Enrico Maria Sestante, Pesi di Pesi, 2009

Perdenti critici o critici perdenti? [I parte]

Oggi il critico-curatore è rapito dall’infinità del discorso vuoto. Egli è strappato dal sé ed è esteriorizzato, privato dei suoi confini e inaridito nell’esterno di una qualsiasi cultura visuale. Questo evento catastrofico, questa esternalizzazione del superficiale si realizza come espropriazione, come superamento e svuotamento del governo di sé, ossia come declino conclusivo.

1. Spesso, in tempi recenti, è stata annunciata la fine della critica. Oggi, la critica sarebbe vittima dell’illimitata franchigia della scelta, della molteplicità delle opzioni stilistiche, dell’approccio anarchico dell’arte e dell’impulso all’ottimizzazione del corroborabile estetico (o estesico). La critica non sarebbe possibile in un mondo di apparenti e sconcertanti occasioni illimitate. Le strategie fatali del neo-liberismo, però, non riconoscono il fatto che oggi è in atto qualcosa che compromette la critica, in modo più sostanziale della libertà sconfinata, che ispirano le provocazioni ormai attuate dal performatico dell’arte contemporanea! Alla crisi della critica non conduce soltanto l’eccessiva offerta del positivo nel nuovo positivismo, bensì l’erosione della Critica, che ha luogo attualmente in ogni ambito della vita e si accompagna alla crescente trasformazione estetica e autoreferenziale della pratica artistica e performatica. Il fatto che la dialettica del negativo svanisca è, in definitiva, un processo drammatico, che però inevitabilmente avviene senza essere rilevato dai fautori della totalità liberale espansa.

La critica riguarda la parte più oscura dell’opera, nel senso veemente, che non si lascia risolvere nel regime del soggettivismo operistico. Nell’oltretomba del “positivismo positivo”, a cui l’arte liberale assomiglia sempre di più, non c’è perciò alcuna esperienza critica. Questa presuppone la considerazione del conflitto e l’espressione di una molteplicità discontinua.

Essendo sfuggente, il positivo fa tremare il linguaggio, lo destabilizza con persistenza e con liquidità: non si può parlare della critica pena l’impopolarità. Sulla critica esiste il timore dell’investigazione e della scoperta; qualsiasi attributo si dà alla critica che scaturisce dalla difficoltà negativa è terroristico, è dinamitardo, porta al colore della dissidenza. 

La cultura artistica del continuo accettare e bilanciare tutto con tutto non ammette alcuna negatività della zona franca. Tutto viene perennemente eluso dalla libertà, agendo nel liberalismo apparentemente democratico. La negatività della bruttezza artistica non riesce a sottrarsi al consumo del gusto estetico. La società acritica si sforza, così, di eliminare l’alterità atopica a vantaggio di differenze accettabili, vendibili e consumabili. Lo scarto, ciò che non è ben visto dalla norma è un’affrancatura rispedita al mittente, in opposizione a qualsiasi scenario incontrollabile e incontrovertibile. Oggi la negatività si è ovunque dissolta, liquefatta, nascosta sotto la coltre dell’arte espansa. 

