2.Cos’è la cura? Il termine si riferisce all’insieme dei mezzi terapeutici coadiuvanti il passaggio da crisi dell’arte ad uno stadio propositivo. In questa accezione, cura è sinonimo di trattamento culturale che, nel caso di crisi artistiche, trova la sua espressione nelle varie forme di “ecologia espositiva”. Siccome però, la sofferenza e la crisi artistica, a differenza di quella fisica, non è tanto un incidente che si lascia circoscrivere nel normale corso espositivo, quanto piuttosto un modo di declinare l’esistenza, interpretandone in vario modo il senso, la cura artistica non può prescindere da quella relazione che viene evidenziata tra intervento estetico e intervento etico-politico. Definita la cura con le parole della critica, Michel Foucault esclude che possa esserci una psicoterapia in grado di operare come cura nel senso di guarigione estetica, perché è nella natura di ogni arte e di ogni esistenza artistica, come quella della Leonora Carrington, incontrare degli ostacoli, talvolta sotto forma di fenomenicità, che danno un’opportunità di riflessione o per aggiustare forme improprie di adattamento dell’Io, o per realizzare quella integrazione di contenuti culturali, portatori di senso. Questa concezione della cura, iscritta non nella categoria della salvezza ma in quella dell’estetismo dell’esistenza, ha delle analogie con la nozione heideggeriana di cura, come Sorge che caratterizza la relazione con l’altro in senso borghese, di cui ci si può prendere cura o nella forma inautentica e viziata dall’amministrativismo del besorgen che non si cura tanto degli altri quanto delle cose da procurar loro, o in quella fintamente autentica del fursorgen, che apre all’assimilazione degli altri la possibilità di trovare autocentricità di potere, offrendo le condizioni per potersi prendere cura del dominio del proprio sé e il dominio dell’arte e del suo mercato.
La crisi dei tradizionali modelli e strumenti di cura deriva da uno squilibrio sempre meno sostenibile tra famiglia e lavoro, così come fra mercato del capitale, autore artistico, gallerista e curatrice? O ci troviamo di fronte ad una crisi sociale, politica, economica e culturale assai più vasta e profonda, di cui la trasformazione della cura sarebbe solo un elemento, difficile da isolare rispetto ad altri? Attraverso la ricostruzione dei diversi momenti storici in cui la cura entra in crisi e dei momenti politici che ne evidenziano le contraddizioni – in particolare i vari femminismi e lo sbizzarsi dei loro network più che delle loro stesse istanze – Nancy Fraser propone la sua visione di State-managed capitalism, che si mette in contraddizione col genericismo-gender-curatoriale più a la page. Nella società del lavoro e della creatività, il curatoriale sta diventando raro come l’aria respirabile nella città. Eppure si esige da tutti di curare, se vogliono vivere. Ogni giorno vengono lanciate nuove proposte su come si potrebbe ritornare al curatoriale pieno nel campo dell’arte e del suo mercato. Nessuna di queste proposte ha mai funzionato, né potrà mai funzionare. Né la licenza all’illimitato sfruttamento della forza-lavoro creativa su quella curatoriale, né il tentativo di sottomettere il capitale globalizzato alla ferula delle pianificazioni biennalistiche riescono a invertire questa tendenza. Altri hanno preso atto dell’impossibilità di ricostituire la società del lavoro curatoriale “comune” e cercano di salvare le condizioni di vita attuali anche per coloro che non trovano più lavoro. Vogliono fare buon viso a cattiva sorte.


