso provengono). Ciò non costituisce un limite che determina e ferma l’indagine, ma anzi: il dubbio continuo, la consapevolezza continua dell’incertezza del nostro sapere sono le armi più affilate per continuare a fare crescere la nostra competenza. Il sapere artistico sul quale possiamo fare più affidamento non è quello che non viene criticato, è quello che accetta continuamente di essere criticato e sopravvive alla fluidocrazia. Al di là della grande, a mio avviso, onestà intellettuale della semiotica, la quale non si imberbica in disquisizioni metafisiche sulla comunicazione, come invece fanno molti suoi settori epistemici non proprio teneri con la filosofia del linguaggio, i cui discorsi anti-filosofici cozzano con una insopprimibile tendenza a spiegare il Tutto, vi sono altri due dati che dobbiamo cogliere. In primo luogo dobbiamo prendere atto della qualità del problematico nel quale si muove la pratica (e teoria) semiotico-critica; un problematico metodologico prettamente semiologico, che ci testimonia ancora una volta come sia il sapere semiotico, attraverso i secoli, ad aver predisposto gli essenziali strumenti d’azione per la nuova critica d’arte. La semiotica “segna” il campo, avrebbe detto Umberto Eco. In secondo, luogo è importante, e dovrebbe esserlo anche per chi fa storia dell’arte, notare l’atteggiamento propositivo di chi ridiscute costantemente l’“utilità” e la problematicità del proprio sapere. Così come la semiotica che si confronta di continuo con l’incertezza critica (almeno in questa definizione di Eco), così dovrebbe agire la critica d’arte quando interroga la sua, medesima, storia. La storia dell’arte e della critica d’arte non è né il campo della certezza, né del lassismo permanente, né il luogo di perdizione del sapere e di collassamento dei metodi interpretativi. Umberto Eco avrebbe desiderato dare al suo Trattato di semiotica generale il titolo completo di Critica della semiotica pura e della semiotica pratica, come egli stesso dichiara nella prefazione (vedi p. 6 della settima edizione del Trattato Bompiani, dell’82). Riferendosi ai “modi di produzione segnica”, Eco a Montecatini dice: “che l’arte contemporanea ponendosi come riflessione metalinguistica sulle proprie modalità ha in realtà volta per volta privilegiato una di queste modalità e ha giocato solo su questa. Curiosamente l’arte contemporanea non è più complessa, ma più semplice dell’arte tradizionale, e se appare di difficile comprensione è proprio perché asceticamente si concentra su modalità produttive isolate, portando ciascuno al massimo delle sue possibilità. L’arte contemporanea si manifesta così ed eminentemente come laboratorio semiotico, ovvero esercizio metalinguistico, mentre l’arte tradizionale parlava o fingeva di parlare linguaggi già costituiti – anche quando li innova” (Atti Montecatini ‘78, Feltrinelli, Milano, p.72).Pochi studiosi associano a termini come probabilità, media o incertezza la capacità di descrivere tutti quegli eventi della vita quotidiana di fronte ai quali si deve effettuare una scelta, o si può misurare la pratica della sperimentazione artistica. Facciamo un esempio. Supponete di dovervi sottoporre a un intervento chirurgico delicato. Il medico che effettua l’operazione deve informarvi sulle probabilità di successo per il vostro intervento, senza nascondere le non trascurabili probabilità di insuccesso. Sulla base di tali probabilità (e forse sulla sensibilità mostrata dal medico nel dirvelo) voi affrontate di buon grado l’intervento oppure rinunciate. Ebbene, molto spesso il semplice modo con cui queste statistiche vengono presentate ne può condizionare l’interpretazione da parte di chi ascolta. In altri termini, un vero consenso informato e una corretta percezione del rischio sarebbero il frutto di un appropriato uso del linguaggio impiegato per veicolare la pratica mediale e per utilizzare l’esperienza anche come performance artistica o racconto cinematografico (supponiamo un docu-film). Qui l’assunzione di fondo è che la soluzione al problema cognitivo della difficoltà nell’affrontare il ragionamento probabilistico sia il ricorso a una “razionalità ecologica”, nella convinzione che “l’analfabetismo numerico non è semplicemente nella nostra mente, ma anche nelle rappresentazioni del rischio che scegliamo”. Se, cioè, il limite dell’apprendimento è dovuto all’ambiente in cui è immersa la mente, e non alla mente stessa (incapace di evolversi per comprendere l’incertezza, come la filosofia novecentesca ha per lo più ritenuto), allora la soluzione sarà l’impiego di opportune scorciatoie linguistiche (scorciatoie spesso utilizzate dalla neo-avanguardia ma non sempre portate a buon fine), dimenticando così, tuttavia, come la semplicità della rappresentazione non sembra affatto un criterio di validità di una teoria nelle scienze fisiche. Parlare, oggi, di critica d’arte, seppur con scarse e modeste pretese, comporta una grossa responsabilità, per almeno due – quelli principali – ordini di motivi. Il primo, tipico del dibattito stesso sull’efficacia della critica, risiede nella necessità (da parte di chi scrive) di: rendere chiaro ciò che ancora non è del tutto chiaro; più semplice qualcosa che trova invece nella sovraesposizione alla complessità uno dei suoi nodi cruciali: dritto e scorrevole ciò che invece tende per sua stessa natura a essere contorto e controverso; uniforme qualcosa che si vanta di rimanere difforme e irriducibile. In più, parlare di critica d’arte, significa allo stesso tempo parlare di una pratica della scrittura artistica e letteraria, di un orientamento filosofico, di una condizione storica (questo secondo molti), ma anche di un ordine politico, culturale e soprattutto sociale. Significa, per farla più breve, scendere all’interno dei problemi, culturali e sociologici, che hanno caratterizzato l’epoca contemporanea e seguire alcune delle vie attraverso cui si è cercato di trovare – o dare – delle risposte. Il secondo fattore di responsabilità, invece, è molto meno intrinseco alla materia di cui si tratta ed è legato piuttosto a eventi recenti che hanno, d’improvviso, riacceso e rianimato la questione sull’autonomia della critica rispetto alla curatela.

https://segnonline.it/crisi-totale-della-cura-i-par/

https://segnonline.it/crisi-totale-della-cura-ii-par-le-armi-improprie-della-curatorialita/

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