Decidiamo noi il percorso e la posizione del nostro sguardo. Decidiamo noi come essere mediatori o critici e che strada percorrere per vedere una dimensione estetica piuttosto che un’altra. È proprio vero che il nostro destino è nelle mani di nessuno, se non nelle nostre capacità critiche? Ma siamo sempre pronti e sempre noi stessi a scrutare il nostro interno così come scrutiamo un’opera d’arte? Siamo pronti a guardare dentro di noi, così come guardiamo una foto, per osservare gli errori e i difetti di quella critica così come osserviamo i difetti di quell’immagine? Di fronte ad un’opera d’arte siamo perdenti o vincitori, compresi o incompresi, insider o outsider, astratti o concreti, lirici o taumaturgici, splendenti o oscuri? È proprio vero, come osava dire Marcel Duchamp, nel 1964, che l’arte è una droga? Siamo noi che dobbiamo resistere alle nostre tentazioni critiche o sono le nostre tentazioni critiche che si impossessano di noi? Commentare i fatti politici, sociali, di questi giorni, non avrebbe senso o avrebbe molto senso? E di chi è la colpa: è forse colpa della critica, o magari della dissidenza in generale che vorrebbe contare qualcosa per prendersela con i Måneskin? È proprio vero, quello che scriveva Gianfranco Contini nei suoi Esercizi di lettura: “Può darsi che una grande critica abbia anche un grande “contenuto””? L’arte può davvero cambiare il mondo, possedere la facoltà di scuotere situazioni politiche e di sostituire il corso del tempo? Beh, nel caso di Marcel Duchamp è stato più o meno così! Pensiamo di avere una erudizione critica? Ma i fatti del giorno e quelli della cultura si riflettono su di noi allo stesso modo? La lotta per il potere è il male incurabile della persona artista o dell’artista persona? Il prossimo è dotato di tutte le capacità divine, ma non ne è cosciente: perché forse non conosce il suo vero metro critico? Sentirsi il Dio della critica è la nostra malattia? Viviamo «nell’illusione della critica o nella critica dell’illusione»? Supponiamo che la capacità divina sia il vero esercizio del potere (bieco) sugli altri e sulle cose? Viviamo, oggi, in una società che è sempre più acritica. L’a-criticismo è investito, in via primaria, nella costruzione del sé artistico. L’a-criticismo non è “critica della propria critica”: il soggetto della critica propria si prefigge al proprio sviluppo una delimitazione negativa dell’altra arte e dell’altro sguardo. Il soggetto auto-speculativo, invece, non è in grado di stabilire con chiarezza i propri sguardi virtuosi; si confonde, così, il confine tra un’arte di conoscenza e un’arte di consumo, un’arte della menzogna e un’arte dell’impegno politico, che avrebbe ancora la pretesa di richiamarsi a John Heartfield. Da questo punto di vista, il paesaggio umano appare solo per “sviste” del suo stesso narcisismo. La critica non vede l’altro, “perché non vede altro” che narcisismo; per l’a-criticità ha senso soltanto ciò in cui può riconoscere l’immagine agghiacciante e totalizzante del “sé stesso”. 

La crisi della critica è una patologia narcisistica. Infatti, in una conversazione del 1966 con Pierre Cabanne, Marcel Duchamp chiama le sue opere le cose. Questo critico si crede Dio pur sapendo di non esserlo: ma per arrivare alla piena conoscenza, alla piena consapevolezza di cosa significhi esercitare il potere critico sulle cose, quanto tempo ci vuole? Critici d’arte: anime sole allo sbando, nelle mani di pochi che sanno esercitare il potere dello stile e delle tendenze, che asservono la parte nel buio perché la parte solare non la vedono, non riescono a comprenderla, perché la coscienza non è sufficiente a sostenere un’energia troppo grande, che riesca a dialettizzare il mondo della finanza globale. Ecco che così si preferisce buttare la propria anima nella materia dell’impegno critico: come impegno di “critica istituzionale” o di engagement? Si continua a ricordare l’approccio radicale di Haacke, tedesco che lavora prevalentemente a NYC, che puntava al disvelamento delle dinamiche politico-finanziarie, che presiedevano l’organizzazione di musei e gallerie. Ma senza la critica, chi capisce l’opera di Haacke?

Per risollevare le sorti del mondo sarà necessario intraprendere un nuovo percorso (o forse un antico percorso) di conoscenza individuale e collettiva di artisti-critici o critici-artisti, in grado di salire al potere delle istituzioni religiose, amministrative etc … La via del santone solitario in cammino verso l’iniziazione critica totale, è una forma di nuovo fascismo e quella del curatore è la via dello sviluppo dell’ego.