Quasi nessuno mette in dubbio il lavoro culturale neo-liberista come principio fondante della società in cui viviamo. Le società artistiche basate sulla trasformazione tautologica di lavoro vivo in denaro e in atti curatoriali non può però durare in eterno. Fin dall’inizio essa contiene in sé delle contraddizioni insanabili: esiste solo grazie all’assorbimento di curatorialità viva, che è l’unica fonte di valore e plusvalore, ma al contempo la concorrenza spinge a un incessante aumento della produttività tramite la tecnologia e dunque a una riduzione dell’uso di curatorialità viva contro quella coatta. I produttori privati hanno bisogno di delegare alle Biennali tutte le spese infrastrutturali, ma esse soffocano sotto il loro peso crescente (vedi la Biennale di Architettura recente e l’attribuzione del Leone d’Oro ad un’amministrazione nazi-fascista). La produzione di merci-curatoriali vorrebbe prescindere da ogni contenuto e considerare ogni cosa solo in quanto mera forma, cioè come pura espressione quantitativa della forma-merce, ma viene sempre raggiunta di nuovo dal contenuto: per esempio nell’evocazione della teoria marxista, la curatrice della prossima Biennale del 2022 si prende il lusso di ficcare in bocca alla filosofa femminista e attivista Silvia Federici che il “re-incantesimo del mondo”, potrebbe essere “mescolato da saperi indigeni e mitologie individuali, in modi non dissimili da quelli immaginati da Leonora Carrington”!
La verità è che la crisi, che la produzione capitalistica di merci porta da sempre nel suo seno, è stata rimandata più volte grazie all’espansione assoluta della produzione, soprattutto con il modello “fordista-keynesiano” (ben presto trasformato in progetto delle origini), basato sull’industria dell’oggetto estetico prezioso, la piena occupazione del mercato alto e interclassista, il welfare dei beni culturali non allineati e un forte ruolo dello Stato. Ma la crisi del meccanismo di valorizzazione del capitale culturale è diventata palese dopo il 1970, ovvero in pieno periodo storico-concettuale. Sono proprio gli eredi di Marcel Duchamp ad aver portato l’ideologia del ready-made a moneta di scambio ideologicamente liberista, come adesso è palese che l’arte relazionale è mossa dall’universo politico dello state-managed capitalism. Attualmente, solo il gigantesco parcheggio del capitale bitcoins, inutilizzabile nei reami fittizi delle borse mondiali, maschera ancora la quasi totale perdita di sostanza che il modo di produzione cultural-liberista ha già subito e fatto subire. Ma dopo il crollo dei settori più deboli del sistema mondiale di produzione di “prodotti espositivi” avvenuto negli anni Ottanta e Novanta, dai paesi “socialisti” dell’Est a quelli del Sud, fino ai paesi “emergenti” in America Latina e in Estremo Oriente, anche i centri della produzione capitalistica stanno ormai entrando in una fase di decadenza. Le società precapitalistiche non conoscevano neanche il concetto di “funzione espositiva”, né quello di “economia della spettacolarizzazione culturale”. Le attività produttive facevano parte dell’insieme della vita sociale e non erano organizzate come una sfera a parte. Perciò il concetto di “lavoro culturale” e quello di “lavoro curatoriale astratto” sono in realtà identici. La cura, anche quella cosiddetta “concreta”, costituisce sempre un’astrazione che isola un aspetto della vita umana dal suo contesto, opponendo le attività produttive alla riproduzione domestica, alla cultura, al gioco, ai riti ecc. Non si può perciò opporre la “buona cura” come impegno concreto alla cura come “cattivo” lavoro astratto, perché non possono che esistere, come le due facce della stessa “cura”. La produzione di più «valori curatoriali d’uso possibili» può essere altrettanto tautologica quanto quella di “cura di scambio”. La curatorialità ad ogni costo. La curatorialità controcorrente, per rimanere definitivamente nella corrente. E per le due storie raccontate e scisse come quella della Carrington e quella della Federici, che non c’entrano niente l’una con l’altra, tutte rigorosamente vissute da gente che non si definisce curatoriale, ma lo è per davvero! Il progetto di lavoro della Biennale del 2022 tende a dimostrare che ogni azione curatoriale, unica, originale, porta risultati impensabili alla macchina del capitale, anche se al primo istante non ce ne rendiamo conto. La Carrington è colei che usa la fantasia; esprime liberamente i suoi sentimenti che poi il gallerista venderà a qualcuno. Curatore e artista è colui che usa la fantasia finalizzata. Sa cosa deve dire e a chi; lusinga, seduce, conquista. Vende coniugando curatela e mercanzia. Cosa c’entra la Federici? «La rivoluzione comincia nella casa e parla il linguaggio della lotta delle donne». Questo ci dice Silvia Federici figura centrale del movimento globale Non Una di Meno. La riduzione di valore del lavoro riproduttivo è stata una finestra da cui vedere i problemi di base di questa società. Il non riconoscimento dei lavori che riproducono la vita, a mio avviso, è intrecciato alla logica che governa la società capitalista che considera produttiva la fabbricazione di armi e non considera invece produttivi il lavoro e le attività che ricreano la vita e la capacità di lavorare. Il femminismo, della Federici, non c’entra niente con la rivolta borghese della Carrington! Esso vuole una società governata da una logica diversa. Un femminismo che, come dicono le compagne dell’America latina, pone il valore della vita umana al centro.
Curatorialità è un modo di vedere le cose, un paio di occhiali dalle lenti gialle in una giornata di nebbia. Curatorialità è l’opposto di abitudinarietà, è una condanna all’innovazione costante del neo-liberismo che potrebbe provenire dalla rivolta borghese della Carrington piuttosto che dallo spirito domestico delle donne dell’America Latina. Essa è la trasformazione degli attimi in eternità della magia snob. È la consapevolezza che siamo figli della curatorialità fobica stessa, la quale dimostra per prima la sua totale ed esclusiva irripetibilità; anzi, il curatorialismo del Capitale, per rivendicare questa originalità, è rimasto fossilizzato “a sputare su Hegel”, senza averlo mai letto e studiato, senza aver mai affrontato come la Nancy Fraser e Axel Honneth il problema del riconoscimento (vedi: Redistribuzione o riconoscimento?Lotte di genere e disuguaglianze economiche, Meltemi Milano 2007).
Una nuova velocità fobica ci sta cambiando la vita. E non è, come iniziate subito a pensare, che sia frutto del web e della velocità della luce che scorre tra le maglie di internet. È frutto del nostro cambio psicologico, della nostra mutata visione del mondo. Non ci interessa più viaggiare, ma «curare il fobico (curare fobicamente)». Quando parliamo delle nostre curatele la prima domanda che ci viene posta è: “Quante curatele hai fatto?”. Il dato quantitativo sta superando quello qualitativo.
La fobia è una manifestazione psicopatologica riguardante gli stati dell’Io. In psicoanalisi le fobie sono manifestazioni dell’inconscio che portano il soggetto alla totale repulsione e volontà di evitare l’oggetto in questione; secondo Freud, queste si formano a causa del mancato superamento del complesso di Edipo o dall’angoscia di castrazione, provocando isteria ed angoscia, mentre nel comportamentismo, si sostiene che l’origine della fobia risieda in un incontro precedente tra soggetto ed oggetto. Fobie: timore irrazionale e invincibile per oggetti e specifiche situazioni che,secondo il buon senso non dovrebbero provocare timore. La Fobia si distingue dalla paura perché, a differenza di quest’ultima, non scompare di fronte a una verifica. Questo discorso ci è dimostrato dagli esperimenti di Leonora Carrington, che trascorse in Messico buona parte della sua lunga vita e laggiù si sposò con il fotografo ungherese Chiki Weiss, dal quale ebbe due figli. E proprio per Gabriel e Pablo, quando ancora non sapevano leggere, inventò, scrisse e illustrò una decina di storie, alcune delle quali comparvero poi in «Children’s Corner», accompagnate da disegni in bianco e nero, create anni prima e conservate in un album noto solo alla famiglia.