La caccia alle classifiche dei prodotti estetici più affermati, i cosiddetti top-seller della curatorialità, è un’ossessione internazionale dei social media: la cultura mainstream è un’imponente gara di popolarità. I nostri giudizi sono consumati dai successi – crearli, sceglierli, parlarne e seguirne ascesa e caduta presso Fiere e Forum Espositivi Internazionali, è una grande sfida del contemporaneo. Ogni week-end della curatorialità è una competizione da box-office, e ogni appuntamento di Biennale, Triennale e Quadriennale è una lotta darwiniana, per scovare il programma o il Panel più riuscito e per farlo sopravvivere fino alla settimana successiva. Alla radio poche parole curatoriali, selezionate hit vengono trasmesse come classifiche di vendita, mentre i dirigenti dell’industria culturale si affannano a trovare il prossimo grande successo di mercato che, con la sua opera, partecipi agli spazi delle kermesse più ambite. Questo è il mondo costruito dai blockbuster, la critica di quelli che lo denunciano e di quelli che lo apologizzano. Negli ultimi sessant’anni la possente industria dell’intrattenimento e dei media è cresciuta nutrendosi di record al botteghino degli artisti engagés: medaglie d’oro e share metabolici a due cifre per premiare i primi dell’arte e della politica. Non c’è da stupirsi se quegli hit delle aste sono diventati la lente attraverso cui osserviamo critica e arte istituzionale. Definiamo la nostra epoca artistica in base alle sue artistar, cioè il tessuto connettivo della nostra esperienza comune. Gli artisti dell’impegno politico utilizzano la sfera pubblica come un tubetto di colore, magari per dimostrare che essi sono i testimoni del pensiero artistico impegnato. Lo star system inaugurato quarant’anni fa, dal post-moderno liberal, ha oggi raggiunto ogni angolo del commercio, così come i rituali delle Biennali, dalle calzature ai cuochi hanno raggiunto tutti gli angoli del design! I media sono ossessionati da quello che tira e quello che non tira, ed ora è la volta dell’arte e la politica. L’avanguardismo assume significati diversi a seconda dei criteri adottati; ciascuno dei suoi tratti costitutivi può essere in un certo momento mascherato tra il bene e il male. Il suo militarismo radicale è ormai divenuto una leggenda e la sua storia si trasforma in storia della sua ricezione, all’interno della quale gli accenti si spostano di continuo e la gerarchia dei valori viene costantemente ridefinita. Sorge una questione: fino a che punto il concetto stesso d’avanguardia sia ancora attuale, dal momento che, da una prospettiva contemporanea, è ormai evidente che ciò che finora era considerato una sovversione risulta essere quasi una norma, e la stessa originalità delle idee artistiche ha assunto una sfumatura classicheggiante. I problemi maggiori si celano tuttavia nella valutazione stessa della svolta avanguardista che oggi si stempera nell’ampia corrente di trasformazioni estetiche definite, in mancanza di una denominazione più precisa, come “modernismo” in senso lato. Già negli anni ’70, riflettendo sulle strutture della lirica, Hugo Friedrich battezzò una visione di continuità evolutiva risalente a Baudelaire, Rimbaud e, prima di tutto, a Mallarmé: “Dopo Mallarmé – ha scritto Steiner – quasi tutta la poesia che conta, e gran parte della prosa che determina il modernismo, si muoverà contro la corrente del discorso abituale” (G. Steiner, Dopo Babele (1921)). E quando Apollinaire asserisce che “contano non le idee, ma l’oggetto estetico” (Les peintres cubistes, 1913) vengono in mente le parole di Mallarmé, il quale, mezzo secolo prima, aveva scritto che “non conta l’idea ma l’effetto che essa suscita”.

Questa continuità così evidente sembra, a prima vista, minacciare il significato di svolta dell’avanguardia, ma non è affatto così. L’avanguardia si costruiva su una gigantesca eccentricità, così come la nostalgia dell’avanguardia odierna si fonda su una grande hit parade. Per farla breve, gli hit detengono il potere: i successi dovevano infatti allontanarsi programmaticamente dai passati tragitti evolutivi, ma allo stesso tempo ne erano influenzati. Le nuove idee non potevano nascere ex nihilo, avevano bisogno di un punto di partenza, di un limite ben definito, senza il quale nessuna infrazione sarebbe stata possibile. I giovani sperimentatori iniziavano di solito la propria carriera imitando i maestri, dai quali a un certo punto prendevano le distanze. Picasso studiò da Cézanne e Matisse, Marinetti e Apollinaire dai simbolisti, Breton tornò a Lautrémont, scoprì Nerval e si ispirò al pathos e al seicentesco. Ma con una scorsa più concentrata vi renderete conto che questo quadro, sorto nell’era delle grandi aspirazioni e desideri, sta iniziando a sfilarsi ai bordi, o forse da tempo è già crepato in bocca a notabili che scrivono delle Summae gigantesche sulla tradizione dell’avanguardia. E forse gli hit, cominciano – orrore! – a detenere un po’ meno potere, oppure a dominare nella loro totale inconsapevolezza critica. Il numero uno è quello che guadagna di più e, dopo l’eroismo di MoMAPol, la situazione si svacca. In sostanza, la cultura di Sanremo ci suggerisce che staremmo molto meglio se non provassimo impulsi critici: per gran parte della nostra vita ci provocano soltanto problemi e tensioni. Per colpa loro, facciamo cose rivoltanti con artisti che in realtà non stimiamo, e dopo ci sentiamo strani e dissociati.