Chi conosce l’arte della Carrington, o la sua prosa, scoprirà che queste storie (da leggere ad alta voce, da osservare, da terminare o da fare rivivere) sono un coerente prolungamento della sua opera, fondata su un immaginario sfaccettato e inesauribile, che ci interpella di continuo con voci diverse e inaspettate, aprendo sempre nuove porte sull’incubo, sul sogno, su quello che il sipario della realtà ci nasconde e la voce della ragione rifiuta di dirci. Come in «Alice», i bambini di Il latte dei sogni sono pronti a «credere fino a sei cose impossibili prima di colazione», e, decisi a “fare e disfare il mondo” (proprio come Leonora, a suo tempo bambina furiosamente ribelle), ricorrono talvolta all’aiuto di adulti che sanno stare al gioco (proprio come Leonora, madre favolosamente eccentrica, che la ribellione intendeva coltivarla e trasmetterla).
«Credo che nessuno di noi possa sfuggire alla propria infanzia», ha detto Carrington in una delle sue ultime interviste e, attraverso ogni più piccola manifestazione della sua arte, ha voluto ricordarci che, al di là di ogni stereotipo, l’infanzia è uno stato d’animo, un raro deposito al quale si può attingere fino alla fine.
Ogni artista è diverso, ogni fiocco di neve ha una diversa composizione cristallina, ogni fiore sboccia in modo diverso: la natura non si ripete mai. Usando disciplina e fantasia, metodo e furbizia, azione e risultato, viviamo perfettamente nell’oceano immenso della vita curatoriale. No, curatori non sono gli art director e i copywriter. Non sono quelli, curatori sono e devono essere gli account executive, gli strategic planner della Biennale di Venezia, gli esperti di marketing, le persone e le femministe che lavorano dentro all’ambito della comunicazione. L’universo delle agenzie pubblicitarie e delle marche, come nel caso della direttrice della Biennale di Venezia, cercano di neutralizzare pensieri forti come quello di Silvia Federici, riportandone solo aspetti di superficie: riportare tutto all’universo degli utenti e dei prodotti, questo è il compito del nuovo curatore. Curatorialità è l’equilibrio tra la ragione della Federici e la follia poetica della Carrington, purtroppo tra un sogno e una realtà squilibrata. E curatorialità è anche furbizia. La curatorialità, secondo il piano della direzione artistica di una Fondazione come la Biennale non è solo una tecnica da applicare a qualche lavoro specifico. È la vita stessa di ogni strategia anti-comune. Infatti, neanche si tratta di esaltare “la cura creativa”, la cura artistica o intellettuale (o presunto tale) per opporla all’avvilente cura funzionalista e biennalistica di tipo tradizionale. Da diversi anni alcuni concettuali, per ingenuità o per cinismo, portano avanti un discorso, secondo cui il possesso di un elaboratore elettronico e di un sapere specialistico (per di più di dubbia natura) “incorporato” nel proprio cervello, sarebbero sufficienti per sottrarsi alla tirannia della cura capitalistica. Qui una certa retorica post-curatorialistica si incontra curiosamente con l’elogio neoliberale (già alquanto stantio) delle meraviglie della new economy e della microimprenditorialità.
È allora particolarmente importante abbandonare la convinzione che la diffusione della cura “autonoma” contenga una prospettiva di liberazione e che esso possa diventare un lavoro “autogestito”, che permette agli individui di combinare l’utile con il dilettevole. Curiosamente, il principio neoliberale “ciascuno curator di se stesso” ha trovato larga diffusione – almeno quando si può bardare dell’illusione del lavoro “creativo” – negli ambienti che intendono sfuggire alla cura borghese.
Il punto decisivo è questo: l’uscita dalla società della cura coatta non è un’utopia, non è un simpatico sogno. Non si tratta di dire “no” al lavoro, solo perché è sgradevole e c’è di meglio da fare (per quanto anche questo sia vero). È la stessa società curatoriale che sta abolendo l’arte e la cultura, non ne ha quasi più bisogno. Il capitale non ha più bisogno degli artisti, degli intellettuali e dei creativi sui generis e mette fuori corso interi comparti creativi, ma contemporaneamente simula il veritativo dell’arte e della cultura. Così facendo distrugge anche se stesso. Ma questa uscita della «cura coatta», dalla «cura viva» e dalla «società della cura» non è un’uscita pacifica, una gioiosa trasformazione, il passaggio a una migliore civiltà. Come di consueto, un’impostazione di tal genere finisce per perdersi nelle sue contraddizioni. Da una parte l’industria curatoriale. In base al suo stesso sviluppo capitalistico assicura una socializzazione sempre più spinta – sebbene tecnicamente la cosa sia pensabile, non esiste un circuito chiuso espositivo per gli happy few perché ciò andre contro la struttura del mezzo espositivo (against the grain of the structure) – per la prima volta nella storia, i mezzi espositivi rendono possibile una partecipazione elitariata in un processo produttivo sociale e socializzato dai media, una partecipazione i cui strumenti pratici sono nelle mani dell’elite stessa al potere – d’altra parte i movimenti artistici devono battersi, e si batteranno, per avere proprie forme di riconoscimento finanziario. Perché batterisi (e soprattutto per una lunghezza d’onda) se i media curatoriali realizzano di per se stessi la filosofia del comune? Se è questa la loro vocazione strutturale? E’ falso che la curatività mediale rappresenti, nell’ordine attuale, uno strumento di pura e semplice distribuzione. Ancora una volta, in tal modo, non si fa che collegarla a una ideologia che trova altrove le sue determinazioni finanziarie. Per dirlo altrimenti, gli strumenti curatoriali sarebbero un mezzo per la diffusione e la vendita dell’ideologia dominante: e da qui risulterebbe l’assimilazione del rapporto finanza/schiavizzazione con il rapporto tra produttore/esposizione della curatorialità e le fruizioni ricevitrici irresponsabili. Ma non è in quanto veicoli di una congiunzione sbagliata (Carrington/Federici), bensì per la loro forma e per il loro stesso modo di operare che i media costituiscono un rapporto sociale, che non è di sfruttamento, ma di astrazione, di separazione, di abolizione dello scambio. I curatori non sono coefficienti, ma operatori dell’ideologia neo-liberista.
Nelle attuali condizioni, questa via porta alla ferocia generale ed alla simulazione diffusa. A sempre più artisti nel mondo, Das Kapital lancia un messaggio ancora più duro: “Siete superflui, non ci interessate neanche per impoverirvi, perché la vostra stessa schiavitù non rende abbastanza. Per noi, potete anche andare sulla luna. Sbrigatevela da soli, basta che non chiediate supporto”. In questa situazione, forse non è neanche più tanto necessario “combattere il lavoro curatoriale”. Ci sta già pensando – dal suo interno – il sistema produttore di merci. Il compito che si pone è allora un altro: trovare una forma di vita sociale basata non più sul lavoro curatoriale, ma su decisioni comuni di cura, sull’impiego delle risorse disponibili. L’addio al curatorialismo non è un’opzione che si possa scegliere, nel caso in cui gli avversari del lavoro offrano davvero alternative che convincano tutto il mondo. La demolizione dell’industria culturale è già avvenuta in buona parte del mondo ed è in atto nel resto; l’unica questione è sapere che cosa verrà dopo. Prima si smette di voler restaurare il “terziario disavanzato”, e ci si mette a costruire delle alternative, meglio è. Non si tratta però semplicemente di ribattezzare “attività libera” ciò che dovrebbe essere normalmente riconosciuto “lavoro culturale”. Bisogna reintegrare le sfere separate della vita, ritornare a una riproduzione complessiva della società, in cui la produzione “economica” non è un fattore a sé, alla cui presunta razionalità vengono subordinate tutte le altre condizioni. Un tale superamento del lavoro non è realizzabile con qualche artifizio di ingegneria sociale, o con qualche fobia curatoriale che tiene insieme forme prive di contenuti, ma presuppone un cambiamento dei paradigmi di civiltà. Un cambiamento, tuttavia, che non può situarsi in un lontano futuro, ma da cui dipende giorno per giorno il destino di una parte crescente dell’umanità.