In genere, le opere d’arte che desideriamo interpretare, insieme ai loro autori, ci respingono perché non siamo troppo inseriti nell’universo accademico o non siamo i personaggi di potere che ci dovrebbero rappresentare: gli artisti affermati sono sempre già impegnati; quasi tutta la nostra tentazione di farci spazio nel mondo dell’arte contemporanea è un continuo susseguirsi di rifiuti: giornalismo triste, paccottiglia di illusioni, pubbliche relazioni fallite, piattaforme progettuali europee mai portate a termine, arrivismo sovrabbondante e mancanza di una socialità affermata. Ci sembra un miracolo quando qualche Galleria, artista, o curatore controcorrente prova interesse per noi e ci offre qualche possibilità, ma anche in quel caso, poco dopo iniziamo a interessarci a quel giro di contatti, a quella pratica strategica, per arrivare da una parte o dall’altra. Saremmo tutti così simpatici senza la pratica critica. Simpatici come gli ingenui operatori, che fanno finta di essere all’interno della «critica istituzionale» e poi, invece, sono quelli che hanno seguito la strada dell’arrivismo più degli altri. Essi sono apparentemente etici e capaci di recitare il buon senso ammiccante, di professare con desiderio le correttezze di una democrazia che ripudiano: residualità, marginalismo, attualismo senza radici, metalinguaggio, disimpegno politico, referenzialismo dottrinario, cronachismo, letteratura organizzativo-manageriale. Tutto ciò conduce all’esasperata autoproiezione di ciò che è sempre positivo, senza difetto: l’estetica del capitale. E poi impassibili assistiamo al lento declino della nostra cassetta degli attrezzi teorici, quelle nostre tracce di critica che un tempo furono più fresche ed elastiche.

La crisi della critica si presenta quasi come una pozione magica, che precipita la somiglianza di se stesso nel se stesso. In sostanza, si è attuato ciò che Michel Foucault  dice di Magritte, l’a-criticismo diffuso mette in stabilizzazione di crisi uno dei principi stessi della pittura figurativa classica: l’equivalenza fra il fatto della somiglianza e l’affermazione di un legame rappresentativo. L’a-criticismo, che ha usato strategicamente il risultato della rivoluzione magrittiana, dopo aver diffuso la fine dell’idea di somiglianza, ha imposto il regime del nulla, per affermare il nulla. Ha fortificato la guerra delle immagini, per rinviare a delle similitudini che sono lo specchio di se stesse, condannando la vita delle forme ad una distanza abissale da qualsiasi originale, una ricerca dell’insomigliante che è l’inizio del gioco linguistico autoreferenziale. È come se l’a-criticismo fosse costretto ad essere più «in presa diretta» dei registi cinematografici, per svincolare personaggi, figure, storie ed enunciazioni da ogni responsabilità iconica.

Senza la critica, saremmo pericolosamente invulnerabili, ma anche strategicamente funzionali. Potremmo credere di non essere ridicoli. Non proveremmo sulla nostra pelle il rifiuto e l’umiliazione dell’emarginazione concettuale. Potremmo invecchiare in maniera rispettabile, abituarci ai nostri privilegi e pensare di aver capito tutto. Potremmo scomparire in numeri e parole. È la critica d’arte che crea un caos necessario nelle consuete gerarchie di potere del sistema culturale: critica contro status, denaro e negligenza del mondo. L’artista di turno, in una galleria dove si inscenano performance del nuovo corso, cadrà in ginocchio e implorerà il camionista analfabeta di frustarla senza aver capito una sola parola di Roland Barthes e dei suoi scritti sull’eros critico, Bataille o De Sade. Il dirigente di una galleria d’arte perderà la testa per una stagista, senza porsi nessuna domanda sui generi della critica e sulla critica di genere? L’unica priorità sarà il piacere del gusto porno, sulla dirompenza delle culture del quotare o del misurare.

Non sapremmo tanto bene che cos’è la domanda critica, e quindi saremmo molto più crudeli e meno pronti a ridere di noi stessi. Quando sui nostri infernali desideri avversi sarà steso un velo pietoso – cose sprezzanti, ma giuste – dimenticare, per più di qualche giorno, cosa significa vivere un’autentica vita critica e artistica, dettata dalle reazioni chimiche e quasi sempre scettiche, conflittuali e sospettose.